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sabato 25 aprile 2015

Gli eroi sconosciuti della seconda guerra mondiale: Pēteris Jansons

OMFp 6261
Una barca di profughi lettoni nel Mar Baltico.
Foto d’archivio Okupācijas muzejs
.
Ci fu un tempo in cui i lettoni fuggivano dalla propria patria sulle barche sfidando il mar baltico , per scampare ad un destino di morte o prigionia nella patria occupata dai sovietici, poi dai nazisti, poi nuovamente dai sovietici, durante la II guerra mondiale.
E ci fu un lettone, in quegli anni, Pēteris Jansons, che riuscì a salvare ben 2000 suoi compatrioti, organizzando oltre 30 viaggi in barca dalle coste lettoni a quelle svedesi, attraverso il mar baltico. L’approdo e la salvezza erano rappresentati dalla costa del Gotland, l’isola in mezzo al mar baltico, primo avamposto della libera Svezia.
Quest’anno Pēteris Jansons festeggia i settanta anni di anniversario di anniversario con la moglie Inga, ed è riconosciuto dall’agenzia per i profughi dell’Onu, la UNHCR, come uno degli eroi di quel tempo tragico.
La Lettonia  nel 1940 fu invasa dalle truppe sovietiche, sulla base del Patto Molotov Ribbentrop, che lasciava campo libero a Mosca su tutto il baltico. Un anno dopo l’invasione, nel giugno 1941, il KGB dette il via ad una enorme deportazione di lettoni, estoni e lituani, famiglie e bambini, verso la Siberia.
Poche settimane dopo fu la volta dell’esercito nazista ad occupare i paesi baltici, dando vita a rappresaglie analoghe, indirizzate in questo caso in particolare verso le vaste comunità ebraiche di quei paesi.
Con il ritiro delle truppe tedesche, e l’avanzata dell’Armata rossa, tornò in Lettonia l’incubo della dittatura sovietica e delle deportazioni verso la Siberia, che puntualmente ripresero nel 1949.
Dei 40 mila baltici, lettoni, lituani ed estoni che tentarono di fuggire verso la Svezia durante gli anni della II guerra mondiale, più di 2000 annegarono nel mar baltico.
La Svezia e i paesi scandinavi diventarono per molti lettoni l’unica sponda di salvezza, l’unica possibilità di scampo.

Pēteris Jansons e sua moglie Inga si conobbero proprio nell’isola di Gotland, dove Pēteris giunse nel 1943, anche lui esule dalla Lettonia. Scappava per non dover essere arruolato a forza, come molti altri lettoni, nelle forze armate tedesche, che cercavano di contrastare la controffensiva dell’Armata rossa.

Pēteris Jansons e sua moglie Inga
         Pēteris Jansons e sua moglie Inga.
Pēteris aveva 21 anni quando lasciò la sua patria, adesso ne ha 92.

Ma i suoi ricordi su quegli anni e sulla sua attività per salvare i suoi connazionali sono ancora vivi: “Uno dei viaggi più pericolosi che ricordi, è stato quello in cui salvammo 273 persone. Ricordo che c’era una bambina appena nata, diversi bambini, per 46 ore nessuno poteva muoversi di un millimetro sulla barca. La barca ai bordi era  cinque centimetri buoni già sotto l’acqua, per questo ordinammo ai passeggeri di disfarsi in acqua della maggior parte dei vestiti e delle cose che si erano portati dietro.

Il ricordo più distinto di Jansons: “quel tramonto, le cose che galleggiavano sulla superficie dell’acqua dietro di noi, e le persone che sedevano in assoluto silenzio, senza dire una parola”.
Pēteris interruppe i suoi viaggi in barca per traghettare i lettoni verso la Svezia solo quando sua moglie rimase incinta.

Nel 1957 ricevette una lettera dalla Lettonia, dove era scritto che i genitori erano vivi. Seppe che un giorno nel 1944 i suoi genitori attesero il figlio sulle sponde lettoni, per mettersi anche loro in salvo.

“Non ho pianificato quello che ho fatto, è semplicemente successo. L’ho fatto per servire la Lettonia”, conclude Jansons.

Quando i lettoni fuggivano in barca verso la Svezia per salvarsi da nazisti e sovietici, "Baltica", 21-04-15.

Antonia Arslan sullo sterminio degli Armeni.


