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martedì 27 gennaio 2015

Bestiario ideologico: la settimana corta nelle scuole.

Di seguito, una delle tante denunce nei confronti di una scelta, quella della settimana corta, che rappresenta uno degli esempi più clamorosi dell'incapacità di promuovere una politica scolastica realmente rispondente alle esigenze dei ragazzi e del personale.   Particolarmente importante, nello scritto che segue, l'accento sull'educazione alla salute, una delle tante lacune a cui il nostro sistema scolastico   -ostaggio della demagogia più populista e stracciona-  non si cura minimamente di porre rimedio.
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Dopo un'esperienza di scuola su cinque giorni settimanali che dura da un paio d'anni, mi sento in dovere di esprimere un significativo disagio che grava sulla qualità dell’offerta formativa anche in termini di svantaggio rispetto al successo scolastico degli allievi.
L'orario delle lezioni, che prevede ogni giorno un lavoro didattico dalle 8.00 alle 14.00, fa ricadere sulle ultime ore della mattinata una situazione didatticamente poco proficua, se non addirittura nulla come nel caso della settima ed ottava ora che si aggiungono con il cosiddetto "rientro pomeridiano".
Questa situazione rimanda anche a gravi ripercussioni che riguardano lo studio domestico, il rientro a casa dopo la scuola avviene già nel pomeriggio inoltrato, senza consentire allo studente di avere tempo ed energie da dedicare ancora allo studio.
La non disponibilità di tempo al pomeriggio ha anche altri tipi di ripercussioni:
* in ordine alle attività di recupero (che devono essere sistemate in coda a giornate già eccessivamente cariche, riducendone ovviamente l'efficacia);

* in ordine a qualsiasi proposta di approfondimento/corsi di eccellenza che non trova possibilità pratica di attuazione;

* in ordine alla possibilità di partecipare a qualsiasi attività extra-scolastica.

In ultima analisi rimane da sottolineare che la scuola, che si deve occupare di Educazione alla Salute secondo le indicazioni ministeriali, costringe questi studenti ad un'alimentazione scorretta per nove mesi all'anno nella maggior parte delle istituzioni che non sono dotate di una mensa apposita.



F.Vuono, M.Bordino, Il fallimento della settimana corta, "Orizzonte scuola", 24-02-15.

domenica 18 gennaio 2015

La scuola francese e il terrorismo.

Francia, abbiamo un problema e si chiama “scuola”. Dopo le stragi alla sede di Charlie Hebdo e al Hyper Cacher, la manifestazione di solidarietà di tutto il Paese, le accuse all’islam, quelle all’Occidente, i distinguo, è arrivato il turno della scuola. «Come abbiamo potuto permettere che i nostri alunni diventassero degli assassini?», riportava il Le Monde il 14 gennaio, prendendo a prestito il grido di quattro professori di Aubervilliers, la periferia parigina dove sono cresciuti gli assassini, i fratelli Kouachi.

PROBLEMA DELLA SCUOLA. Il ministro dell’Educazione nazionale Najat Vallaud-Belkacem è stata costretta ad ammettere che in decine e decine di scuole, giovedì 8 dicembre, il minuto di silenzio non è stato rispettato per l’opposizione di molti alunni. Gli incidenti eclatanti sarebbero stati più di 200, a conferma che l’integrazione, o come si dice in Francia il «vivere insieme», non funziona. Lo ha dovuto ammettere la ministra, affermando che «il problema delle regole e dell’autorità a scuola si pone», mentre gli insegnanti hanno risposto sconsolati al Le Monde: «La scuola non può risolvere tutti i problemi della società anche perché gli alunni sono con i professori solo per il 10 per cento del loro tempo».

LAICITÀ E UGUAGLIANZA. L’ammissione che esiste un problema è tanto più rilevante se si pensa che negli ultimi due anni il governo di François Hollande ha puntato molto sulla scuola, promuovendo l’anno dell’uguaglianza, la lotta alle discriminazioni e sponsorizzando in ogni modo la laicità, facendo addirittura affiggere in tutte le scuole la “Carta della laicità“, e i «valori repubblicani».

«CANTARE LA MARSIGLIESE». Ieri la ministra Vallaud-Belkacem, dopo aver lanciato una «grande mobilitazione della scuola per i valori della Repubblica», ha riunito sette ex ministri dell’Educazione per chiedere consiglio. Le proposte arrivate per risollevare la scuola francese però non sono allettanti e battono sempre sullo stesso tasto. Una delle proposte principali, «da non prendere alla leggera», è stata «imporre agli alunni di cantare la Marsigliese (l’inno nazionale, ndr).

«AMORE PER LA PATRIA». Poi, secondo il motto ottocentesco «l’istruzione religiosa appartiene alla famiglia, quella morale alla Scuola», è stato ricordato che «l’essenziale a scuola è trasmettere il sapere, i valori repubblicani e l’amore per la Francia». Per questo è stato proposto di aumentare le ore di «educazione civica e morale» statale, insieme «alla distribuzione di libretti della laicità a capi di istituto e insegnanti». Sarà sufficiente?

Numero di laureati. Italia agli ultimi posti.

Un’infografica relativa al primo rapporto Cnel-Istat sul Benessere equo e sostenibile è particolarmente efficace nel dipingere un’Italia a due velocità anche per quel che riguarda la formazione universitaria. Nel Mezzogiorno, le percentuali di laureati nella fascia 30-34 anni sono pari al 18,2% contro una media nazionale del 22,4% che è comunque la più bassa in Europa. Se il Mezzogiorno fosse una nazione  autonoma, la sua percentuale di laureati sarebbe inferiore a quella della Turchia (19.5%).

