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domenica 27 dicembre 2015

Giovani occidentali che diventano militanti dell'ISIS.

I motivi che spingono diversi cittadini europei o statunitensi a diventare terroristi sono oggetto di studio da diverso tempo; di recente – soprattutto dopo gli attentati di Parigi e di San Bernardino – se ne sono tornati a occupare molti esperti. Non ci sono interpretazioni univoche sul perché e sul come si diventi terroristi (Simon Cotte dell’Atlantic ha scritto che a volte “non ha alcun senso”, citando Pastorale Americana di Philip Roth): qualcuno parla di ragioni personali, qualcun altro si concentra sulle condizioni legate alle società dove queste persone vivono. In generale molti esperti oggi concordano sul fatto che la scelta di unirsi a un gruppo terroristico non abbia troppo a che fare con le condizioni economiche di una persona, e che quando si studia questo fenomeno è necessario considerare le molte differenze che esistono da paese a paese (per esempio da stati come la Francia o il Belgio sono partite migliaia di persone che sono andate a combattere in Siria, mentre in stati come l’Italia o la Spagna i numeri sono molto più ridotti). Un articolo del Washington Post intitolato “Why young people become jihadists, according to a top expert” si riferisce alle opinioni di Oliver Roy, orientalista e politologo francese molto noto e citato anche dalla stampa italiana.
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La minaccia posta dallo Stato Islamico (o ISIS) agli Stati Uniti e all’Europa è spaventosa anche perché non è necessariamente limitata dalla geografia. L’ISIS è concentrato in Siria e in Iraq – per lo meno – ma molte persone di tutto il mondo si sono “radicalizzate” e hanno deciso di avvicinarsi al gruppo terrorista. Un sostanzioso numero di terroristi radicali islamici che si sono convertiti di recente sa molto poco di Islam, ha detto Olivier Roy, professore dell’Istituto universitario europeo di Firenze ed esperto di terrorismo islamico: durante una sua lezione, Roy ha cercato di adottare una “prospettiva scientifica sulle cause/circostanze” che portano diverse persone a unirsi a gruppi radicali.
Roy ha detto: «La radicalizzazione è una rivolta giovanile contro la società, articolata con una narrativa religiosa islamica del jihad. Non è una rivolta della comunità musulmana vittima della povertà e del razzismo: solo i giovani si uniscono [ai gruppi jihadisti], inclusi coloro che si convertono e che non hanno condiviso le “sofferenze” dei musulmani in Europa. Questi ribelli trovano nel jihad una causa globale e “nobile” e sono di conseguenza strumentalizzati da un’organizzazione radicale (al Qaida, ISIS), con una propria agenda strategica».
Prima di partire per la Siria, due britannici di 22 anni che nel 2014 sono stati condannati per reati legati al terrorismo:ordinarono online alcuni libri sull’Islam: “Islam for Dummies” (“Islam per negati”), “The Koran for Dummies” (“Il Corano per negati”) e “Arabic for Dummies” (L’arabo per negati”). I due si erano ispirati al materiale online di al Qaida e avevano usato Internet per parlare con altri radicali che si trovavano all’estero. Fu la madre di uno dei due uomini a contattare le autorità poco dopo che i due lasciarono le loro case per andare in Siria.
Secondo Roy la religione ha un ruolo nella radicalizzazione principalmente perché offre alle persone una narrativa di ricostruzione della vita in linea con i concetti di “verità” e “bene”: queste persone possono dire così che le loro azioni siano state compiute per propositi più alti. In realtà, molto spesso le loro motivazioni sono personali. Non esiste un archivio completo dei militanti che si sono uniti all’ISIS e ad altre organizzazioni, ma Roy ha analizzato storie individuali di diverse radicalizzazioni, sostenendo che sia necessario capirne il funzionamento prima di poter sperare di prevenire o porre rimedio al problema.
1. Il radicalismo è soprattutto un movimento giovanile di ribellione
Secondo Roy molte delle persone che si sono radicalizzate sono giovani e il loro comportamento è spesso un tipo di ribellione contro genitori e parenti: è articolato con una narrativa religiosa del jihad, ma è di fatto una ribellione contro la società. La radicalizzazione avviene tipicamente attraverso reti di amici o colleghi, fuori dalla propria famiglia o dalla comunità musulmana nel suo complesso. Molti europei radicali hanno una storia di delinquenza o di traffico di droga, dice Roy, mentre sono in pochi quelli che hanno una storia di militanza politica o religiosa.

2. Pochi radicali vengono direttamente dal Medio Oriente
La maggior parte dei radicali europei sono musulmani, ma sono pochi gli immigrati provenienti dal Medio Oriente, dice Roy: chi diventa terrorista fa parte generalmente della seconda generazione di musulmani, mentre altri sono convertiti all’Islam.

3. Lo Stato Islamico è un movimento moderno
Anche se l’ISIS dà l’idea di essere qualcosa legato allo scorso millennio – per le sue idee barbariche sulla giustizia, la sua concezione delle donne e la retorica per la restaurazione dell’antico califfato – i suoi metodi sono molto moderni. L’ISIS ha ispirato quello che Roy chiama “una Umma virtuale”: un’idea globale e astratta di comunità musulmana creata dal potente apparato di propaganda del gruppo. Alcuni radicali in posti lontani sono parte di questa società virtuale, che però nella realtà non esiste: si sono radicalizzati attraverso Internet cercando di raggiungere degli obiettivi che non hanno molti legami con quello che succede per davvero in Siria e in Iraq.

4. La maggior parte dei radicali sono motivati dal desiderio di essere degli eroi, di compiere della violenza o di ottenere una vendetta
Roy dice che la maggior parte di quelli che si radicalizzano sono affascinati dall’idea di diventare parte di una “piccola fratellanza di supereroi che vendichi la Umma”. Molti sono motivati dalla possibilità di compiere qualche azione che finisca nei titoli dei giornali. Gli omicidi ordinari ricevono raramente una tale copertura dai media, ma gli atti che vengono associati al terrorismo vengono riportati più spesso. Il desiderio di suicidio o di vendetta per una reale o presunta marginalizzazione della comunità musulmana è spesso più forte di qualsiasi altra utopia di costruzione di una società diversa. Roy dice: «I radicali non sono persone felici, né divertenti».

5. I radicali hanno tipicamente pochi legami con la “comunità” musulmana
La loro radicalizzazione avviene di solito come reazione contro la comunità musulmana, contro gli imam o contro i propri genitori. I radicali non sono considerati un’avanguardia o rappresentanti di una più ampia comunità scontenta; al contrario, molti radicali hanno rotto i rapporti con le loro famiglie e considerano gli altri musulmani come dei “traditori”.

6. Il che significa che è abbastanza inutile chiedere alla comunità musulmana di de-radicalizzare i radicali
I movimenti radicali per loro natura vengono rifiutati dall’Islam moderato, che quindi ha poca influenza su di loro. Di solito i legami tra i radicali e il resto della comunità musulmana sono molto deboli o inesistenti, dice Roy.