Questo articolo di Antonia Arslan è tratto dal numero 16 del settimanale Tempi (qui la pagina degli abbonamenti). Scrittrice e saggista di origine armena, docente emerita di Letteratura italiana all’Università di Padova, Antonia Arslan è autrice de La masseria delle allodole, il romanzo che l’ha resa celebre, primo capitolo di una indagine storico-familiare sulle vicende del popolo armeno e a partire dal genocidio perpetrato nei suoi confronti all’inizio del secolo scorso dall’Impero ottomano. La “serie” letteraria è proseguita con un altro titolo di successo, La strada di Smirne, mentre il terzo capitolo della serie, Il rumore delle perle di legno (Rizzoli, 17 euro), è uscito in libreria proprio nelle scorse settimane. Da alcuni mesi la Arslan cura per l’editore Guerini “Frammenti di un discorso mediorientale”, collana di volumi dedicati alla tragedia armena e al Medio Oriente.

C’erano tante scuole, nell’Armenia anatolica. E tante chiese, tante croci di pietra, i magnifici katchkar che sorgevano dovunque, agli incroci delle strade e dei campi, tutti incisi di rami fiorenti, di foglie, di frutti, a significare la vita che risorge dalla morte, l’universo che rinasce e fiorisce dal simbolo cristiano.

Ogni villaggio aveva la sua chiesa, vicino a ogni chiesa c’era la scuola. E tutti i bambini, maschi e femmine, imparavano a leggere e scrivere, nel bellissimo antico alfabeto, inventato nel quinto secolo dal santo Mesrop Mashtots, che voleva dare al popolo armeno, recentemente convertito, un modo per poter leggere le Sacre Scritture nella sua lingua. Secondo la leggenda, egli aveva visto in sogno un angelo scrivere su un muro le nuove fiammeggianti lettere in caratteri d’oro. La sua invenzione diede al popolo armeno un’identità e una letteratura, che costituirono, insieme alla fede, le radici della sua più profonda identità. Dovunque, per tutti i secoli della loro storia, gli armeni ebbero il culto del libro, come tesoro, come fonte di ispirazione e radice identitaria. Nel centro dell’Anatolia, nel vilayet (distretto) di Kharpert, scuole e collegi, come il celebre Collegio Eufrate, raccoglievano il fior fiore della gioventù armena.

Contadini, erano, gli armeni, nelle fertili pianure, le golden plains della nostalgia dei superstiti; erano artigiani, fornai, orologiai, fabbri. E vivevano da millenni in quelle terre, intorno al monte Ararat e ai tre grandi laghi di montagna, Van, Sevan e Urmià. Avevano sviluppato una cultura feconda e originale, inventando chiese antisismiche che ancora oggi resistono alla furia dei terremoti, e stanno in piedi finché non vengono distrutte dalla furia degli uomini. Avevano sviluppato una finissima arte della traduzione, della scrittura e della miniatura: i grandi vangeli e tutti i codici medievali armeni, nonostante le massicce distruzioni, costituiscono un inestimabile patrimonio dell’umanità (e una delle più importanti raccolte del mondo sta in Italia, a Venezia, nell’isola di San Lazzaro degli Armeni, nella laguna di fronte a San Marco).

tempi-genocidio-armenoDella furia della tragedia che li spazzò via dalle loro terre ancestrali nella mia famiglia non si parlava quasi. Eravamo del tutto italianizzati: lingua, scuole, amici, usi e costumi. Sapevamo però di avere qualche cosa di originale e curioso, tutto nostro: erano gli armeni, e venivano da dovunque. Erano zii e zie, cugini e amici che ogni tanto capitavano a casa nostra, a Padova, da posti strani e lontani. Lo zio Michael veniva da Copacabana e aveva sposato un’assira, il che lo rendeva meno interessante agli occhi di zia Henriette, cugina di papà, la sopravvissuta che viveva proprio di fronte a noi. Lei non parlava mai della tragedia, eppure era seduta sulle ginocchia di sua madre Shushanig, la piccola Susanna, quando il padre venne decapitato e la sua testa le fu lanciata addosso: è la storia della Masseria delle allodole, ma io non l’ho imparata da lei. La zia ricordava la sua gente col cibo: veniva a cena da noi ogni sera portando yogurt, un vassoio di berek o un dolce, e la sua presenza riempiva la nostra casa di memorie oscure.