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Per avere un raffronto internazionale, vale la pena di consultare le statistiche Eurostat. Nel 2000, l’Italia pur essendo già nelle ultime posizioni, con il suo 11,6% aveva una percentuale di laureati superiore a quella di Portogallo (11,3%), Slovacchia (10,6%), Romania (8,9%) e Malta (7,4%). Il distacco dalla media EU27 (22,4%) era di 10.8 punti percentuali.
Tredici anni dopo, nel 2011, pur essendo salita al 22.4%, l’Italia è scivolata in ultima posizione e il distacco rispetto alla media EU27 (37,0%) è salito a 14,6 punti percentuali. D’altronde, nel decennio 2000-2010, l’Italia è stat l’unica nazione europea la cui spesa (in termini reali) per l’istruzione non è cresciuta (fonte: Funding of Education in Europe – The Impact of the Economic Crisis).
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TrendFunding1TrendFunding2
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Per avere un’idea della distribuzione regionale della percentuale di laureati, si può consultare la seguente mappa, sempre elaborata da EUROSTAT.
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Eurostat2013Map
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Il ritardo del meridione italiano è più che evidente. Se fosse una nazione  autonoma, la sua percentuale di laureati (18,2%) sarebbe inferiore a quella della Turchia (19,5%).  D’altronde il sorpasso compiuto dalla Turchia nei confronti del meridione d’Italia precede di pochi anni il sorpasso nei confronti dell’Italia nel suo complesso, un evento che, come già osservato (Laureati: Italia ultima in Europa. Obiettivo 2020: aggravare il distacco), appare ormai imminente ed inevitabile.
Laureati2020ItaliaVsTurchia
Questi dati e questi grafici potrebbero aiutarci a rispondere alla domanda formulata da Francesco Giavazzi:
Siamo sicuri che questo paese davvero

abbia bisogno di più laureati?

Sempre più delusi dal rottamatore.


Tranquilli. Prima o poi a sentirete Daria Bignardi esclamare, con uno dei suoi soliti acuti (inutili peraltro) che lei non fa televisione in senso stretto, ma che ha solo portato il salotto di casa sua nell’etere. E così tutto ciò che direte sugli ascolti delle Invasioni Barbariche, il programma de La7 condotto dalla giornalista-scrittrice ed ex conduttrice del Grande Fratello, sarà usato contro di voi. 
E sì perché la prima puntata della nuova stagione del programma, che ha debuttato mercoledì sera, ha fatto registrare un modesto 3,82% di share, nonostante la presenza del premier Matteo Renzi, al quale la Bignardi ha apparecchiato un’intervista su misura. Nemmeno il Fedez show ha evitato il disastro. Esattamente un anno fa (il 17 gennaio del 2014 per la precisione) Le Invasioni Barbariche, con il premier guest star della serata, fecero registrare il 5,59%. Altri tempi, altri scenari, direte voi. Probabile, tanto che il 17 aprile del 2013, ovvero in occasione dell’ultima puntata di quella stagione, la presenza in studio di Matteo portò in dote alla Bignardi (detta birignao) un ascolto record: il 6,55% di share. Qualcosa è cambiato. 

Di sicuro il presidente del Consiglio non è più il re Mida degli ascolti e la Bignardi è sempre più un prodotto di nicchia. Ma non è sommando le due negatività che si ottiene il risultato di questo tracollo. Perché nel caso della conduttrice de La7 incide, e non poco, la crisi della tv generalista e il logoramento del programma. Sempre uguale a se stesso. Nel caso del premier, invece, pesa il definitivo tramonto della luna di miele con gli italiani. Il sondaggio realizzato nei giorni scorsi dall’istituto Ixé per Agorà, il programma di Rai Tre condotto da Gerardo Greco, ha evidenziato un crollo della fiducia tanto nel governo (sceso in una settimana dal 37 al 33%) quanto nel premier (dal 39 al 37%) e sorpassato dal quasi ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (39%). I motivi sono facilmente immaginabili. Il nuovo record della disoccupazione pesa in modo evidente, così come pasticcio sulla delega fiscale tanto attesa da aziende e cittadini. E se le cifre raccontano che gli italiani non credono più nell’arte affabulatoria del primo ministro, incapace di risolvere i problemi del Paese, i sondaggi non raccontano sino in fondo la crisi degli italiani. Se a settembre la fiducia era al 50%, in poco più di tre mesi si è disperso oltre un quarto del «Renzi fan club». Sono cose che succedono anche nelle migliori famiglie.

Però nel caso di Renzi e della Bignardi le vicende, diciamo così, «familiari» sono un fatto marginale, dato che entrambi sono afflitti da un ego smisurato. La conduttrice de La7, molto attenta ad accontentare i salotti radical chic più che il pubblico trasversale della rete, è stata battuta da una programma popolare come Chi l’ha Visto, condotto con maestria daFederica Sciarelli. Il contenitore di Rai Tre ha fatto registrare il 15,02% di share, mantenendosi sui propri livelli standard. Matteo, invece, rischia di essere surclassato dall’altro Matteo, Salvini naturalmente. I due sono considerati fra i leader più amati in questo momento, sebbene la luna di miele del premier con il Paese pare essersi eclissata. Tuttavia c’è un dato che dovrebbe far riflettere, e non poco. Soltanto il 50,7% degli intervistati ha dichiarato che si recherebbe alle urne nel caso in cui si tornasse a votare. Segno che il disinteresse verso la politica ha raggiunto percentuali mai viste in passato. Nel frattempo, però, il leader della Lega continua ad essere l’ospite preferito dei programmi tv. E chissà che non sia proprio lui il vaccino contro l’epidemia dell’astensionismo.


Enrico Paoli, Matteo Renzi non tira più: share flop per Le invasioni barbariche di Daria Bignardi. E nei sondaggi il premier cala, "Libero", 16-01-15.

Libertà di espressione: miti e realtà.