7. Dovremmo stare attenti a come descriviamo i legami tra radicali e comunità musulmana
L’analisi di Roy suggerisce che la tendenza a descrivere i musulmani come terroristi – oltre al fatto di essere del tutto inaccurata nei fatti – potrebbe incoraggiare ulteriore radicalizzazione. Identificare tutti i musulmani come terroristi alimenta la retorica della persecuzione e della vendetta, la stessa che motiva la radicalizzazione.

8. Quello che dobbiamo fare è sovvertire le affermazioni dello Stato Islamico tra i radicali e i potenziali radicali
Secondo Roy è necessario smontare il mito che i terroristi radicali siano degli eroi e sovvertire l’idea che l’ISIS stia avendo successo, nonostante i nostri contrattacchi. Dobbiamo anche incoraggiare l’idea che l’Islam sia una parte normale della società, non una minoranza pericolosa e oppressa. Roy dice, riferendosi all’Islam: «Invece che “eccezionalizzarlo” dovremmo “normalizzarlo”».

Profughi: il punto di vista di Milos Zeman, Presidente della Repubblica Ceca.


Milos ZemanDurante il tradizionale messaggio alla nazione nel giorno di Natale, il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, ha fatto alcune affermazioni sui migranti che sono state molto riprese e criticate. Tra le altre cose Zeman ha detto:
«Sono profondamente convinto che siamo di fronte a un’invasione organizzata e non a un movimento spontaneo di profughi. […] Una grande maggioranza dei migranti irregolari sono giovani uomini in buona salute e single. Mi chiedo perché questi uomini non prendano le armi e non combattano per la libertà dei loro paesi contro lo Stato Islamico»
Il primo ministro ceco, il socialdemocratico Bohuslav Sobotka, ha criticato il messaggio di Zeman sostenendo che è basato “su pregiudizi e sulla sua abituale semplificazione delle cose”. Zeman è stato eletto presidente della Repubblica Ceca all’inizio del 2013: in passato era stato anche lui membro del Partito Socialdemocratico Ceco, come Sobotka, ma nel 2009 ha fondato un nuovo partito – il Partito dei Diritti Civili – che propone una sorta di nazionalismo di sinistra.

Non è la prima volta che Zeman prende posizioni del genere sulla crisi dei migranti, la peggiore in Europa dalla Seconda guerra mondiale. A novembre Zeman partecipò a una manifestazione anti-Islam a Praga in compagnia di politici e unità paramilitari di estrema destra. Più in generale, in passato si era opposto al sistema delle “quote” proposto dall’Unione Europea, che prevede la distribuzione dei rifugiati nei diversi paesi della UE. Attualmente nel paese risiedono circa 20 mila musulmani. La Repubblica Ceca era già stata condannata in passato dalle Nazioni Unite per i toni xenofobici utilizzati dai suoi leader politici.

sabato 26 dicembre 2015

India-Pakistan. Prove tecniche di riconciliazione ?


Narendra Modi, Nawaz Sharif
 Da sinistra: Narendra Modi e Nawaz Sharif.
Il primo ministro indiano, Narendra Modi, è arrivato oggi in Pakistan in visita ufficiale per incontrare il primo ministro pakistano, Nawaz Sharif. La notizia della visita – che è stata inaspettata – è stata ripresa dai giornali di tutto il mondo, visti i rapporti complicati tra i due paesi (il Times of India sta seguendo la storia con un liveblog): era dal 2004 che un primo ministro indiano non andava in Pakistan. Modi ha annunciato la sua visita in Pakistan questa mattina e ha scritto su Twitter: «Sono in attesa di incontrare oggi pomeriggio il primo ministro Nawaz Sharif a Lahore, dove farò tappa prima di tornare a Delhi» (prima di arrivare in Pakistan, Modi era in visita ufficiale in Afghanistan).
Una volta arrivato all’aeroporto di Lahore, città del Pakistan orientale, Modi è stato abbracciato da Sharif, ha scritto Reuters. Poi i due sono andati in elicottero nella residenza di famiglia di Sharif e hanno avuto un incontro di circa 60 minuti, prima che Modi fosse riaccompagnato in aeroporto per tornare in India. L’incontro, ha aggiunto Reuters, era stato chiesto da Modi questa mattina.
La rivalità tra India e Pakistan è molto vecchia e le questioni aperte, soprattutto di confine, sono ancora diverse. Da quando ottennero l’indipendenza dal Regno Unito nel 1947, i due paesi combatterono tre guerre, due delle quali per ottenere il controllo del Kashmir, una regione che si trova nel nord del sub-continente indiano. Dal 2003 è in vigore una tregua, ma India e Pakistan si accusano periodicamente e reciprocamente di violarla. I due paesi competono anche per imporre la propria influenza in Afghanistan, dove in molti credono che il Pakistan sostenga in qualche modo i talebani allo scopo di indebolire il governo afghano e limitare l’influenza dell’India, che con l’Afghanistan fa parecchi affari. La rivalità tra Pakistan e India è stata presa molto seriamente in passato anche dagli altri stati, visto che sia indiani che pakistani sono dotati dell’arma nucleare e una eventuale guerra potrebbe provocare delle conseguenze molto estese.
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La visita di Modi in Pakistan, comunque, non è stata accolta positivamente da tutti gli esponenti politici indiani. Il Congresso Nazionale Indiano (partito di opposizione di centrosinistra) ha criticato molto la visita di Modi (che fa parte invece del Partito del Popolo Indiano, un partito conservatore), definendola “irresponsabile” e dicendo che non sono cambiate le condizioni per giustificare un miglioramento dei rapporti diplomatici tra i due stati. Negli ultimi tempi comunque, hanno scritto diversi siti di news internazionali, i rapporti tra Pakistan e India sono leggermente migliorati. Il mese scorso Modi e Sharif avevano avuto una breve conversazione a Parigi in occasione della conferenza sul clima e di recente il ministro degli Esteri indiano, Sushma Swaraj, è andato in visita in Pakistan – la prima visita di quel tipo da tre anni.

L’inaspettata visita di Modi in Pakistan, "Il Post", 25-12-15.

Immigrati e lingue nazionali.