C’erano tante scuole, nell’Armenia anatolica. E tante chiese, tante croci di pietra, i magnifici katchkar che sorgevano dovunque, agli incroci delle strade e dei campi, tutti incisi di rami fiorenti, di foglie, di frutti, a significare la vita che risorge dalla morte, l’universo che rinasce e fiorisce dal simbolo cristiano.

Ogni villaggio aveva la sua chiesa, vicino a ogni chiesa c’era la scuola. E tutti i bambini, maschi e femmine, imparavano a leggere e scrivere, nel bellissimo antico alfabeto, inventato nel quinto secolo dal santo Mesrop Mashtots, che voleva dare al popolo armeno, recentemente convertito, un modo per poter leggere le Sacre Scritture nella sua lingua. Secondo la leggenda, egli aveva visto in sogno un angelo scrivere su un muro le nuove fiammeggianti lettere in caratteri d’oro. La sua invenzione diede al popolo armeno un’identità e una letteratura, che costituirono, insieme alla fede, le radici della sua più profonda identità. Dovunque, per tutti i secoli della loro storia, gli armeni ebbero il culto del libro, come tesoro, come fonte di ispirazione e radice identitaria. Nel centro dell’Anatolia, nel vilayet (distretto) di Kharpert, scuole e collegi, come il celebre Collegio Eufrate, raccoglievano il fior fiore della gioventù armena.

Contadini, erano, gli armeni, nelle fertili pianure, le golden plains della nostalgia dei superstiti; erano artigiani, fornai, orologiai, fabbri. E vivevano da millenni in quelle terre, intorno al monte Ararat e ai tre grandi laghi di montagna, Van, Sevan e Urmià. Avevano sviluppato una cultura feconda e originale, inventando chiese antisismiche che ancora oggi resistono alla furia dei terremoti, e stanno in piedi finché non vengono distrutte dalla furia degli uomini. Avevano sviluppato una finissima arte della traduzione, della scrittura e della miniatura: i grandi vangeli e tutti i codici medievali armeni, nonostante le massicce distruzioni, costituiscono un inestimabile patrimonio dell’umanità (e una delle più importanti raccolte del mondo sta in Italia, a Venezia, nell’isola di San Lazzaro degli Armeni, nella laguna di fronte a San Marco).

Della furia della tragedia che li spazzò via dalle loro terre ancestrali nella mia famiglia non si parlava quasi. Eravamo del tutto italianizzati: lingua, scuole, amici, usi e costumi. Sapevamo però di avere qualche cosa di originale e curioso, tutto nostro: erano gli armeni, e venivano da dovunque. Erano zii e zie, cugini e amici che ogni tanto capitavano a casa nostra, a Padova, da posti strani e lontani. Lo zio Michael veniva da Copacabana e aveva sposato un’assira, il che lo rendeva meno interessante agli occhi di zia Henriette, cugina di papà, la sopravvissuta che viveva proprio di fronte a noi. Lei non parlava mai della tragedia, eppure era seduta sulle ginocchia di sua madre Shushanig, la piccola Susanna, quando il padre venne decapitato e la sua testa le fu lanciata addosso: è la storia della Masseria delle allodole, ma io non l’ho imparata da lei. La zia ricordava la sua gente col cibo: veniva a cena da noi ogni sera portando yogurt, un vassoio di berek o un dolce, e la sua presenza riempiva la nostra casa di memorie oscure.

Zio Zareh invece arrivava da Aleppo quasi ogni anno. Si fermava da noi prima di andare a Parigi, meta di ogni suo sogno. Era vestito con un’eleganza molto vistosa, con camicie di seta e cravatte luccicanti, e papà cercava sempre di indurlo a una maggiore sobrietà, ma lui se ne infischiava, gli piaceva essere notato. Sua moglie Alis preferiva non viaggiare, la sua meravigliosa città le stava addosso come un guanto: «Che bisogno c’è di viaggiare, quando si possiede Aleppo?», usava dire, e io oggi ogni giorno ci penso, a com’è ridotta la dolce città dal suk oscuro coi suoi meravigliosi incanti e con la Cittadella romantica, coi giardini fioriti, le rose a cascata lungo le vecchie mura e i suoi amabili abitanti. Tutto è distrutto, Aleppo è un cumulo di rovine, eppure è là che i pochi superstiti del “Grande Male”, del genocidio, nel 1915 trovarono scampo e rifugio, come i quattro bambini della nostra famiglia.