Nella società occidentale di oggi è avvertibile uno squilibrio fra la libertà di fare il bene e la libertà di fare il male. Un uomo politico che voglia realizzare, nell’interesse del suo paese, una qualche opera importante, si trova costretto a procedere a passi prudenti e perfino timidi, assillato da migliaia di critiche affrettate (e irresponsabili) e bersagliato com’è dalla stampa e dal Parlamento. Deve giustificare ogni passo che fa e dimostrarne l’assoluta rettitudine. Di fatto è escluso che un uomo fuori dall’ordinario, un grande uomo che si riprometta di prendere delle iniziative insolite e inattese, possa mai dimostrare ciò di cui è capace: riceverebbe tanti di quegli sgambetti da doverci rinunciare fin dall’inizio. Ed è così che col pretesto di controllo democratico si assicura il trionfo della mediocrità.
Per contro è cosa facilissima scalzare l’autorità dell’Amministrazione, e in tutti i paesi occidentali i poteri pubblici sono considerevolmente indeboliti. la difesa dei diritti del singolo giunge a tali eccessi che la stessa società si trova disarmata davanti a certi suoi membri: è giunto decisamente il momento per l’Occidente di affermare non tanto i diritti della gente, quanto i suoi doveri.
Al contrario la libertà di fare il bene, la libertà di distruggere, la libertà dell’irresponsabilità, ha visto aprirsi davanti a sé vasti campi d’azione. La società si è rivelata scarsamente difesa contro gli abissi del decadimento umano, per esempio contro ‘utilizzazione della libertà per esercitare una violenza morale sulla gioventù: si pretende che il fatto di poter proporre film pieni di pornografia, di crimini o di satanismo costituisca anch’esso una libertà, il cui contrappeso teorico è la libertà per i giovani di non andarli a vedere. Così la vita basata sul giuridismo si rivela incapace di difendere perfino se stessa contro il male e se ne lascia poco a poco divorare.
E che dire degli oscuri spazi in cui si muove la criminalità vera e propria? L’ampiezza dei limiti giuridici (specialmente in America) costituisce per l’individuo non solo un incoraggiamento a esercitare la sua libertà ma anche un incoraggiamento a commettere certi crimini, poiché offre al criminale la possibilità di sfuggire al castigo o di beneficiare di un’immeritata indulgenza, grazie magari al sostegno di un migliaio di voci che si leveranno in suo favore. E quando in un paese i poteri pubblici affrontano con durezza il terrorismo e si prefiggono di sradicarlo, l’opinione pubblica li accusa immediatamente di aver calpestato i diritti civili dei banditi. Ci sono al riguardo numerosi esempi.
La libertà non ha così deviato verso il male in un colpo solo, c’è stata un’evoluzione graduale, ma credo si possa affermare che il punto di partenza sia stato la filantropica concezione umanistica per la quale l’uomo, padrone del mondo, non porta in sé alcun germe del male, e tutto ciò che vi è di viziato nella nostra esistenza deriva unicamente da sistemi sociali erronei che è importante appunto correggere. Che strano però:l’Occidente, dove le condizioni sociali sono le migliori, presenta una criminalità indiscutibilmente elevata e decisamente più forte nel nell’Unione Sovietica, con tutta la sua miseria e il disprezzo della legge. (Da noi, nei campi di lavoro, ci sono moltissimi detenuti definiti comuni, che in realtà, nella stragrande maggioranza, non sono affatto criminali, ma gente che ha cercato di difendersi con mezzi non giuridici contro uno Stato senza legge)
Anche la stampa (uso il termine “stampa” per designare tutti i mass media) gode naturalmente della massima libertà. ma come la usa?
Lo sappiamo già: guardandosi bene dall’oltrepassare i limiti giuridici ma senza alcuna vera responsabilità morale se snatura i fatti e deforma le proporzioni. Un giornalista e il suo giornale sono veramente responsabili davanti ai loro lettori o davanti alla storia? Se, fornendo informazioni false o conclusioni erronee, capita loro di indurre in errore l’opinione pubblica o addirittura di far compiere un passo falso a tutto lo Stato, li si vede mai dichiarare pubblicamente la loro colpa? No, naturalmente, perché questo nuocerebbe alle vendite. In casi del genere lo Stato può anche lasciarci le penne, ma il giornalista ne esce sempre pulito. Anzi, potete giurarci che si metterà a scrivere con rinnovato sussiego il contrario di ciò che affermava prima.
La necessità di dare una informazione immediata e che insieme appaia autorevole costringe a riempire le lacune con delle congetture, a riportare voci e supposizioni che in seguito non verranno mai smentite e si sedimenteranno nella memoria delle masse. Quanti giudizi affrettati, temerari, presuntuosi ed erronei confondono ogni giorno il cervello di lettori e ascoltatori e vi si fissano! la stampa ha il potere di contraffare l’opinione pubblica e anche quello di pervertirla. Così, la vediamo coronare i terroristi del lauro di Erostato, svelare perfino i segreti della difesa del proprio paese, violare impunemente la vita privata delle celebrità al grido «Tutti hanno il diritto di sapere tutto» (slogan menzognero per un secolo di menzogna, perché assai al di sopra di questo diritto ce n’è un altro, perduto oggigiorno: il diritto per l’uomo di non sapere, di non ingombrare la sua anima divina di pettegolezzi, chiacchiere, oziose futilità. Chi lavora veramente, chi ha la vita colma, non ha affato bisogno di questo fiume pletorico di informazioni abbrutenti).
È nella stampa che si manifestano, più che altrove, quella superficialità e quella fretta che costituiscono la malattia mentale del XX secolo. Penetrare in profondità i problemi è controindicato, non è nella sua natura, essa si limita ad afferrare al volo qualche elemento di effetto.
E, con tutto questo, la stampa è diventata la forza più importante degli Stati occidentali, essa supera per potenza i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Ma chiediamoci un momento: in virtù di quale legge è stata eletta e a chi rende conto del suo operato? Se nell’Est comunista un giornalista viene apertamente designato dall’alto come ogni altro funzionario statale, chi sono gli elettori cui i giornalisti occidentali devono invece la posizione di potere che occupano? E per quanto tempo la occupano? E con quale mandato?
E infine c’è un altro tratto inatteso per un uomo che proviene dall’Est totalitario, dove la stampa è rigidamente unificata: se si considera la stampa occidentale nel suo insieme, si scopre che anch’essa presenta degli orientamenti uniformi, nella stessa direzione (quella del vento del secolo), dei giudizi mantenuti entro determinati limiti accettati da tutti e forse anche degli interessi corporativi comuni, e tutto ciò ha per risultato non la concorrenza ma una certa unificazione. E se la stampa gode di una libertà senza freno, non si può dire altrettanto dei suoi lettori: infatti i giornali danno rilievo risonanza soltanto a quelle opinioni che non sono troppo in contraddizione con quelle dei giornali stessi e della tendenza generale della stampa di cui si è detto.
In Occidente, anche senza bisogno della censura, viene operata una puntigliosa selezione che separa le idee alla moda da quelle che non lo sono, e benché queste ultime non vengano colpite da alcun esplicito divieto, non hanno la possibilità di esprimersi veramente né nella stampa periodica, né in un libro, né da alcuna cattedra universitaria. Lo spirito dei vostri ricercatori è si libero, giuridicamente, ma in realtà impedito dagli idoli del pensiero alla moda. senza che ci sia, come all’Est, un’aperta violenza, quella selezione operata dalla mode, questa necessità di conformare ogni cosa a dei modelli standardizzati, impediscono ai pensatori più originali e indipendenti di apportare il loro contributo alla vita pubblica e determinano il manifestarsi di un pericoloso spirito gregario che è di ostacolo a qualsiasi sviluppo degno di questo nome. Da quando sono in America, ho ricevuto lettere da persone straordinariamente intelligenti, ad esempio da un certo professore di un college sperduto in una remota provincia, che potrebbe davvero fare molto per rinnovare e salvare il suo paese: ma il paese non potrà mai sentirlo perché i media non lo appoggiano. Ed è così che i pregiudizi si radicano nelle masse, che la cecità colpisce un intero paese, con conseguenze che nel nostro secolo dinamico possono risultare assai pericolose.
Prendiamo ad esempio l’illusoria rappresentazione che si ha dell’attuale situazione del mondo: essa forma attorno alle teste una corazza così dura che nessuna delle voci che ci provengono da 17 paesi dell’Europa dell’Est e dell’Asia orientale riesce ad attraversarla, in attesa che l’implacabile maglio degli eventi la faccia volare in mille pezzi.