John McWhorter, professore di linguistica alla Columbia University specializzato nelle trasformazioni delle lingue e nelle differenze tra le lingue parlate da diverse popolazioni, ha spiegato sull’Atlantic come i recenti fenomeni di migrazione delle persone stiano influenzando le regole grammaticali delle lingue parlate nei paesi di destinazione dei migranti, soprattutto in quelli europei. La premessa che fa McWhorter è che la storia della lingua «è una storia di estinzione»: nel corso dei decenni molte lingue sono scomparse e alcune previsioni dicono che tra cento anni ne saranno sopravvissute solo poche centinaia. Contemporaneamente però, spiega McWhorter, stanno nascendo nuovi dialetti, soprattutto nelle aree urbane: questa tendenza è dovuta all’aumento degli immigrati di seconda generazione e in un certo senso va in controtendenza rispetto allo scomparire delle lingue. La conseguenza è si stanno sviluppando nuovi modi di parlare.
In diversi paesi europei si parlano lingue con strutture grammaticali relativamente complesse, piene di regole ed eccezioni che a volte sono difficili da rispettare anche da chi le parla come prima lingua: l’italiano e il tedesco, per esempio. Ovviamente imparare queste lingue è molto più facile per i figli delle persone straniere che si sono trasferite in Italia e in Germania, e in generale imparare fluentemente una lingua straniera è molto più facile prima dell’adolescenza: se spesso chi si trasferisce in un paese straniero da adulto non arriva a padroneggiare perfettamente la lingua, è molto probabile che i suoi figli ci riescano. Secondo McWhorter, però, la lingua che parleranno i figli degli immigrati non è quella “standard” ma presenta diverse variazioni. McWhorter prende come esempio la frase tedesca per dire “domani vado al cinema”,morgen gehe ich ins Kino: in questa formulazione il verbo (gehe) viene posto prima del soggetto (ich): i figli di immigrati tuttavia, spiega McWhorter, diranno probabilmente morgen ich geh Kino, mettendo il soggetto prima del verbo e omettendo la preposizione “al”. Questa nuova forma di tedesco parlata soprattutto nelle aree urbane dai figli degli immigrati viene chiamata Kiezdeutsch, e secondo McWhorter è del tutto simile indipendentemente dalla provenienza dei genitori.
Il fenomeno è simile a quello che ha portato allo svilupparsi del cosiddetto “Black English”, l’inglese parlato dagli afroamericani negli Stati Uniti: una lingua, spiega McWhorter, serve anche a comunicare l’identità di chi la parla, e il Black English è l’eredità dell’inglese incompleto che imparavano gli schiavi africani deportati in America. McWhorter fa l’esempio della frase “perché lei dice che lui è l’unico?”, why does she say he is the only one?: la formulazione Black English è why she say he the only one?, che omette quindi “does” e “is”, le forme verbali irregolari solitamente trascurate da chi sta imparando una lingua. Ma se siete abituati a guardare serie tv e film americani in lingua originale sapete bene che forme di slang di questo tipo vengono parlate da tutti i giovani, e non solo dai neri.
Questa tendenza è meno marcata in paesi di immigrazione più recente, per esempio l’Italia, dove tutto sommato le forme di slang trasformate dai parlanti di paesi stranieri sono meno evidenti, appunto, di quelle riscontrabili in Germania e negli Stati Uniti. In ogni caso McWhorter sostiene che come il Black English non è una combinazione di inglese e lingue africane, il Kiezdeutsch non è una combinazione di arabo e tedesco o turco e tedesco. È un meccanismo di trasformazione invece simile a quello operato di generazione in generazione da tutte le popolazioni, che parlano una lingua sempre diversa da quella usata dai propri genitori. Le lingue, spiega McWhorter, sono dal punto di vista delle regole molto più complesse di come poi vengono parlate in pratica, in modo da non porre limiti alla libertà espressiva di chi le parla.
Le nuove versioni delle lingue europee parlate dagli immigrati sono chiamate in linguistica “multi-etnoletti”, ma il fenomeno è ovviamente riscontrabile in tutto il mondo. L’Indonesia per esempio ha imposto l’indonesiano come lingua ufficiale di tutti i suoi abitanti, nonostante sia la lingua madre di solamente un quarto circa dei suoi abitanti: si sono perciò formate centinaia di versioni multietnolettiche della lingua, tutte come diverse forme di semplificazione. Prima queste sono state il risultato dell’adattamento di chi ha dovuto imparare l’indonesiano, ma poi sono diventate la lingua parlata anche delle successive generazioni che lo hanno appreso come lingua madre. I multi-etnoletti, spiega McWhorter, non prendono i vocaboli da una lingua e la grammatica da un’altra per unirli, come succede nelle lingue creole. È facile capire un multi-etnoletto per chi parla come lingua madre quella da cui questo è derivato (cosa che non succede con le lingue creole): ciononostante, dice McWhorter, i multi-etnoletti sono «la più fertile fonte di innovazione linguistica del nostro tempo».
Non bisogna infatti confondere i multi-etnoletti con semplici slang giovanili destinati a scomparire in poco tempo: un multi-etnoletto dello Swahili sviluppato dai figli degli immigrati in Congo all’inizio del Novecento oggi è parlato da milioni di persone. È molto probabile quindi che con il passare degli anni i multi-etnoletti in Europa – anche in Italia, specifica McWhorter – si affermeranno sempre di più, generando prevedibili allarmismi circa il deterioramento della lingua originale. In realtà non c’è da preoccuparsi, secondo McWhorter: i multi-etnoletti si sviluppano e si diffondono indipendentemente dalle lingue standard, e le persone si abituano a utilizzare i primi per situazioni informali e le seconde per quelle formali. Anzi: secondo McWhorter, se si considera l’accertata tendenza alla scomparsa delle lingue nel mondo, il fenomeno dei multi-etnoletti «è una storia di nascita».

L'Islanda, paradiso del libro.

