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giovedì 30 ottobre 2014

Un esempio di tenacia e di amore per la vita.

Luisa ha 26 anni e il prossimo 28 ottobre discuterà la sua tesi di laurea in Matematica all’Università Federico II di Napoli, partendo da una media voto di 30 su 30. Solo che Luisa (il nome è di fantasia) la sua tesi la discuterà comunicando solo con lo sguardo, seduta sulla sua sedia a rotelle. Perché questa napoletana «verace» è affetta dalla nascita da tetraparesi spastica, una paralisi che colpisce gli arti impedendo ogni movimento, ma che non le ha impedito di arrivare ad un traguardo difficile per molti coetanei.

L’AIUTO DI VALENTINA. Anche il giorno dell’esame Luisa arriverà in facoltà con Valentina Ianuarii (foto a destra), 32 anni, la giovane assistente alla comunicazione che l’ha accompagnata ogni giorno della sua vita universitaria grazie al progetto Sinapsi (il centro di ateneo per il diritto allo studio delle persone con disabilità). Valentina è stata il “ponte” verso il mondo esterno di Luisa, in un delicato equilibrio che si è trasformato in un’amicizia molto forte: «L’ ho incontrata per caso, ma non immaginavo un percorso del genere. In sei anni Luisa mi ha dato tantissimo», confida per la prima volta a tempi.it

«O TI AMA O NIENTE». Valentina ha incontrato Luisa dopo aver vinto un bando dell’università per un’assistente alla comunicazione alternativa: «Non avevo capito bene di che si trattasse. Ci siamo incontrate la prima volta al centro Sinapsi nel dicembre 2007. Ci siamo subito piaciute a pelle: lei, l’ho scoperto dopo, ha sempre impatti netti. O ti ama o niente da fare. Luisa vive sulla sedia a rotelle, non può parlare, non può muovere nessun arto volontariamente. Compie soprattutto movimenti inconsapevoli. Ma riesce a muovere la testa e comunicare con lo sguardo, rispondendo a domande binarie. Se dice no, alza gli occhi verso l’alto, per dire di sì guarda in basso a sinistra. Poco dopo il primo incontro ci siamo riviste a casa sua, dove io ho fatto un training con la madre, che mi ha insegnato il modo per parlarle. La madre di Luisa, insegnante di matematica, è una persona fantastica. È lei che mi ha insegnato tutto. All’inizio mi dava dei dettagli della vita di Luisa, io dovevo studiarli e poi lei mi interrogava. Superato questo primo periodo, a febbraio 2008 per Luisa c’è stato il primo giorno di università».

IL PRIMO GIORNO. «Quella mattina  - continua Valentina - sono andata a prenderla a casa. Ero più emozionata di lei, perché era il primo giorno anche per me. Luisa veniva da una bellissima esperienza al liceo. All’università si sentiva però spaesata. Le aule sono grandi, ad ogni corso ci sono compagni diversi, che in parte all’inizio l’hanno evitata. L’impatto è stato traumatico. Ho cercato di aiutarla a mettersi in comunicazione con gli altri, senza forzare nessuno. Pian piano qualche collega di corso si è avvicinato, incuriosito». Ricorda ancora Valentina con piacere: «Luisa ha i suoi gusti. Lei è una ragazza che riesce a esprimersi in modo molto diretto. Perciò capita che, se qualcuno le sta simpatico, lei l’accolga con uno dei suoi sorrisi espansivi e che, se si avvicina qualcun altro che non le piace, faccia una smorfia eloquente. È una napoletana verace in questo. Pian piano si è creata la sua “rete”».

IL DONO DELLA MATEMATICA. Valentina spiega che Luisa ha messo in chiaro da subito che non vuole essere trattata da nessuno come una “diversa”. «Il cammino è stato difficile, perché lei ha voluto, e dovuto, dimostrare sul campo quanto vale effettivamente. Io, sinceramente, faccio fatica con la matematica e delle lezioni, davvero difficili, non capivo granché. Lei invece non riesce a tenere lo sguardo fisso molto tempo su un punto, che sia la pagina di un libro o la lavagna. Molti docenti perciò all’inizio si sono interrogati su come potesse seguire effettivamente i corsi. Ci sono due episodi che lo spiegano bene. Un giorno, durante il corso di Analisi matematica, un professore pose una domanda difficilissima. Nessuno degli studenti riusciva a rispondere in modo corretto. Notai che Luisa mi guardava insistentemente: voleva parlare. Le ho riformulato la domanda del professore in modo che lei rispondesse sì o no, poi ho alzato la mano e riferito la sua risposta. Era corretta, e lo stesso docente era meravigliato. In altre occasioni i docenti erano scettici sulla possibilità che lei seguisse le lezioni senza poter annotare le formule. Uno di loro fece una prova sulla lavagna, chiedendomi come avrebbe potuto rispondere alla sua equazione. Mi sono ricordata le parole della mamma di Luisa: mi aveva spiegato che riesce benissimo a fare le operazioni a mente. E così è avvenuto anche in quell’occasione. In pochi secondi, solo osservando la lavagna, Luisa ha memorizzato l’equazione e dato la soluzione corretta».