sabato 17 gennaio 2015

Nessun limite alla libertà dei media ?

Dopo alcuni giorni segnati solo da sconcerto e dall’emozione, anche in Francia si comincia a riflettere in modo più approfondito su ciò che è accaduto. Molto interessante, e originale, la risposta che il grande intellettuale bulgaro naturalizzato francese Tzvetan Todorov ha dato a un’intervista su «La Croix» uscita il 14 gennaio. «La libertà di espressione pubblica, o libertà dei media, non è un valore inalienabile, intoccabile o non negoziabile, come si è detto molto in questi ultimi giorni» perché «una libertà senza limiti non può essere legittima».
Lo Stato democratico — continua il filosofo intervistato da Céline Rouden — «è l’espressione della volontà popolare, così come un protettore delle libertà individuali, tra cui la libertà di stampa. Deve dunque difendere anche altri valori, come la sicurezza dei cittadini, la pace civile tra di essi, la giustizia, l’eguale dignità di tutti. Questi valori esercitano un effetto di limitazione gli uni sugli altri. La politica dello Stato è sempre un compromesso tra questi valori».
E la libertà di stampa, continua Todorov, è anche un potere; «ebbene, in democrazia, nessun potere senza limiti può essere legittimo. Non dimentichiamo che il giornale dell’antisemita Édouard Drumont, alla fine del XIX secolo, si chiamava “La libre parole”: la libertà, per lui, consisteva nel poter parlare male degli ebrei. Molto più vicini a noi, i partiti xenofobi in Europa si richiamano alla libertà di stampa per poter dire impunemente tutto il male che pensano dei musulmani che vivono nel loro Paese. Questo fine non era assente nei primi autori delle caricature del Profeta, in Danimarca: provocando l’indignazione della popolazione musulmana, volevano rivelare al grande pubblico l’intolleranza di quella popolazione».
Bisognerebbe interrogarsi sempre, quando si difende la libertà di stampa, sul rapporto di potere tra colui che la esercita e colui che la subisce, conclude l’autore di I nemici intimi della democrazia. «Drumont  attaccava una minoranza (gli ebrei) già discriminata e godeva dell’appoggio della maggioranza. Edward Snowden, che ha rivelato, grazie alla stampa, le derive illegali delle agenzie di sorveglianza negli Stati Uniti, è un individuo isolato che ha messo sotto accusa il governo del suo Paese. Sono due casi diversi».

Articolo tratto dall’Osservatore Romano 

giovedì 15 gennaio 2015

Il laicismo 'scemo'.

«Tutto è perdonato» recita lo splendido titolo del nuovo numero di Charlie Hebdo, con Maometto che piange in copertina con il cartello «Je suis Charlie» tra le mani. Il giornale è uscito oggi nelle edicole francesi con una tiratura eccezionale di cinque milioni di copie, esattamente una settimana dopo l’attentato terroristico che ne ha decimato la redazione parigina. Ma le note liete del «giornale irresponsabile», come si autodefinisce in prima pagina, si fermano al titolo.

L’EDITORIALE. Il nocciolo di tutto il numero si riflette nell’editoriale di Gérard Biard, a pagina due e tre. Dopo aver ringraziato «di cuore» i milioni di persone che «ci sono veramente vicini» e aver mandato a «[...]» tutti gli altri, si legge: «Però c’è una domanda che ci assilla: riusciremo finalmente a far sparire dal lessico politico e intellettuale quel brutto epiteto di “laicista integralista”?».

SERVE LA LAICITÀ. Cioè: «Speriamo che, a partire da questo 7 gennaio 2015, la difesa ferma della laicità sia un dato acquisito per tutti, che si smetterà finalmente di legittimare o anche solo di tollerare – per atteggiamento politico, per calcolo elettoralistico o per vigliaccheria – il comunitarismo e il relativismo culturale che aprono la strada a una cosa sola: il totalitarismo religioso». Perché «è un’ironia» ma solo «questa laicità punto e basta consente ai credenti e agli altri di vivere in pace», solo questa «permette la piena libertà di coscienza, negata – più o meno apertamente, secondo il loro posizionamento di marketing – da tutte le religioni dal momento in cui escono dalla sfera più stretta dell’intimità per scendere sul terreno della politica».