Per alcuni di noi un libro è il tipico regalo impersonale e fatto all’ultimo momento, ripiegando sul primo best seller che ci si ritrova per le mani in libreria: nel migliore dei casi verrà iniziato e abbandonato, nel peggiore dimenticato, buttato o riciclato. Per questo al Post abbiamo preparato alcuni consigli sui libri da regalare, per chi già ama farlo e per chi non ha la minima idea: potete scegliere tra i migliori libri di moda, quelli per bambini, quelli per chi va a correre o cammina molto, quelli d’attualità per capire un po’ di cose sull’Islam, quelli da colorare per adulti (la grande moda del momento) e quelli per chi passerà le feste in viaggio, tra Parigi, Londra e San Marino.
C’è però un paese in cui un libro non è considerato un ripiego ma il regalo più atteso è gradito: è l’Islanda, dove –spiega a NPR Kristjan B. Jonasson, presidente dell’Associazione degli editori islandesi – «la tradizione di regalare i libri è profondamente radicata nel modo in cui le famiglie vivono il Natale. Di solito ci scambiamo i regali la sera del 24 dicembre e poi passiamo la notte a leggere. Per molti aspetti, quest’usanza è la spina dorsale dell’editoria in Islanda». La maggior parte dei libri viene infatti pubblicata e venduta tra settembre e la fine di novembre in vista delle feste, tanto che esiste persino una parola per indicare il fenomeno: Jolabokaflod, qualcosa come “l’inondazione dei libri per Natale”. La giornalista Hildur Knútsdóttir racconta sulla rivista islandese Reykjavik Grapevine che l’usanza risale alla Seconda guerra mondiale, quando le restrizioni in vigore limitavano l’importazione di molti beni dall’estero ma non delle carta, «e per questo i libri diventarono il regalo di Natale per eccellenza. Da allora gli islandesi hanno rispettato la tradizione».
A settembre gli editori distribuiscono gratis in tutte le case islandesi il Bokatidindi, un catalogo con tutte le nuove pubblicazioni. Il catalogo viene accuratamente studiato dagli islandesi che scelgono quali libri regalare e quali chiedere per le feste: si tratta soprattutto di romanzi e biografie, ma ovviamente non mancano sorprese come il successo di due anni fa della storia illustrata dei trattori in Islanda. In numeri assoluti, il mercato editoriale islandese è piuttosto piccolo, ma è molto sviluppato se si tiene conto del pubblico a cui è rivolto: gli islandesi sono circa 329 mila e ogni anno vengono pubblicati circa cinque libri ogni mille abitanti. Il catalogo di quest’anno comprende per esempio 842 nuovi volumi; in Italia sono stati 61mila nel 2014, per circa 60 milioni di abitanti. Sempre per dare un’idea, nel 2009 la biblioteca pubblica della capitale Reykjavík ha prestato 1,2 milioni di libri, per un totale di 200 mila abitanti.
Baldur Bjarnason, un ricercatore che si occupa dell’industria editoriale islandese, spiega che tutti gli islandesi comprano svariati libri all’anno; in Regno Unito e Stati Uniti i libri sono letti e comprati da una minoranza, mentre gran parte delle persone si limita a un libro all’anno. Bjarnason sottolinea che «i libri in Islanda sono un regalo importante, per questo sono sempre di carta. Qui non si regalano e-book». Secondo Bryndís Loftsdottir, che decide quali libri pubblicare per la catena Penninn-Eymundsson, fino a 15 anni fa si verificava un fenomeno simile per i tascabili: erano molto rari visto che gli islandesi non considerano i libri qualcosa da acquistare a buon mercato. Ultimamente se ne trovano di più grazie al successo di gialli e thriller scandinavi, venduti più spesso in questo formato.
Jonasson spiega che pubblicare tutti i libri nello stesso periodo è un comunque un rischio, finanziariamente parlando: per questo sempre più case editrici pubblicano qualcosa anche in primavera ed estate. «Pubblicare un romanzo di successo fuori dalla stagione natalizia – ricorda Bjarnason – è molto raro, a meno che abbia una sua storia a parte, come la saga di Harry Potter o quella di Twilight». In casi simili gli editori pubblicano i romanzi tradotti appena sono disponibili e i lettori li comprano sempre immediatamente.
L’interesse degli islandesi per i libri non si ferma alla lettura: Jonasson spiega che «c’è una sorta di mito che le persone amano raccontarsi qua: ogni islandese sogna di scrivere un libro. E circa il 50 per cento di loro alla fine lo fa. Prima di morire cercano in un modo o nell’altro di scriverlo». Anche la BBC scrive che l’Islanda «ha in percentuale più scrittori e libri pubblicati e letti di ogni altro paese al mondo. Un islandese su dieci pubblica un libro». Forse perché, come dice il romanziere Sölvi Björn Sigurðsson, «siamo una nazione di cantastorie. Quando faceva freddo e buio non c’era altro da fare. Grazie alle poesie e alle saghe medievali siamo sempre stati circondati da storie. E dopo l’indipendenza dalla Danimarca, la letteratura ci ha aiutati a definire la nostra identità»·

lunedì 14 dicembre 2015

UFO. Chi nasconde la verità ?