«NESSUN FAVORITISMO». Per consentire a Luisa di svolgere gli esami è stato congegnato un metodo ad hoc: «Prima un incontro informale di conoscenza con il docente in cui io spiegavo come funziona la comunicazione con Luisa. Poi un training sulla comunicazione tra i due, in modo che si comprendessero e che durante l’esame io diventassi una presenza muta. L’esame veniva preparato formulando domande a risposta binaria, o nel caso di particolari necessità a risposte multipla. Ci sono state materie dove tutto questo è stato più semplice (geometria, analisi e algebra), e altre più difficili (fisica), come ci sono stati giorni sì e giorni no. Il primo esame, lo ricordo bene, è stato di geometria. Lei era emozionata e di conseguenza anche i movimenti del suo sguardo non erano limpidi e netti. Abbiamo dovuto interromperla per qualche istante, per farla rilassare, poi abbiamo ripreso. È andato bene: ha preso 30. Ma poi Luisa è diventata più sicura e ha superato gli esami con voti alti, per lo più 30, qualche 28 e pochi 27. Le domande ad ogni esame sono state sempre minuziose e nessuno l’ha facilitata, anche per sua scelta. Se i colloqui con i professori duravano meno del solito, lei faceva una delle sue smorfie, finché non la rimettevano sotto torchio. Alcuni insegnanti le hanno detto esplicitamente che il suo livello di preparazione è elevato e superiore alla media».

«MI HA DATO TANTISSIMO». E così Luisa è arrivata alla discussione della tesi in algebra, la sua materia preferita. La stesura della tesi, come anche alcune forme di comunicazione sociale più elaborate, sono state rese possibili grazie ad un linguaggio particolare ideato dalla madre di Luisa. Spiega Valentina: «La madre ha realizzato un cartoncino con le lettere dell’alfabeto. Tenendo fermo il polso di Luisa, lei può muovere le dita, indicare le lettere, e così formare delle parole. È con questo metodo che ha “dettato” alla mamma la sua tesi. E sempre così ha “dettato” a me, spesso, i testi dei messaggi ai suoi amici. Luisa infatti nel tempo libero ama molto usare la chat di Facebook e chiacchierare con i compagni, preferibilmente senza che la madre si intrometta, come tutti i suoi coetanei». Il 28 ottobre Luisa terminerà il suo percorso universitario, ma Valentina continuerà a frequentarla perché «Luisa in sei anni mi ha dato tantissimo. Non è stata solo un’esperienza incredibile, e forse irripetibile, dal punto di vista professionale. Dal punto di vista umano Luisa mi ha dato anche di più. Con la sua condizione molto particolare, mi ha costretta a vedere il mondo e le persone oltre le parole e gli schemi. All’inizio credevo fosse impossibile comunicare con lei e adesso riusciamo a capirci anche solo con lo sguardo: è molto amata, è una persona gioiosa, come nessuno penserebbe a causa della sua malattia. Voleva raggiungere quest’obiettivo per dimostrare a se stessa che ce la poteva fare. Ed è stato così, tra lo stupore di tutti».



mercoledì 29 ottobre 2014

Carlo Levi: reportage dall'India e dalla Cina.

«Carlo Levi, per incarico de La Stampa, ha compiuto un viaggio in India. È ritornato pochi giorni fa, ed ora, in una serie di articoli, narrerà le varie tappe del suo itinerario, e dirà le sue impressioni e osservazioni sul grande Paese che, proprio in questi giorni, appare uno dei più importanti protagonisti della politica internazionale». Questo distico apparve in apertura della famosa terza pagina della Stampa, accanto a una foto del maresciallo Zukov, in precario equilibrio su un’elefantessa, durante una visita di delegati sovietici in India. Bastano queste poche parole introduttive a farci capire com’era diverso il giornalismo in un mondo in cui l’informazione viaggiava ancora lenta, in cui ci si poteva permettere di scrivere al ritorno e di pubblicare su un quotidiano un grande reportage in quattordici puntate, frutto di un mese di viaggio nella nazione che da appena dieci anni aveva conquistato l’indipendenza dagli inglesi. Il valore stava nell’approfondimento, nella capacità descrittiva e non nell’immediatezza; nessuno pretendeva di vivere in una continua diretta, in quell’infinito presente dove la notizia vale solo se è accaduta adesso e tutto viene considerato superato dopo meno di ventiquattro ore.  