Il silenzio che ha circondato la loro tragedia per tanti anni ha esacerbato la piaga rovente del cuore degli armeni. Certo, non ti consola di una perdita il fatto che qualcuno sappia, e ti compianga; ma aver perso tutto, aver visto distruggere il proprio paese e uccisi i propri familiari, per poi sopravvivere a stento in un paese straniero, ed essere in più gravati della superficiale, distratta ignoranza del mondo, questo può infettare la ferita, renderla quasi immedicabile.

Una maledizione da cancellare

Ci sono poi altre strane conseguenze. Non in Italia, dove la comunità di origine armena è estremamente esigua (poco più di duemila persone!), e quindi tutta proiettata verso il mondo italiano, ma in nazioni come la Francia o gli Stati Uniti, forti di comunità, rispettivamente, di circa 600 mila e un milione e mezzo di persone, negli anni si è sviluppata una certa tendenza alla chiusura, allo “stare fra noi”, che porta a una qualche diffidenza verso l’esterno, verso gli odar (stranieri), che non capiscono, non sanno, non hanno nel loro passato le impronte di un genocidio.


Da questo volle proteggerci nonno Yerwant, il patriarca a cui nessuno disobbediva. Dopo la tragedia in cui fu decimata la sua famiglia, laggiù nella Piccola Città, lui soffrì per essere sopravvissuto, e volle evitare ai suoi figli il trauma di appartenere al “popolo maledetto”. Tagliò il cognome, da “Arslanian” in “Arslan”, per italianizzarlo, tradusse i nomi dei figli, che conservarono il nome armeno solo in famiglia, si immerse nella vita italiana, si iscrisse al Partito popolare di don Sturzo, fu perfino – prima dell’avvento del fascismo – nel Consiglio comunale di Padova. Amico dei gesuiti dell’Antonianum, ancora oggi nel palazzo un busto e una lapide lo ricordano come benefattore.

Eppure è a lui che io devo la riscoperta della mia eredità armena. Dopo una malattia in cui mi salvò la vita (era un medico eccezionale), ormai molto anziano, in una lontana estate mi raccontò la sua storia. Fu lui che mi parlò della sua mamma Iskuhi, morta a 19 anni di parto, della sua infanzia felice nelle terre dorate, della sua decisione di venire in Italia a 13 anni, al Collegio Armeno Moorat-Raphael di Venezia. E poi delle stragi, di suo fratello il farmacista mite e fantasticante, decapitato con fredda efficienza, della deportazione, delle sorelline morte di fame: e io tenni queste cose nel mio cuore per molti anni, finché non riuscii a scriverle.
La foto in alto è tratta da “Armin T. Wegner e gli Armeni in Anatolia, 1915″, edito da Guerini (Armin T. Wegner, Archivio di Marbach, per gentile concessione di Mischa Wegner)



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Sotto, video su Antonia Arslan e sul massacro degli Armeni:




























 








Chi ci salverà dai demagoghi ?

Siccome questo è il governo del “cambiamento”, nel secondo week-end d’aprile il governo Renzi ha pensato bene di “cambiare” in materia di “pesce d’aprile”. Come è noto la tradizione vuole che lo si celebri al principiare del mese. Quest’anno, per la prima volta nella storia, invece che un giorno il “pesce” s’è preso tutto il mese e ancora sta sguazzando nelle pieghe della comunicazione. Infatti, cosa vorrà significare il Corriere della Sera, col suo titolo messo in pagina la vigilia del 25 aprile? «Le manovre sul bilancio dello Stato e il governo scongela il “tesoretto”». Mi pare che in lingua italiana si possa tradurre così, o per lo meno un lettore capisce così: stiamo lavorando sul bilancio dello Stato, tranquilli, il governo “scongela”, cioè è pronto per cuocere e servire sul piatto dei cittadini i famosi 1,6 miliardi di “tesoretto”.
Questa storia del “tesoretto” è stata messa in circolo da Renzi a cominciare, appunto, dal secondo weekend del mese. Tutti i giornali ci hanno fatto le prime pagine. Tutti i filogovernativi ci hanno visto il buon governo di questo sveltone di Matteo, tutti quelli dell’opposizione ci hanno visto l’ennesimo fumo. Per dire. Repubblica per tre giorni consecutivi ha titolato in prima pagina così: «Via libera al Def “C’è un tesoretto da 1,6 miliardi”» (sabato 11). Poi il giorno 12 ha saltato il titolo in prima (c’era da celebrare la storica stretta di mano tra Obama e Raul Castro) però poi a pagina 7 la notizia è celebrata col titolone «Da maggio un bonus tra i 20 e i 50 euro. Nel 2015 giù le tasse. Il tesoretto da 1,6 miliardi favorirà gli “incapienti”». Infine (lunedì 13 aprile) Rep ribadisce nella titolazione di prima pagina che il tesoretto c’è e «Il bonus sarà per 7 milioni di italiani».
La notizia è andata poi affievolendosi. Si è incartata nelle discussioni degli esperti e nella ridente perplessità di articoletti leggeri.
Tempi, però, già nella settimana in cui la grande informazione si gingillava euforia e sospetto, scriveva senza tema di smentita: «Non “abbiamo una banca” ma – dice il compagno Matteo Renzi – abbiamo un “tesoretto” da 1,6 miliardi. Sono risparmi di un buon padre di famiglia che ha tirato la cinghia (spending review) e messo da parte un gruzzolo per l’istruzione dei figli (disoccupati) piuttosto che per la nuova moglie (divorzio breve) o la nuova automobile (consumi)? Insomma, sono soldi freschi come pare di capire leggendo i giornali? Dove starebbe il giochino? Beh, basta alzare l’asticella del deficit 2015 (rapporto debito/Pil). Fai i conti e capisci che ogni 0,1 per cento in più vale 1,6 miliardi. Già. Finanzi la spesa pubblica in disavanzo ed emetti titoli di Stato (cioè seguiti a indebitarti)». Eravamo in edicola con questa non notizia del “tesoretto” da prestigiatori fin da giovedì 16 aprile.