aliens-1Stephen Bassett ha 69 anni, sta diventando calvo e ha gli occhi di un colore tra il blu e il verde. Da ragazzo ha letto molti libri di fantascienza, ha costruito modellini di aeroplani e ha vissuto per molti anni in una base militare in cui lavoravano i suoi genitori. Suo padre gli parlava poco e litigava spesso con sua madre, e Basset ha sviluppato tendenze ossessivo-compulsive. Da molti anni Bassett ha un obiettivo: far sì che il governo degli Stati Uniti ammetta di aver nascosto le prove che dimostrano che gli alieni esistono e sono stati sulla Terra. Poco meno di vent’anni fa Basset ha anche capito una cosa: alle persone rapite dagli alieni serviva un lobbista, qualcuno che parlasse di loro e che difendesse i loro interessi davanti al governo degli Stati Uniti. Da circa 19 anni Basset è quindi il primo, e finora unico, lobbista delle persone che dicono di essere state rapite dagli alieni.
Prima di diventare il lobbista di chi sostiene di aver incontrato gli alieni Bassett aveva lavorato per quatto mesi per il Program for Extraordinary Experience Research (PEER), un gruppo di ricerca creato nel 1993 da John Mack, uno psichiatra e saggista vincitore di un premio Pulitzer e morto nel 2004. Il PEER era nato per ascoltare in modo neutrale «tutte le esperienze che sfidano le nostre nozioni di realtà» e, quindi, anche i rapimenti di essere umani da parte degli alieni. Mentre stava lavorando per il PEER da una piccola casa di Cambridge, in Massachusetts, Bassett ebbe un’illuminazione: avrebbe potuto continuare a collaborare con il gruppo di ricerca di Mack per il resto della sua vita, ma non sarebbe cambiato nulla. «Capii che il problema non era di tipo scientifico, era politica», ha spiegato Bassett. Anche se il PEER avesse raccolto un mucchio di prove di incontro tra umani ed extraterrestri, sulla Luna o nel prato davanti alla Casa Bianca, nessuno se ne sarebbe interessato. La “questione aliena” aveva bisogno di essere rappresentata davanti ai potenti, a chi governava.
La questione aliena era piuttosto di moda nell’estate 1996, quando uscì il film Independence Day: Basset iniziò a preoccuparsi, temendo che qualcuno avrebbe potuto avere la sua stessa idea. Smise di collaborare con il PEER, caricò tutto ciò che aveva su una Mazda malconcia e guidò fino a Washington. «Una volta arrivato ho compilato i documenti necessari a diventare un lobbista», ha raccontato.
Finora è stata una battaglia piuttosto solitaria, ma Bassett è convinto che il momento giusto per l’affermazione della sua contorta teoria – che riguarda i Clinton, il loro ex consulente John Podesta e un multi-miliardario morto qualche anno fa – sia arrivato.  Bassett ha detto di volere che il governo ammetta l’esistenza degli alieni prima che in New Hampshire si tengano le primarie delle elezioni presidenziali, il prossimo 9 febbraio: «E posso anche spiegare perché succederà», ha aggiunto.
Dopo essersi laureato al Georgia Institute of Technology Bassett ha passato circa una ventina di anni senza uno scopo preciso, giocando a tennis da professionista, facendo il consulente finanziario e mantenendosi anche grazie a un’eredità lasciatagli dal padre. Poi gli capitò di leggere un libro che cambiò la sua vita. Si intitolava Abduction: Human Encounters with Aliens (“Rapimenti: incontro tra umani e alieni”). L’autore era John Mack, che aveva iniziato a occuparsi della questione con molto scetticismo intervistando decine di persone che dicevano di essere state rapite dagli alieni, e pensando che soffrissero di qualche tipo di malattia mentale. Alla fine delle sue ricerche però non ne era più così sicuro. «Sì, prendo seriamente le storie di queste persone», spiegò nel 1994 al Chicago Tribune: «Sì, penso che stiano dicendo la verità». Bassett – l’ex appassionato di fantascienza senza un chiaro posto nel mondo – trovò finalmente qualcosa a cui dedicarsi.
Nel 1961 l’astronomo Frank Drake disse di aver trovato un’equazione per calcolare il numero di civiltà aliene che stanno cercando di comunicare con noi. Alcuni mesi fa Drake ha detto al Washington Post: «Ne possiamo individuare 10mila, ma ce ne sono molte di più». Considerando quanto è grande l’universo, non è da folli immaginare che ci sia qualcosa oltre a noi. Una teoria è che tutte le avanzate civiltà aliene finiscano distrutte dalla stessa tecnologia che hanno creato, prima di riuscire a mettersi in contatto con la Terra. È una teoria piuttosto cupa, e non c’è da stupirsi se molti esseri umani tendono a preferire un’ipotesi più ottimista: gli alieni esistono, e si sono messi in contatto con noi, ma c’è una cospirazione governativa per non farcelo sapere.
Secondo un sondaggio pubblicato nei primi mesi del 2015 dall’Huffington Post circa la metà degli americani crede nell’esistenza di un qualche tipo di forma di vita aliena, e uno su quattro pensa persino che gli alieni siano arrivati sulla Terra. Nonostante questo per Buffett non fu facile farsi ricevere a Washington dai membri del Congresso degli Stati Uniti. «Nessuno voleva averci qualcosa a che fare», ha detto Bassett.
Dal momento che non riuscì a ottenere un’udienza al Congresso, nel 2013 Basset decise di crearne uno finto: grazie a una donazione di un milione di dollari arrivata da un finanziatore canadese, Bassett pagò 20mila dollari alcuni ex membri del Congresso per passare una settimana al National Press Club di Washington, ascoltando testimonianze sugli alieni. Dalle numerose ore di testimonianze – tra cui quelle di ex ufficiali dell’aeronautica militare che dicevano di aver visto navicelle aliene, o i racconti di animali trovati dissezionati – nacquero alcune buffe storie, ma nessun vero movimento d’opinione che coinvolgesse dei membri del congresso. Poi, alcuni mesi fa, arrivò un importante tweet: lo scrisse il 13 febbraio 2015 John Podesta, che era stato consigliere di Bill Clinton alla Casa Bianca. Podesta scrisse quel tweet 11 mesi dopo essersi dimesso dall’incarico di consigliere speciale di Barack Obama. Podesta scrisse: «Il mio più grande fallimento del 2014: ancora una volta non siamo riusciti a pubblicare in modo chiaro i file sugli UFO». Il tweet era completato dall’hashtag #thetruthisstilloutthere (“la verità è ancora lì fuori”).
Il tweet fu condiviso migliaia di volte e ne parlarono i principali siti d’informazione di tutto il mondo (la maggior parte lo trattò come uno scherzo). Bassett e altri con le sue idee non lessero quel messaggio come uno scherzo. Per loro era qualcosa di grande. Podesta rappresenta infatti uno dei migliori alleati che la questione aliena possa avere: è un appassionato di X-Files che ha chiesto maggiore trasparenza sugli argomenti che hanno a che fare con gli UFO e nell’introduzione che ha scritto per un libro di successo intitolato UFOs: Generals, Pilots, and Government Officials Go on the Record  ha spiegato: «È tempo di capire la verità su quello che c’è là fuori».
Podesta è ora anche colui che si occupa di gestire la campagna presidenziale di Hillary Clinton, e la cosa è stata vista da Bassett e da chi lo segue come una grande notizia. Secondo Basset Bill e Hillary Clinton hanno un importante ruolo nella questione aliena da quando nel 1993 il miliardario Laurance Rockefeller ha iniziato a fare pressioni su di loro per rendere pubbliche tutte le informazioni a loro disposizione sugli alieni. Ci sono infatti prove che dimostrano che nel 1995 Hillary Clinton incontrò Rockfeller nel suo ranch e che un consigliere di Clinton la avvertì con una nota che Rockfefeller «le avrebbe parlato del suo interesse per le percezioni extrasensoriali, i fenomeni paranormali e gli UFO». I Clinton «si stavano occupando del “problema” su forti insistenze di un miliardari, e nessuno se ne occupava», ha detto Bassett.
Come mai tutto questo dovrebbe suggerire che il governo dirà ciò che sa sugli alieni prima delle primarie in New Hampshire? Bassett ha detto: «Penso che il team di Clinton abbia calcolato che non potrà arrivare alle elezioni senza prima aver affrontato il problema degli extraterrestri. Ma che opzioni ha Hillary Clinton? Se annuncia una conferenza stampa e le dà troppa importanza, deve anche spiegare perché lo fa ora e  non l’ha fatto negli ultimi 23 anni. L’alternativa è fare in modo che sia la stampa a farle le giuste domande… così lei può essere libera di decidere cosa e quanto dire». Secondo Bassett il tweet di Podesta è una sorta di esca per i media.
Questa teoria ha però un piccolo problema: sia Podesta che Clinton si sono rifiutati di commentare la questione. Siamo realistici: poche persone prenderanno Bassett seriamente. Bassett ha però speso molto per dedicarsi a quello che lui stesso definisce «il gruppo di pressione meno finanziato della storia» (riceve tra i 15mila e i 20mila dollari l’anno). Bassett non ha molto spazio per il tempo libero, e spesso dorme a casa di alcuni suoi “seguaci”. «Sarebbe bello avere qualcuno con cui condividere tutto questo, o un figlio che da grande potrà viaggiare nello spazio, ma ormai è troppo tardi»,  ha spiegato.
Quella di Bassett può sembrare una strana causa a cui dedicare la propria vita. Ma secondo lui le rivelazioni sugli alieni sono solo il primo passo per qualcosa di più grande: «Una volta scoperta la verità sugli alieni, vedrete che qualcosa cambierà in tutto il mondo, ci sarà un nuovo approccio in tutto. Più trasparenza, più comunicazione tra le nazioni, un periodo di riforme». Secondo lui, se solo i popoli della Terra sapessero che c’è qualcosa là fuori di più grande di noi, allora forse potremmo mettere da parte le nostre piccole differenze, che rischiano di distruggerci. Le persone che pregano per la pace nel mondo sono molte. È in fondo così strano se Basset cerca un po’ di aiuto dall’alto?
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Sotto, video su Stephen Bassett :










sabato 12 dicembre 2015

Profughi e terrorismo: il punto di vista di Alvis Hermanis.


Alvis HermanisAlvis Hermanis è uno dei più importanti e acclamati registi teatrali in Europa. E’ lettone. Dopo una grande fama in patria ha da tempo conquistato le platee di altri paesi europei, come Germania, Italia, Francia, ma è anche un personaggio molto particolare, che ha spesso preso posizioni eclatanti su vari temi politici. In questi giorni è al centro di una forte polemica in Germania, sul tema dell’accoglienza ai profughi.
Hermanis ha infatti deciso alcuni giorni fa di abbandonare la sua collaborazione con il “Thalia Teather” di Amburgo, dove già in passato aveva messo in scena suoi spettacoli teatrali, come “Melnais piens”.
Il motivo della decisione il regista lettone lo ha spiegato in una lettera privata inviata al direttore del teatro: la decisione del Thalia di aprire una sottoscrizione per aiutare i profughi arrivati in Germania, una posizione che Hermanis considera in contrasto con le sue idee sull’immigrazione.