Il giornalismo è cambiato insieme alle abitudini di lettura, alla nostra gestione del tempo: negli anni Cinquanta la terza pagina, la cultura di un giornale, aveva un unico concorrente, il libro. Quando Levi scrive, la Rai ha un solo canale e il segnale della televisione da appena pochi mesi copre tutta l’Italia, le serate non sono saturate da centinaia di canali tv, da dvd, tablet, smartphone, corsi di cucina, di yoga e attività sportive. La terza pagina gode di una centralità assoluta nell’alfabetizzazione del lettori, nell’educazione al mondo, nella costruzione di dibattiti e nella formazione dell’opinione pubblica.  

Così, quel 29 gennaio del 1957, quando Levi cominciò a raccontare la sua India, i lettori partirono con lui. La prima cosa che emerge, in una stagione in cui non venivamo ancora bombardati dalle immagini, è l’insistenza delle descrizioni minute, l’osservazione dei luoghi, delle persone, dei paesaggi, che catturano un lettore che non ha molte altre occasioni di confronto con luoghi così distanti e che viene affascinato dall’esotico. Basti la descrizione dell’ingresso nella città vecchia di Delhi come esempio: «In mezzo al crocicchio sta, come uno di quegli antichi monumenti indiani pullulanti di figure scavate nella roccia, un gregge, o meglio un groviglio di vacche disparate: grandi, piccole, bianche, grigie, pezzate, punteggiate, tigrate, macchiettate come leopardi per chissà quali infiniti selvatici incroci, gibbute, ossute, con le corna dipinte di rosa e lo sguardo, insieme mite e feroce, pieno di sacra impenetrabilità. Entriamo nel primo vicolo passando tra altre vacche sdraiate, come sacri macigni, e capre e cani, e galline, corvi, topi e scoiattoli, e siamo subito avvolti, come in un’acqua mossa e caotica, nella infinita molteplicità colorata». Una narrazione in cui emergono tutte le capacità di analisi e di disegno di uno scrittore che era anche pittore, e che aveva un religioso rispetto del dettaglio e delle sfumature. I suoi reportage sono una serie di fotografie, di affreschi sulla società indiana. [...]  

Il viaggio è un successo di pubblico, tanto che la direzione del giornale – allora nelle mani di Giulio De Benedetti – due anni dopo, tra il novembre del 1959 e il gennaio del 1960, pubblica un nuovo viaggio di Carlo Levi, questa volta in Cina. Ancora una volta abbondano le descrizioni, come quella della piazza Tienanmen e della Città proibita, che riescono a stupire perché non erano negli occhi dei lettori, che non avevano visto le diapositive degli amici di ritorno dalle vacanze, le foto su Instagram o L’ultimo imperatore di Bertolucci.  
Eppure il senso del cambiamento, delle distanze che si accorciano, è già presente in Levi che all’arrivo a Pechino direttamente da Mosca si interroga: «Sono dunque finite le distanze? Un viaggio a Pechino è diventato il volo di un giorno. Non per questo il vedere e il comprendere diventano più facili: il lento passaggio di una volta attraverso terre e paesi preparava al nuovo diverso, e permetteva di lasciare dietro di sé i pensieri di prima, di essere aperti e disponibili a una realtà faticosamente e lentamente raggiunta: di diventare, come dovrebbe essere il viaggiatore e il poeta, come una spugna asciutta e vuota che può tutta riempirsi delle acque dove è immersa, per riversarle poi agli altri che sono rimasti ad aspettare. Il volo troppo veloce non permette questa liberazione dal passato».  

Il viaggio in Cina è però reso più difficile dalla realtà di un paese con un regime comunista che non ha certo la tradizione giornalistica britannica e la libertà di movimento trovata in India, tanto che il peso della propaganda affiora spesso nel racconto e la descrizione del mondo dei contadini, centrale in tutto il lungo reportage, non regge all’esame della storia. Levi visita le campagne cinesi nei mesi centrali del «Grande balzo in avanti», il piano economico voluto da Mao per industrializzare e modernizzare il paese attraverso le Comuni del popolo, e ne resta poeticamente affascinato. È colpito dallo sforzo – che ritiene spontaneo e convinto – di riorganizzazione delle campagne, di far marciare accanto agricoltura e industria, di far funzionare piccole fornaci per il metallo in ogni piccola comune, e registra soddisfatto le assicurazioni sulla fine della fame e della carestia. Ma siamo alla vigilia della Grande Carestia del 1960, che farà decine di milioni di morti in Cina, mostrando al mondo e consegnando alla Storia i limiti drammatici di una pianificazione insensata e folle. 