Oggi, Corriere della Sera di venerdì 24 aprile, a pagina 13, sotto un titolo che, come da citazione sopra, sembra nascondere invece che pungere e far scoppiare la bolla del “tesoretto”, leggiamo: «Non c’è niente di più politico di un artificio tecnico. E quello trovato ieri per consentire al governo di usare il “tesoretto” da 1,6 miliardi, prima di quando potrebbe farlo, appare tale. Il “tesoretto“ altro non è che la differenza tra l’obiettivo programmatico del rapporto deficit-Pil al 2,6% e quello tendenziale, che è stimato nel 2015 al 2,5%». Appunto uno 0,1% di deficit gonfiato. Ci vuole un genio a definire “tesoretto” 1,6 miliardi di deficit in più. Però il governo dice che è così e anche se un po’ nascondendo la notizia, dieci giorni dopo Tempi il Corrierone ammette “l’artificio”. C’è motivo per criticare il prestigiatore e denunciare la superballa? Figurati. «Il governo lo scongela» e «Non c’è niente di più politico di un artificio tecnico». Insomma. Dalla notizia dei soldi freschi agli “incapienti”. All’artificio tecnico scongelato come sopraffina pietanza politica per gli allocchi.

Luigi Amicone, Non era un tesoretto. Era un pesce d'aprile, "Tempi", 24-04-15, 

Che cosa sai del 25 aprile ?

Metti alla prova la tua conoscenza su questa data  (icona dell'Italia contemporanea) con il test del "Sole-24 ore".

Sotto, video che confermano per l'ennesima volta la spaventosa ignoranza storica di parecchi giovani.e una serie di filmati sulla Resistenza, sulla Liberazione e, più in generale, sui valori democratici  (quegli stessi valori verso cui, oggi, troppi giovani mostrano indifferenza e addirittura fastidio).

























sabato 18 aprile 2015

Gli studenti americani non vogliono sostenere l'esame English Language Arts.