Il regista lettone ritiene infatti che la politica della Germania, tenuta fino al giorno degli attentati di Parigi, sia un fattore di pericolo per l’Europa, a causa delle inflitrazioni di potenziali terroristi islamici attraverso i flussi immigratori all’interno dei territori europei.
Il direttore del Thalia Theater si è detto scioccato di fronte alla posizione assunta dal regista lettone: “Mai avrei potuto immaginare che proporre l’assistenza umanitaria a persone in estremo bisogno, potesse condurre ad un tale gesto da parte di un regista”.
Nel frattempo non si sono fatte attendere anche le reazioni del pubblico: ieri alla prima di un opera con la sua regia all’Opéra Bastille di Parigi, Hermanis è stato fischiato da una parte del pubblico in platea al termine dello spettacolo, mentre altri lo acclamavano.

Hermanis ha cercato di spiegare meglio le ragioni della sua clamorosa scelta, in una lettera aperta pubblicata sul sito del teatro lettone che dirige, lo Jaunais Rīgas teātris. Nella lettera Hermanis spiega che in queste settimane si trova a Parigi, per l’allestimento di un’opera. Ha quindi vissuto sul luogo i drammatici giorni degli atti terroristici parigini, ricavandone una profonda impressione. Quanto accaduto ha rafforzato la sua idea della necessità di mettere in atto politiche molto più severe sui controlli dell’immigrazione e rafforzare la difesa dei confini europei.
Hermanis sostiene che soprattutto in Europa orientale i popoli che hanno sofferto a lungo la dittatura comunista e la cancellazione delle identità nazionali, hanno sviluppato sensibilità molto maggiori sulla difesa della propria identità rispetto ai popoli dell’Europa occidentale.
“Non credo che le mie idee sull’immigrazione siano più radicali della maggior parte dei cittadini europei. In Europa orientale non capiamo tutta questa euforia sull’accoglienza. O forse si pensa davvero che ad esempio 40 milioni di polacchi siano tutti razzisti?”.

Per Hermanis le politiche di Berlino sull’immigrazione mettono in pericolo l’Europa per il rischio di infiltrazioni terroristiche: “Non si possono distinguere con certezza le persone buone da quelle cattive. Non si può sostenere nello stesso tempo le vittime di Parigi e mantenere queste politiche di accoglienza. Non tutti i profughi sono terroristi, ma tutti i terroristi sono stati profughi, o se non loro i loro figli” conclude il regista lettone.
Questo il testo integrale in inglese della lettera aperta che Alvis Hermanis ha pubblicato sul sito del JRT.
“Please, here is my explanation. But you can use it only in the form how it is written. Please, no cuts and no manipulation. Otherwise you must not use it.
Of course the intendant of Thalia Theater made his statement where he manipulated with the sentences which were taken out from the context of my private letters (without asking my permission).
I asked to cancel my production in Hamburg because of the very private reasons. I am working now in Paris and living exactly in the same part of the city were massacre happened. The everyday life here feels like in Israel. Permanent paranoia. Even worse because the Paris Jewish community are the first which are abandoning this city. Everywhere we are surrounded with a threat and fear. We all are traumatised here after what happened 2 weeks ago.
I am a father of 7 children and I am not ready to work in another potentially dangerous town again. As we know the people who participated in 9/11 were coming from Hamburg by the way.
We know that even German government changed the refugee politics after Paris tragedy. So the price which was paid to finally admit the connection between immigration policy and terrorism – was the death of 132 young people in Paris.
Is it still the tabu in Germany to connect immigration policy and terrorism?
After speaking with a people from Thalia Theater I understood that they are not open for different opinions. They are identifying themselves with a refugee-welcome center. Yes, I do not want to participate in this. Can I afford to have my own choice and my own opinions? What about democracy?
I do not think that my political opinions are more radical then those which are sharing majority of europeans. We do not support this enthusiasm to open the EU borders for uncontrolled immigration.
Especially in Eastern Europe we do not understand this euphoria. Do you really think that 40 million citizens of Poland, for example, are neo-nazies and racists?”
Alvis Hermanis

Hermanis, la Germania e i profughi. Una storia dei nostri giorni, "Baltica", 20-12-15. 

mercoledì 9 dicembre 2015

Disciplina a scuola. Una lettera aperta quanto mai opportuna.

Sono ben lieto di riportare la lettera aperta che il Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità  ha indirizzato alla titolare del MIUR. 

Una lettera che tocca quello che secondo i più autorevoli  (e sensibili)  esperti di questioni scolastiche è forse il problema più serio della scuola italiana  (ma non solo): la disciplina degli allievi, o meglio, la mancanza di rispetto per l'ambiente e per il personale scolastico da parte di molti studenti  (non di rado, vorrei aggiungere, fiancheggiati da genitori indegni del ruolo che ricoprono).
Un tema di cui questo blog si è occupato più volte e che evidentemente riscuote un particolare interesse nei lettori, visto che al secondo e al terzo posto dei testi più popolari figurano proprio due post che riguardano il comportamento degli allievi.
Speriamo che il Ministro  -e tutti coloro i quali hanno la responsabilità di gestire la politica scolastica del nostro Paese-  trovino il tempo per riflettere sull'impietoso scenario disegnato nella lettera e ascoltino i saggi consigli che vengono proposti.
A. L. 