CHI È CHARLIE? «Io sono Charlie», insomma, significa «io sono la laicità». Detta così, non suona neanche troppo male. Ma come si esprime questa laicità invocata dal settimanale? Sfogliando le pagine del giornale, tra un Cristo inchiodato alla croce che chiede di essere girato per non scottarsi al sole e una vignetta in cui i musulmani sono ritratti con falli al posto dei nasi, tra un Papa che permette la comunione ai divorziati e invoca perdono «per queste [...]» e un Maometto in copertina con la faccia che è chiaramente un fallo capovolto, il tutto condito da volgarità morbose e sguaiate sparse qua e là, la cui colpa più grave è di far ridere molto poco; sfogliando le pagine del giornale, ecco, si capisce che la laicità «punto e basta» di Charlie Hebdo non è idilliaca, né positiva, né simpatica. È vuota.

DISTRUGGERE LA VERITÀ. La laicità, che poi coincide con la libertà tanto invocata in questi giorni, non è niente di più se non la libertà di dissacrare e relegare le religioni «nell’intimità». Laicità è accettare che «le campane di Notre-Dame rintocchino in nostro onore» ma solo se sono «le Femen a suonarle», continua l’editoriale. Ma se la massima espressione di libertà che la Francia sa offrire al suo popolo e al mondo intero equivale alla distruzione sistematica di ogni verità, anche solo presunta tale, c’è poco da ridere.

TRIBUNALI, NON KALASHNIKOV. Come ha espresso in modo sintetico ed efficace il cardinale Jean-Pierre Ricard, arcivescovo di Bordeaux, spazzando il campo da ogni possibile dubbio di connivenza o giustificazione, «devo ammettere che Charlie Hebdo non era la mia tazza da the! Rilevo anche in certe caricature una vera violenza. Ma nel nostro Paese, in caso di contenzioso, le cose si regolano davanti ai tribunali. Non uccidendo la gente». Punto e basta.

NON SIAMO TUTTI CHARLIE. Resta solo un problema con cui la Francia e tutto l’Occidente devono fare i conti. Perché giovani francesi «si fanno sedurre dalle sirene dell’islamismo?». Perché l’Occidente, con la sua «crisi di valori», con l’esaltazione del «consumismo», con il fallimento della trasmissione della fede ha creato «un grande vuoto spirituale». La Francia, specie il governo Hollande, ha cercato di riempire questo vuoto «con l’educazione alla laicità». Ma la laicità, continua l’arcivescovo di Bordeaux, va bene come «principio repubblicano», non «come ragione di vita o di speranza». E poiché «un’attesa spirituale che non trova risposta», perché si vuole «cancellare la risposta dallo spazio pubblico», «rischia sempre di esprimersi in maniera violenta», ecco che il rimedio invocato da Charlie Hebdo al «totalitarismo religioso» non fa che alimentarlo. È anche per il bene di Charlie Hebdo che non siamo tutti Charlie.

 

Leone Grotti, Leggere Charlie Hebdo e scoprire che anche gli anticlericali hanno una religione: il laicismo scemo, "Tempi", 14.01-15.

mercoledì 14 gennaio 2015

L'opinione del Presidente dell'Egitto (musulmano) sull'islam.


 Abdel Fattah al Sisi, Presidente dell'Egitto.
«Dove ci condurrà questa terza guerra mondiale che, come ha detto Francesco, “è già cominciata”? In qualsiasi momento e per qualsiasi “incidente” ci condurrà a una catastrofe». La considerazione era contenuta nell’editoriale con cui ieri mattina salutavamo su questo sito il vecchio anno e ci auguravamo il miracolo di una ripresa di libertà in un mondo fatto di opposte ma complementari spinte fanatiche e totalitarie: l’odio dell’altro da una parte e l’odio di sé dall’altra; il nichilismo islamista di là e l’irrazionalismo buonista di qua; lo Stato islamico in Oriente, lo Stato laicista in Occidente. 

Ed ecco che nella stessa mattinata di ieri il “qualsiasi momento” e “qualsiasi incidente” si è materializzato nell’orrenda strage dei giornalisti di Charlie Hebdo al grido di “Allah è grande”. La rivista era da tempo nel mirino del terrorismo perché si è permessa di fare sistematica satira sull’islam e sul suo Profeta. Naturalmente così come dissacrava l’islam, Charlie Hebdo dissacrava tutte le altre religioni, cristianesimo ed ebraismo in testa (e d’altronde attaccare i cristiani, la Chiesa, i simboli giudeo-cristiani è oggi lo sport preferito in ogni posto del mondo). Ma solo l’islamismo ha dichiarato guerra ai dissacratori, alla satira, alla vita, al mondo. Solo gli islamisti associano «Allah è grande» all’«amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita».

E noi che adesso guardiamo con sgomento e paura alla capitale di certi nostri week-end, cosa vediamo in quella strada dei Lumi gonfia di orrore e di sangue? Vediamo, purtroppo, ancora poco. Abituati a essere forti e sprezzanti con i deboli e deboli e timorosi con i forti, i nostri cari leader ed élite europee ci hanno abituati a una dieta di idee che prevede sempre e comunque da una parte il disprezzo delle nostre tradizioni, ragione e libertà rimpiazzate dall’idolatria di un accomodante pacifismo e di uno sciocco relativismo, dall’altra il “rispetto” delle culture “altre”, anche laddove esse manifestano tutto il loro rifiuto di integrazione e replicano con disprezzo a quanti li richiamano all’osservanza dell’ordine e della democrazia che li ospita.