Come un maremoto il movimento anti-esame ieri si e' propagato da Buffalo a Brooklyn con circa 300 mila studenti che hanno boicottato l'esame obbligatorio statale standardizzato English Language Arts, mostrando un enorme incremento rispetto al migliaio che s'era rifiutato lo scorso anno.
Difficile quantificare esattamente quanti studenti abbiano disertato l'esame perche' i risultati definitivi si avranno soltanto tra qualche giorno, ma da Boerum Hill a Brooklyn al confine col Canada i dirigenti scolastici hanno confermato la decisione di decine di migliaia di studenti di boicottare l'esame.
Secondo fonti scolastiche alla Public School 261 a Brooklyn almeno il 66 per cento degli studenti, o 817 si sono rifiutati di sottoporsi all'esame, il primo che viene sottoposto ai ragazzi dal terzo all'ottavo grado di scuola questa settimana.
La maggioranza dei genitori concorda con i figli e anche gli insegnanti: questo test fa soltanto perdere tempo agli studenti nell'apprendimento e non determina il grado di apprendimento dei ragazzi e il livello di performance degli insegnanti.
Gli insegnanti da parte loro sono forzati a sottoporre gli studenti all'esame per mantenere il proprio impiego, anche se sono convinti pure loro che il gioco non vale la candela per conoscere veramente il loro grado di apprendimento, almeno con l'attuale esame standard.
La portavoce del Department of Education Devora Kaye ha confermato che occorreranno alcuni giorni per avere i numeri del boicottaggio, "lo sapremo quando si concludera' la serie di esami" ha detto.
Il test interessa qualcosa come 1.1 milioni di studenti dello Stato Impero e l'esame di matematica dovrebbe essere sottoposto la prossima settimana.
Chris Cerrone del gruppo United Opt Out che ha organizzato la protesta ha detto di non poter ancora quantificare il numero, ma ha sottolineato che l'esame e' stato boicottato in un gran numero nelle scuole pubbliche.
Anche l'executive repubblicano della Westchester County Rob Astorino e' tra i genitori che hanno deciso di non far effettuare l'esame ai propri due figli ed ha prospettato che almeno 100 mila genitori abbiano seguito il suo esempio nella contea.
Anche salendo lungo la Lower Hudson Valley il fenomeno maremoto si e' fatto sentire con un buon quarto degli studenti che non si sono presentati all'appuntamento dell'esame e nei dintorni di Buffalo la situazione e' descritta dalla quantita' di rifiuti.
Nel distretto scolastico di West Seneca che comprende 5 scuole elementari - ad esempio - e' stato riferito che su 2.976 scolari, 2.074, o il 70 per cento ha rifiutato l'esame, mentre l'anno scorso lo stesso distretto aveva registrato solo un 30 per cento di anti-esame.
Il governatore Andrew Cuomo ha sempre sostenuto caldamente il cosiddetto "standardized exam", ma ieri alla luce del clamoroso insuccesso, dal suo ufficio non e' giunto alcun commento.
L'unica localita' che sembra non sia stata influenzata dal sentimento anti-esame sembra sia Staten Island, dove la convinzione comune dei genitori e' che boicottare l'esame significa svalutare il lavoro degli insegnanti durante l'anno scolastico.
Non sono previste penalita' per gli studenti che hanno saltato l'esame di martedi', ma il gran numero di assenze dovrebbe inviare un distinto segnale ai legislatori che lo hanno voluto, d'accordo con Cuomo per riuscire a valutare il lavoro degli insegnanti e cacciare quelli che non producono istruzione.
Significativa la differenza da un anno all'altro, infatti il numero dei ragazzi che l'anno scorso hanno boicottato l'esame era nell'ordine di 1.925 in tutto, vale a dire l'uno per cento del corpo studenti dal terzo all'ottavo grado e attualmente è del 30 per cento.

Riccardo Chioni, Circa 300 mila studenti boicottano l'esame English Language Arts, "America Oggi", 16-04-15. 

mercoledì 15 aprile 2015

Chi ha paura degli Armeni ?

Esattamente un secolo fa, nel 1915, cominciavano nell’impero ottomano i massacri e le deportazioni della popolazione armena, che in tre anni avrebbero provocato 1,3 milioni di vittime, secondo gli armeni, ma anche secondo la generalità degli storici, tra 250.000 e 500.000 secondo le autorità turche. Il Papa lo ha definito oggi il primo genocidio moderno. 

Nella capitale dell’Armenia, Erevan, e in altri Paesi il genocidio viene ricordato ogni anno il 24 aprile, anniversario dell’arresto di migliaia di leader della comunità sospettati di sentimenti ostili nei confronti del governo di Costantinopoli, dominato dal partito ultranazionalista dei Giovani Turchi, che volevano creare uno stato nazionale turco. 