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Gentile Ministro Giannini,

avrà senz’altro letto il mese scorso Che errore ignorare la scuola, l’editoriale in cui Ernesto Galli della Loggia si chiedeva se a viale Trastevere “sia mai giunta notizia che in moltissime realtà scolastiche italiane ormai si assiste a una vera e propria abolizione di fatto della disciplina”. Chi lavora nella scuola conosce bene questo problema, dovuto anche al disorientamento educativo di molte famiglie, e le conseguenze che ha già avuto e continuerà ad avere sull’apprendimento e sulla qualità della convivenza civile. Per non parlare di come incide sulle motivazioni e sulla stessa salute dei docenti.
Di fronte a una denuncia così impietosa e accorata era logico aspettarsi una sua risposta, che però non è venuta. Del resto il silenzio dei governi su un aspetto così centrale nella formazione, come il rispetto delle regole, dura purtroppo da decenni, con l’eccezione dei ministeri Fioroni e Gelmini. Quanto allo Statuto degli studenti di Berlinguer, sembra concepito per scoraggiare le sanzioni più che per garantire comportamenti corretti. Un precedente ministro è andato oltre al silenzio, invitando gli studenti a ribellarsi a genitori e insegnanti; e da un attuale sottosegretario è uscito perfino un caloroso apprezzamento delle occupazioni, in cui si infrangono leggi, si violano diritti degli altri e si sperpera denaro pubblico. Anche la Buona Scuola ignora totalmente la necessità della Buona Condotta; e dovrebbe invece essere considerata una priorità. Eppure è l’Ocse, non qualche acritico lodatore del tempo andato, a sostenere che “dove la disciplina è allentata, gli insegnanti sprecano tempo e gli studenti non sono concentrati a causa delle numerose interruzioni”; che “la maggior parte degli studenti è contenta quando c’è la disciplina in classe”; e che “le classi in cui vige la disciplina di solito hanno risultati migliori”. Sfortunatamente anche non pochi dirigenti e docenti ritengono in buona fede che non si debba mai punire, ma puntare solo sul dialogo e sul rinnovamento della didattica per prevenire e correggere i comportamenti sbagliati, mentre l’educazione alla responsabilità, cioè a rispondere di quei comportamenti, deve necessariamente prevedere anche delle sanzioni. Come lei sa, sembra difficile persino impedire durante l’orario scolastico l’uso del cellulare, fonte di distrazione, ma anche strumento utilizzato per forme di bullismo e per copiare durante gli esami: altro problema su cui varie sollecitazioni e denunce non sono state prese in considerazione.
Le chiediamo quindi, Ministro Giannini, di prendere tutte le possibili iniziative a sostegno della correttezza e della legalità nelle scuole, in modo che vi venga garantito il necessario clima di rispetto reciproco e di collaborazione nell’interesse degli studenti, dei docenti e in quello della collettività. Per parte nostra ci  permettiamo di avanzare un paio proposte:
- Modificare e integrare alla luce dell’esperienza lo Statuto degli studenti, in quanto norma generale sull’istruzione, inserendovi tra l’altro indicazioni sulle sanzioni in relazione almeno alle principali mancanze disciplinari, incluse quelle che si verificano nel corso delle occupazioni e degli esami di Stato. Si tratta tra l’altro di evitare eccessive differenze tra scuole in questa materia, pur salvaguardando il giusto margine di discrezionalità rispetto ai casi concreti.
- Promuovere occasioni di serio dibattito e di aggiornamento su temi come la crisi dei ruoli educativi e le sue cause, l’alleanza fra scuola e famiglia, la gestione della classe, il ruolo delle sanzioni educative, il contrasto al bullismo, i doveri come necessaria garanzia dei diritti e della solidarietà sociale.
Distinti saluti,
Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, 
MINISTRO GIANNINI, ESISTE PER IL GOVERNO UN PROBLEMA DI DISCIPLINA NELLE SCUOLE ? ,   7-12-15.

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Grassetto di "Scuola e università".
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mercoledì 2 dicembre 2015

Crimini nazisti: l'eccidio di Rumbula.

Due post di "Baltica" sul massacro, avvenuto alla fine del 1941 alle porte di Riga, di 25.000 ebrei lettoni da parte dei nazisti.
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F64Quello che avvenne dal 30 novembre all’8 dicembre del 1941 a Rumbula, non distante da Riga, e in altri luoghi in tutto il territorio lettone, fu una delle più grandi esecuzioni di massa di ebrei nel corso della II guerra mondiale. Solo il massacro di Baba Yar in Ucraina fu di dimensioni più grandi rispetto a quello che successe in quei giorni in Lettonia.
L’esercito nazista aveva invaso la Lettonia dal giugno del 1941. Il paese era allora occupato dall’Unione Sovietica, in base al trattato segreto Molotov-Ribbentrop. L’avanzata tedesca nel 1941 causò anche la deportazione della quasi totalità della popolazione ebraica lettone.
A fine novembre del 1941 le SS, aiutati da alcuni collaborazionisti locali, come il commando Arajs, fecero irruzione nel ghetto ebraico di Riga, nel quartiere della Maskačka. Migliaia di cittadini lettoni ebrei furono deportati coi treni fino nei boschi di Rumbula, dove nei giorni successivi avvenne la più grande fucilazione di massa della storia nei baltici. Ben 25000 persone furono fucilati nei boschi intorno a Rumbula, un villaggio alle porte di Riga. Fra queste persone non solo ebrei lettoni, ma anche altri ebrei giunti a Riga fin da Berlino.

Ma le fucilazioni in quei giorni avvennero anche in altri luoghi della Lettonia: diverse furono le città lettoni in cui i nazisti sterminarono le comunità ebraiche.
La comunità ebraica lettone, durante la guerra, fu quasi completamente sterminata.

Il capo dello stato lettone Raimonds Vējonis, insieme alle altre principali autorità istituzionali del paese baltico, ha partecipato ieri ad una commemorazione nei luoghi della strage di Rumbula, dove ha deposto dei fiori.



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Alcune centinaia di persone hanno partecipato alla commemorazione dell’eccidio nazista dei cittadini ebrei della Lettonia avvenuto settanta anni fa, dal 30 novembre all’8 dicembre del 1941.
L’eccidio di Rumbula è uno delle esecuzione di massa degli ebrei più grande della storia europea. Furono 25 mila le vittime ebraiche assassinate dai nazisti nella foresta di Rumbula, vicina alla cittadina di Salaspils, alle porte di Riga.
Alla commemorazione ha partecipato anche l’ambasciatrice israeliana in Lettonia, Hagita Ben Yakov, che ha sottolineato l’importanza che le vittime di Rumbula restino sempre nella memoria collettiva europea e in particolare lettone.
La commemorazione è stata organizzata dal Consiglio della comunità ebraica della Lettonia.
Il 23 agosto del 1941 fu ufficialmente istituito il ghetto di Riga, nella capitale lettone occupata dalle truppe naziste. Alla fine di ottobre il ghetto, situato nel quartiere della Maskavas forštatē a Riga, conteneva circa 30 mila persone, di cui 5500 bambini, 8000 anziani e 9500 donne.

A fine novembre 4500 persone furono selezionate per i campi di lavoro, mentre gli altri furono trasferiti nella foresta di Rumbula e assassinati.
Solo nel 1964 gli attivisti ebraici di Riga sopravvissuti all’eccidio riuscirono a superare le resistenze delle autorità sovietiche e posero una pietra commemorativa nel luogo della strage di massa.


Nel 2002 è stato ufficialmente inaugurato il monumento Memoriale dedicato alle vittime di Rumbula.

A Rumbula la commemorazione dell’eccidio degli ebrei di settanta anni fa, "Baltica", 28-11-15. 

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Sotto, video sull'eccidio di Rumbula e, più in generale, sullo sterminio degli ebrei lettoni ad opera dei nazisti.











sabato 14 novembre 2015

Case editrici italiane. Di chi sono ?