Feroci con i nostri popoli (accusati puntualmente di razzismo e fascismo se mostrano disagio sociale e protesta politica per le prepotenze altrui), l’ordine che circola ad ogni livello delle società europee è mantenere la calma, il basso profilo, la comprensione – in nome di una equivoca “tolleranza” e “multiculturalità” – nei confronti di tutti quei soggetti e comunità che praticano nel cuore dell’Europa la sharia o il disprezzo degli infedeli; l’asservimento delle donne o l’ignoranza dei bambini. O tutte queste cose insieme. Ora, per l’ennesima volta, la realtà testarda ci è venuta a trovare. Tremende sono le immagini dell’eccidio parigino. Ma forse ancor più tremendo sarà il tentativo rimozione di chi, puntualmente, chiamerà in causa le “colpe dell’Occidente”.

Ma insomma, siamo stufi di chiudere gli occhi, come ci sono stati chiusi da che Benedetto XVI pronunciò quel discorso a Ratisbona che provocò la sollevazione generale e l’indignazione unanime di cancellerie internazionali musulmane e cancellerie occidentali laiciste (francese compresa).

Ricordate? A un certo punto Benedetto XVI citò il dialogo tra un imperatore bizantino e un saggio musulmano, esponente di quella religione che di lì a poco avrebbe preso Bisanzio ed estirpato con la forza secoli di presenza cristiana. Chiedeva l’imperatore al saggio musulmano: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». Si gridò allora allo scandalo. E si proseguì con i soliti distinguo tra “islam moderato” e “islam radicale”.

Un distinguo tanto reale, ovvio, evidente, che ci ha fatto perdere di vista la realtà. Quella realtà che, paradossalmente, nei giorni scorsi ha avuto l’ardire di richiamarci e affermare proprio un autorevole leader islamico. E per di più parlando al cospetto dei più importanti dignitari religiosi del mondo islamico. La notizia era di un appeal straordinario. Eppure, a parte Avvenire, solo un vecchio giornalista ed ex ambasciatore (Sergio Romano) l’ha segnalata (sebbene nei limiti della rubrica delle lettere del Corriere della Sera). E infatti, dove si è mai visto – anche dalle nostre parti – il coraggio di entrare nella più importante università del mondo musulmano, la cairota Al Azhar, e contrastare apertamente addirittura la dottrina e le leadership della grande umma musulmana?

Ha detto ai supremi capi teologici dell’islam il generale Al Sisi: «È possibile che la nostra dottrina debba fare di tutta la umma una sorgente di ansietà, pericolo, uccisioni e distruzioni per il resto del mondo? È possibile che 1,6 miliardi di persone vogliano, per poter esse stesse vivere, uccidere il resto degli abitanti del mondo?». Altro che l’imperatore cristiano citato da Benedetto XVI! Vi immaginate cosa succederebbe se anche solo uno di noi, l’ultimo di noi, pronunciasse simili frasi in Europa o in America? Finirebbe linciato sui giornali e condannato nei tribunali per “incitamento all’odio e all’islamofobia”. 

Dunque? Dunque impariamo dal generale Al Sisi e dai milioni di musulmani che non odiano il resto del mondo, a pronunciare parole di realtà. E liberiamoci, una buona volta, dal giogo di pacifismo e relativismo con cui ogni giorno rigettiamo i musulmani tra le braccia delle loro dottrine e leader fanatici.

Non inizieremo ad affrontare mai il “momento” e l’“incidente” di una catastrofe sempre più incipiente, se non ricominciamo a dire le cose come stanno. Se non ricominciamo a dire che c’è un bene e che esiste una verità sull’uomo. Realtà. Il bene e il male. Verità. Tutte cose che impariamo dall’esperienza della vita, dai fatti e dall’esercizio della ragione sottomessa ai fatti. Non dalle utopie buoniste. Cose che non impariamo né dalla sharia dello Stato islamico, né dalla sharia dello Stato laicista. Essendo anzi entrambi alleati nella distruzione del mondo. Poiché il mondo non è fondato sulle teorie, siano esse religiose o scientifiche. Il mondo è fondato su quelle poche grandi realtà umane che sono la libertà di coscienza, la dignità della persona, l’alleanza e la differenza tra uomo donna, l’apertura alla vita, al suo significato, al suo destino buono di fede e speranza nel mondo, come ha scritto l’ebrea agnostica Hannah Arendt, «che trova forse la sua più gloriosa e efficace espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la “lieta novella”: “Un bambino è nato fra noi”».

Ps. E impariamo da Benedetto XVI, omelia pronunciata a Monaco il 10 settembre 2006, due giorni prima della lectio magistralis all’univeristà di Ratisbona: «Le popolazioni dell’Africa e dell’Asia ammirano, sì, le prestazioni tecniche dell’Occidente e la nostra scienza, ma si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da insegnare anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l’utilità a supremo criterio per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio – il rispetto di ciò che per l’altro è cosa sacra. Ma questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio».

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Di seguito, il video di cui si parla nel testo e a cui si riferisce Ferrara durante la trasmissione "Servizio pubblico".
In effetti, le parole del presidente egiziano, davanti ad una platea con i massimi esponenti della teologia musulmana, non lasciano spazio a dubbi.

L'ateismo ? Nel mondo arabo è reato.

Uno studente egiziano, accusato di blasfemia, è stato condannato a tre anni di carcere in Egitto. Karim al Banna, 21 anni, avrebbe pubblicato un messaggio su Facebook dove afferma di essere ateo e insulta l’islam.

ACCUSE DEL PADRE. «Se paga una cauzione di 1000 pound egiziani (117 euro, ndr) la sentenza sarà sospesa fino al verdetto della corte di appello», ha dichiarato domenica all’Afp l’avvocato del ragazzo, Ahmed Abdel Nabi. Secondo l’avvocato, il padre di Karim avrebbe testimoniato in aula contro di lui affermando: «Sta abbracciando idee estremiste contro l’islam».

LIBERTÀ RELIGIOSA. Karim si trova in prigione da novembre. Dopo aver annunciato su Facebook il suo ateismo, i vicini avrebbero cominciato a infastidirlo e insultarlo. Recatosi alla polizia per denunciare questi comportamenti, è stato arrestato e accusato di blasfemia.