Resta in queste pagine di Levi la testimonianza di un mondo, del suo percorso storico e culturale, un documento con cui confrontarsi. In un tempo che sembra dimenticare il valore della lentezza e della profondità è questo, certo, un esempio da recuperare. 

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“Buongiorno, Oriente”  
Esce domani per Donzelli Buongiorno, Oriente (pp. 256,  24), un volume che raccoglie i reportage dall’India e dalla Cina realizzati da Carlo Levi tra il 1957 e il 1959 per la terza pagina della Stampa. Scrittore e pittore (accanto al titolo un autoritratto del 1945), intellettuale di spicco dell’antifascismo, Carlo Levi (nato a Torino nel 1902 e morto a Roma nel 1975) tra il 1935 e il 1936 fu condannato dal regime al confino in Lucania: da quell’esperienza nacque il celeberrimo Cristo si è fermato a Eboli. In questa pagina anticipiamo la prefazione al volume Donzelli scritta da Mario Calabresi e un brano di un reportage pubblicato sulla Stampa del 1° marzo 1957  
Mario Calabresi, Dal nostro inviato Carlo Levi, "La Stampa", 28-10-14.

martedì 21 ottobre 2014

Caccia ai fannulloni in Bielorussia.

Un notizia che dovrebbe far riflettere, al di là delle ovvie divergenze che esistono tra un regime democratico e uno illiberale.

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Il presidente bielorusso ha dato il suo assenso per la reintroduzione nel Codice Penale del vecchio articolo che puniva con la reclusione fino a 5 anni e lavori forzati i rei di parassitismo, ossia coloro che non lavoravano. Lukashenko così ha motivato la sua idea: “Reintroducete nel Codice Penale il reato di parassitismo. La gente lo capirà. Non c’è bisogno di accantonare niente, di quel buono che c’era nell’epoca sovietica, e nemmeno la terminologia”.
“Coloro che non lavorano da nessuna parte - ha affertmato il presidente bielorusso - “bisogna costringerli a lavorare con ogni mezzo”. L’ordine del presidente è: “Fare in modo che entro il 1 gennaio prossimo lavorino tutti – bisogna costringere tutti a lavorare”. L’iniziativa presidenziale va in linea con la proposta del capo del governo bielorusso, avanzata già nel 2013 – tassare tutti i nullafacenti, coloro che non svolgono un lavoro per il bene della società. In epoca sovietica il condannato più illustre - con il massimo della pena di 5 anni - fu il poeta Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura del 1987. 

mercoledì 1 ottobre 2014

Un sepolcro che potrebbe innescare un nuovo conflitto.

Il mausoleo del nonno del fondatore dell’Impero ottomano, Suleiman Shah. potrebbe innescare l’intervento turco in Siria. La tomba si trova su un’isoletta in mezzo all’Eufrate, in territorio siriano, a pochi chilometri dal confine turco. Dal 1921 è sorvegliato dai soldati di Ankara, in seguito a un accordo con i francesi, allora potenza coloniale in Siria, poi mantenuto da Damasco. 

Suleiman Shah (1178 – 1236) era il nonno di Osman I, fondatore dell’Impero ottomano. Il suo mausoleo è finito fuori dai confini turchi dopo la spartizione dell’Impero, alla fine della Prima guerra mondiale. Ma per i turchi ha un valore sacro e ispira i più forti sentimenti nazionalistici. 

Nel caos della guerra civile l’isoletta sull’Eufrate è finita al centro degli scontri fra ribelli e regime di Assad, e fra ribelli moderati e islamisti. Ora l’Isis controlla il territorio circostante. Secondo il quotidiano di Isnabul «Taraf», durante le trattative per il rilascio dei 49 ostaggi turchi a Mosul, l’Isis avrebbe chiesto il ritiro della piccola guarnigione turca dal mausoleo. 

Il governo di Erdogan ha duramente respinto le insinuazioni che era pronto a ritirare i soldati. Ma la situazione attorno al mausoleo non è chiara. L’unica cosa sicura è che se dovesse essere violata la tomba di Suleiman per Ankara sarebbe un casus belli fortissimo. O anche un’ottima scusa per dare il via all’intervento in territorio siriano che si sta facendo sempre più probabile.