In Italia esistono più di 4mila case editrici. L’Istat suddivide gli editori in piccoli, medi e grandi a seconda del numero di titoli che pubblicano. Per essere considerati grandi editori bisogna pubblicare almeno 50 titoli ogni anno. Se si esclude l’editoria scolastica che costituisce un mercato diverso, il settore italiano dei libri è in crisi da molti anni, ma ha registrato un sensibile peggioramento a partire dal 2011. Anche il primo trimestre del 2015 – secondo un rapporto Nielsen commissionato dall’Associazione Editori Italiani – ha avuto un calo del 2,6 per cento, un dato comunque migliore rispetto al meno 4 per cento del 2014 e al meno 7 per cento del 2013: e qualche attenuazione del calo è stata annunciata nei dati provvisori dei mesi più recenti. L’unico settore a registrare una crescita è l’editoria per ragazzi. I maggiori gruppi editoriali italiani controllano oltre il 60 per cento del mercato editoriale.
Il Gruppo Mondadori è il più importante nel mercato italiano. Secondo le stime di Nielsen controlla il 26,5 per cento dell’intero mercato editoriale italiano. Nel 2014 il gruppo ha pubblicato complessivamente 2.291 titoli nuovi, contando tutti i suoi marchi. Gli editori più importanti del gruppo sono Edizioni Mondadori, Giulio Einaudi editore con Edizioni EL per i libri per ragazzi, Sperling & Kupfer(e il suo sotto-marchio Frassinelli) ed Edizioni Piemme. Il fatturato di Mondadori nel 2014 è stato di 1,177 miliardi di euro complessivi, di cui il 27 per cento (317 milioni) provienente dai libri; il resto dai periodici e dai circa 600 negozi sparsi in Italia. Il gruppo è controllato principalmente da Fininvest – di cui Marina Berlusconi è presidente dal 2003 – con una quota del 50,39 per cento. Le altre quote rilevanti appartengono a due fondi d’investimento inglesi, Silchester International che controlla l’11,49 per cento e River and Mercantile Asset Management Llp con il 5,07 per cento. All’inizio del 2015 la Mondadori ha presentato un’offerta ufficiale per l’acquisizione di RCS libri – che comprende Rizzoli e altri editori – per una cifra compresa tra i 120 e i 150 milioni. Il consiglio d’amministrazione di RCS sta ancora valutando la proposta – che ha generato un acceso dibattito tanto che alcuni scrittori di Bompiani hanno pubblicato una lettera di protesta sul Corriere della Sera –, ma sembra che l’affare si possa concludere. Se l’offerta venisse accettata il nuovo gruppo controllerebbe quasi la metà del mercato editoriale italiano.
Il Gruppo editoriale RCS MediaGroup – che tra le altre cose è anche l’editore del Corriere della Sera, dellaGazzetta dello Sport e di alcune riviste – vale il 12,1 per cento del mercato. Il gruppo controlla otto case editrici: la più grande è Rizzoli, le altre sono BompianiMarsilio,AdelphiFabbri, Archinto e Sonzogno. L’8 luglio scorso, dopo la notizia della possibile fusione del settore dei libri – non del gruppo RCS – con Mondadori, Rosellina Archinto, fondatrice dell’omonima casa editrice, ha annunciato di essersi ricomprata il marchio e l’uscita da RCS. In caso di fusione con Mondadori, altri editori di RCS potrebbero fare la stessa cosa: le formule societarie glielo consentono, se hanno le risorse economiche. L’azionista di maggioranza del gruppo è Giovanni Agnelli & C. s.a.p.a. che controlla 16,7 per cento: poi Mediobanca SpA ha poco meno del 10 per cento e Diego della Valle il 7 per cento. Urbano Cairo – proprietario de La7, dell’omonima casa editrice e del Torino F.C. – ha il 3,66 delle azioni.
Il Gruppo editoriale Mauri Spagnol – noto anche con l’acronimo GeMS – è il terzo per dimensioni, con il 10,2 delle quote del mercato italiano. La holding è stata fondata nel 2005 a Milano e ha il nome delle due famiglie fondatrici, Mauri e Spagnol. GeMS controlla 10 case editrici e 18 marchi editoriali, tra cui Garzanti (che a sua volta controlla Corbaccio), Adriano Salanieditore, Longanesi, Bollati Boringhieri editore, Tea, Antonio Vallardi Editore, il 90% di Guanda, il 56% de La coccinella, il 50% di Chiarelettere – che tra le altre cose possiede una quota del giornale Il Fatto Quotidiano. Il gruppo è anche editore della rivista specializzata in libri ed editoria Il Libraio.
Stefano Mauri è presidente e amministratore delegato, insieme a Luigi Spagnol, anch’egli amministratore delegato. GeMS è controllata per il 70,08 per cento da Messaggerie Italiane che è il più grande distributore di libri italiano – si stima che un libro su tre in Italia venga gestito da Messaggerie. Il resto delle quote appartiene per il 21,85 per cento alla famiglia Spagnol, per il 5 per cento a Elena Campominosi – direttore generale di Garzanti – e per il 3,07 per cento ad Andrea Micheli, fotografo e figlio del finanziere Francesco.

Giunti editore è una delle più antiche case editrici italiane, essendo stata fondata dalla stessa famiglia nel 1841. Il gruppo, che ha sede a Firenze, oggi ha il 6,1 per cento del mercato, ed è specializzato in editoria per ragazzi e scolastica. La casa editrice è ancora interamente controllata dalla famiglia Giunti, il gruppo possiede anche il 50 per cento delle Edizioni del Borgo e altre quote di case editrici minori e specializzate (Editoriale Scienza, Giorgio Nada editore, Fatatrac). Nel 2014 il fatturato è stato di circa 200 milioni. La catena di librerie del gruppo – Giunti al punto – è la più grande in Italia per numero, con 173 punti vendita, contro i circa 130 di Feltrinelli.
Il gruppo Feltrinelli, con il 4,6 per cento del mercato, è il quinto gruppo editoriale italiano. Le case editrici controllate da Giangiacomo Feltrinelli Editore s.r.l. sono ApogeoKowalski, Eskimosa, Edizioni Gribaudo, Vita e Urra. Nel 2005 la holding EFFE 2005 Gruppo Feltrinelli S.p.A. – controllata dalla famiglia Feltrinelli – ha unificato le proprietà della casa editrice e della sezione librerie, che prima erano divise. La catena di librerie è la seconda più grande in Italia, dopo Giunti. Dal 2013 la casa editrice è anche diventata azionista della Scuola Holden – la scuola di scrittura e storytelling fondata da Alessandro Baricco a Torino – assieme al gruppo Eataly di Oscar Farinetti e al manager Andrea Guerra.
La casa editrice De Agostini detiene il 2,3 per cento del mercato librario. Tra le altre cose, è specializzata nella divulgazione scientifica. I principali editori controllati da De Agostini sono UTET e Edizioni Whitestars. La casa editrice è coordinata e diretta da De Agostini S.p.A. che è controllata dalla finanziaria B&D Holding di Marco Drago & C. S.a.p.A. di proprietà della famiglia del manager e imprenditore Marco Drago e dalla famiglie Boroli, imprenditori di Novara dove la casa editrice ha sede.
Rimangono poi molte case editrici indipendenti che si dividono il 38,2 per cento delle restanti quote di mercato. Le più importanti e più note sono Sellerio, Editori Laterza, Minimum Fax, Cairo, Baldini e Castoldi, Fanucci, Hoepli, Castelvecchi, Ancora, Neri Pozza, Fazi editore, Newton Compton, Marcos y Marcos, Donzelli, Il Saggiatore, il Mulino, Raffaello Cortina Editore, Iperborea, Nottetempo, Quodlibet.
Di chi sono le case editrici italiane ? ,  "Il Post", 22-09-15.