In Egitto la religione di Stato è l’islam. La Costituzione appena modificata riconosce libertà religiosa anche a ebrei e cristiani, ma nonostante la richiesta dei copti, le stesse garanzie non sono state estese anche ad atei e altri gruppi religiosi.

ALTRI CASI. Le condanne per blasfemia in Egitto non sono una novità. Albert Saber, blogger ateo, nel dicembre del 2012 è stato condannato a tre anni di carcere per diffamazione della religione. Nel giugno 2014, l’insegnante cristiana Dimyana Abdel Nour è stata condannata a sei mesi di carcere per presunte frasi blasfeme rivolte in classe agli alunni. A giugno, il cristiano convertito Bishoy Armiya Boulous, è stato condannato a cinque anni di carcere. Secondo il suo avvocato, la sua vera colpa è di aver abbandonato l’islam per il cristianesimo.

PROCESSI DI BLASFEMIA AUMENTATI. Dalla cosiddetta “Primavera araba” del 25 gennaio 2011, la situazione della libertà religiosa è deteriorata in Egitto. Dal 2011 al 2013 sono avvenuti 63 processi per blasfemia, soprattutto durante il mandato presidenziale di Mohamed Morsi, «un aumento rispetto al periodo precedente la rivoluzione del 100 per cento», secondo il rapporto “Assedio al pensiero”, realizzato dall’Iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr).


Leone Grotti, Egitto. Annuncia di essere ateo su Facebook: condannato a tre anni di carcere, "Tempi", 14-01-15. 

Una preside da imitare.

Con tutta l'apertura di credito nei confronti dello studente  (presentato da molti come un bravo ragazzo),  ritengo che la decisione della Preside sia non soltanto opportuna, ma addirittura doverosa.  
I giovani hanno il diritto di esprimere (nei limiti consentiti) le loro bizzarrie, ma le istituzioni hanno l'obbligo di far rispettare quelle norme senza le quali ogni società è destinata a sfasciarsi.

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“O si taglia i capelli rasta, o non può entrare a scuola”. Ha “violato” il regolamento scolastico presentandosi all’ingresso del suo istituto, l’istituto alberghiero di Riccione, al ritorno dalle vacanze di Natale, con i cosiddetti dreadlocks e perciò non è stato ammesso alle lezioni. Massimiliano, 16 anni, è stato così costretto a rimanere a casa per via della sua pettinatura: “Una discriminazione” dice la famiglia. “I rasta – spiega la preside della scuola Daniela Casadei, che ha deciso il provvedimento – sono contrari alle norme igienico sanitarie della scuola. Perciò Massimiliano non potrà riprendere a frequentare né la cucina, né i laboratori finché non si taglierà i capelli”. Cucina e laboratori rappresentano la gran parte delle lezioni dell’alberghiero romagnolo.
Secondo Casadei, infatti, a bandire i rasta dalla scuola sarebbe l’articolo 26 del regolamento interno, “firmato – precisa – da tutti i genitori degli studenti a inizio anno scolastico”: “Nel rispetto delle norme igienico-sanitarie e delle abitudini dei diversi settori gli allievi sono tenuti a indossare un abbigliamento decoroso, curato e ordinato. Sono quindi da evitare abbigliamenti, acconciature, accessori e trucchi particolari che possano contravvenire a queste norme”. Di dreadlocks come quelli di Massimiliano, iscritto al corso di operatore della ristorazione finanziato dalla Regione Emilia Romagna, nel regolamento non si parla esplicitamente, tuttavia, per la dirigente scolastica, “non sono decorosi, né tantomeno igienici. Mi dicono che si possano lavare, ma a mio parere rimangono sporchi e sono sempre arruffati. Prima di Natale Massimiliano portava i capelli lunghi, però li teneva sempre in ordine, ora invece sono ingestibili”. In più, critica la preside dello Ial, “è anche una questione di estetica: immaginatevi un ragazzo in giacca e cravatta, ma con i rasta. E’ indecoroso”.

martedì 13 gennaio 2015

Marciare solo per Parigi ?

Sono ormai cinque anni che i terroristi islamici di Boko Haram assediano la Nigeria, e il bilancio di questa guerra è terribile: solo nell’ultimo anno novemila vittime. Lo ha ricordato Ignatius Ayau Kaigama, presidente della Conferenza episcopale nigeriana, in un’intervista rilasciata alla Bbc. Dopo gli ultimi tre attentati che hanno visto anche il coinvolgimento di tre bambine kamikaze, l’arcivescovo di Jos si è rivolto all’Occidente che cerca di reagire compatto alla strage di Parigi, ricordando che anche la Nigeria ha «bisogno di quello spirito da diffondere in giro. Non solo quando [l'attacco] avviene in Europa, ma quando accade in Nigeria, in Niger, in Camerun. Dobbiamo mobilitare le nostre risorse internazionali e guardare e affrontare le persone che portano tanta tristezza in tante famiglie».

MA QUALI AIUTI AMERICANI. L’appello di Kaigama all’unità contro il fondamentalismo fa seguito all’attacco avvenuto la settimana scorsa a Baga, nel quale hanno perso la vita decine di persone (all’inizio si è parlato addirittura di 2 mila morti, poi la cifra è scesa a 150 ma non è ancora ufficiale), all’attentato di sabato scorso a Maiduguri, portato a termine da una bambina kamikaze che ha fatto 19 vittime, e a quello del giorno successivo in cui altre due bambine kamikaze, di 10 e 15 anni, si sono fatte saltare in aria nel mercato di Potiskum, uccidendo almeno 7 persone e ferendone 48. «È una tragedia monumentale che ha rattristato tutta la Nigeria», ha detto il capo dei vescovi nigeriani. «Ma ci sembra di essere impotenti. Perché se potessimo fermare Boko Haram, lo faremmo subito. Ma continuano ad attaccare e uccidere e occupare territori, con tanta impunità». Alla domanda della giornalista sugli aiuti degli Stati Uniti al Paese, Kaigama ha risposto ribadendo la necessità di non continuare a guardare solo in casa propria: «Se gli Stati Uniti ci aiutano perché Boko Haram cresce? Perché la loro strategia migliora? Mi domando quale sia la qualità degli aiuti che ci danno».

LE BAMBINE KAMIKAZE. Con l’agenzia Fides, poi, Kaigama ha parlato dell’aggravarsi dei metodi utilizzati dal gruppo islamista: «La nuova strategia dei terroristi di Boko Haram, di usare bambine innocenti come bombe umane, è aberrante e inimmaginabile», ha detto. Le bambine mandate dai terroristi al mercato imbottite di esplosivo «sono state indottrinate, hanno fatto loro il lavaggio del cervello per fargli credere che andranno in paradiso compiendo queste azioni». D’altronde, ha continuato l’arcivescovo, «abbiamo ben presente il triste fenomeno dei bambini soldato in diverse zone dell’Africa, che sono indottrinati con terrificanti metodologie di lavaggio del cervello per diventare delle macchine per uccidere».

«UNA GRANDE MARCIA». Anche a Fides Kaigama ha voluto infine ribadire il suo appello all’unità contro il terrorismo. In questo attacco sempre più globale sferrato dai terroristi, ha ricordato, «non c’è distinzione tra cristiani e musulmani: sono tutti fuggiti di fronte alle violenze di Boko Haram anche perché in diverse famiglie vi sono cristiani e musulmani che convivono pacificamente. Chi non condivide l’ideologia di Boko Haram, e tra questi molti musulmani, è costretto a fuggire». Perciò, ha concluso Kaigama, «penso alla grande manifestazione di Parigi e auspico anche qui una grande marcia di unità nazionale che superi le divisioni politiche, etniche e religiose. Dobbiamo dire no alla violenza e trovare una soluzione ai problemi che affliggono la Nigeria».




lunedì 12 gennaio 2015

Chi ha paura di Jimmy Lai ?

Nuovo attentato contro la casa di Jimmy Lai, 66 anni, tycoon dei media di Hong Kong e raro sostenitore nel mondo del business del movimento pro-democrazia dell’ex-Colonia britannica, oggi zona ad amministrazione semi-autonoma cinese. Stando a quanto si può vedere in un filmato registrato dalle telecamere di sicurezza, nella notte un uomo mascherato si è avvicinato all’abitazione di Lai con un’auto argento, ne è sceso, ha gettato una bomba molotov ed è ripartito in fretta. Simultaneamente, un altro attentato con dinamica simile è avvenuto alla sede del gruppo Next media, fondato da Jimmy Lai, e che pubblica l’Apple Daily e il settimanale Next, entrambi caratterizzati da una forte linea editoriale pro-democrazia, pro-riforme politiche e a sostegno dei dissidenti in Cina. La polizia sta indagando. 

Non è la prima volta che Lai si ritrova ad essere al centro di attacchi violenti: negli anni passati Lai ha avuto la soglia di casa e dell’ufficio imbrattata di feci, ha ricevuto innumerevoli minacce ed un’auto si era andata a schiantare contro il cancello della sua abitazione, distruggendolo, lasciando a terra un machete ed un’ascia. Gli attacchi verbali sulla stampa pro-governo di Pechino, poi, non si contano. Inoltre, in settembre, l’agenzia anti-corruzione di Hong Kong, l’ICAC, ha lanciato un’inchiesta contro Lai che molti sospettano avere una chiara motivazione politica, dato che vuole indagare il modo in cui sono avvenute le donazioni fatte da Lai ad alcuni membri del movimento pro-democrazia. Per il momento le indagini non hanno rivelato alcuna irregolarità. 

Lai è una delle figure più inusuali del panorama politico di Hong Kong: messo su una barca dai genitori a 12 anni affinché sfuggisse alle ristrettezze della Cina comunista, e arrivato poi a nuoto nel territorio quando era ancora sotto governo britannico, è riuscito a diventare un uomo d’affari di grandissimo successo, prima nel settore dell’abbigliamento, poi in quello dell’editoria. La sua traiettoria professionale però è sempre stata demarcata da una schietta denuncia del regime comunista di Pechino, e, in tempi più recenti, da una conversione aperta al cattolicesimo, che lo ha portato ad essere vicino al Cardinale Zen di Hong Kong, anch’egli originario della Cina continentale (Shanghai) ed uno dei principali sostenitori del movimento pro-democrazia locale. 

Dopo la democratizzazione di Taiwan, Lai aveva lanciato il suo popolare Apple Daily anche a Taiwan, insieme al settimanale Next, restando però deluso dai crescenti controlli sui media e sulla vita politica imposti dal governo di Ma Ying-eou, che vuole riavvicinare l’isola alla Cina.  

Lai è stato inoltre una delle personalità di maggior spicco visibili ai luoghi dell’occupazione di protesta di Hong Kong nel corso del “Movimento degli Ombrelli” per il suffragio universale, che ha bloccato diverse strade nevralgiche di Hong Kong nel corso dell’autunno. La tenda dove Lai dormiva è stata attaccata da ignoti, ma Lai non aveva smesso di recarsi ai luoghi delle manifestazioni e di stampare gratuitamente gli adesivi e gli striscioni con lo slogan del movimento, “Voglio un vero suffragio universale”, scritto a grossi caratteri neri su sfondo giallo. In precedenza, Lai era stato anche uno dei sostenitori del movimento pro-democrazia cinese del 1989, e ha regolarmente aiutato numerosi dissidenti cinesi, sia in termini economici che logistici quando si rendeva necessaria la fuga, che dando loro spazio sui suoi giornali. 

Quando la polizia ha infine sgomberato Admiralty, dove era la più grossa occupazione degli studenti e dei loro sostenitori, Lai è rimasto fino all’ultimo, facendosi arrestare insieme ad altre centinaia di persone. Rilasciato, è stato ora avvertito dalla polizia che il suo arresto per “assembramento illegale” è imminente, e che dovrà recarsi alla polizia il 21 gennaio prossimo. A causa di queste vicende giudiziarie dunque Lai ha deciso di lasciare il posto al suo vice-direttore, e dare le dimissioni da Presidente del gruppo Next Media.