Indeboliti dalla sconfitta nella guerra dei Balcani, nel febbraio 1914 gli ottomani, su pressione dei paesi occidentali, si impegnarono ad avviare riforme per tutelare le minoranze etniche e religiose. Ma, nell’ottobre dello stesso anno, entrarono nella prima guerra mondiale, a fianco della Germania e dell’impero austro-ungarico. Poche settimane dopo gli arresti di massa dei leader armeni, nel maggio 1915 una legge speciale autorizzò le deportazioni «per motivi di sicurezza interna» di tutti i «gruppi sospetti». La popolazione armena di Anatolia e di Cilicia, additata come «il nemico interno», fu deportata verso i deserti della Mesopotamia. Durante l’esodo forzato molti morirono di stenti e malattie o furono uccisi da guerrieri curdi al servizio degli ottomani. Altri morirono nei campi dove furono confinati. Altri riuscirono a fuggire in Occidente. L’operazione di “pulizia etnica” aveva un doppio obiettivo: occupare le terre appartenenti agli armeni, situate tra la Turchia e il Caucaso, e togliere alla minoranza cristiana qualsiasi illusione su eventuali riforme. Nel 1920, dopo la dura sconfitta nella prima guerra mondiale, l’impero ottomano fu smantellato. Nel maggio 1918 era stato istituito uno Stato armeno, inglobato nell’Unione sovietica. 

La Turchia non riconosce il termine di «genocidio», ma ammette che furono commessi massacri e che molti armeni persero la vita durante le deportazioni. Secondo Ankara si trattò di repressione contro una popolazione che collaborava con la Russia zarista durante la prima guerra mondiale. Il genocidio armeno fu riconosciuto, nel 1985, dalla sottocommissione dei diritti umani dell’Onu, e nel 1987 dal Parlamento europeo. I Paesi che riconoscono il genocidio sono 20, tra cui l’Italia, dopo una risoluzione votata dalla Camera nel novembre 2000. Il medesimo passo è stato fatto nel 2001 dalla Francia, dove vive la comunità armena più numerosa (350.000 persone). E poi anche, oltre all’Armenia, Russia, Svizzera, Finlandia, Svezia, Slovacchia, Grecia, Paesi Bassi, Polonia, Lituania, Cipro, Canada, Venezuela, Argentina, Cile, Uruguay, Vaticano, Libano. Oggi nel mondo vivono 8 milioni e mezzo di armeni, soprattutto in Russia, Stati Uniti, Canada, Medio Oriente e Francia. 

L’anno scorso, alla vigilia del 99mo anniversario del genocidio, il presidente turco (allora premier) Recep Tayyip Erdogan aveva fatto le condoglianze ai nipoti di coloro erano stati sterminati. Una mossa interpretata da alcuni analisti come un tentativo di evitare la forte condanna della comunità internazionale per la linea negazionista di Ankara. Condoglianze tuttavia accolte con freddezza dalla comunità armena, tanto che il presidente Serzh Sarksyan, nel messaggio commemorativo del genocidio, non aveva fatto nemmeno un accenno alle parole di Erdogan. Charles Aznavour, artista simbolo della diaspora armena, aveva parlato di un gesto insufficiente 

mercoledì 8 aprile 2015

Garanzia giovani. Ennesimo flop ?

La notizia sembra davvero positiva, e l’ha comunicata venerdì il ministero del Lavoro: dopo tanti mesi di delusioni, finalmente il programma Garanzia Giovani comincia a carburare, con 491.806 giovani registrati, 244.425 presi in carico, e 65.758 cui è stato proposto un lavoro, uno stage, o una attività di formazione. «Un aumento - si legge - del 75,8% sull’ultimo mese». Sembrerebbe una cosa buona. Sembrerebbe: perché a ben vedere i numeri, in realtà, «Garanzia Giovani» si candida a conquistare il trofeo del peggiore flop degli ultimi anni. E insieme, manifesta la curiosa propensione del ministero guidato da Giuliano Poletti ad “abbellire” i numeri quando le cose non vanno. 
«Garanzia Giovani» è un programma europeo rivolto ai ragazzi che non studiano né lavorano - i cosiddetti «Neet» - tra i 15 e i 29 anni, nei Paesi con disoccupazione giovanile oltre il 25%. Da noi la disoccupazione giovanile è al 40% circa, e i «Neet» fino a 29 anni sono 2,2 milioni: quelli coinvolti potenzialmente dal programma - così scrisse il governo all’avvio, nell’aprile del 2014 - sono 1,7 milioni. Bruxelles su quest’operazione ha investito 6 miliardi di euro, di cui ben 1,5 sono andati all’Italia, da spendere per coloro che si registravano al programma su di un portale. Sulla carta, il giovane registrato sarebbe stato convocato dagli uffici dell’impiego, e poi avrebbe dovuto iniziare un’esperienza lavorativa retribuita. Oppure un tirocinio o uno stage fino a sei mesi, pagato 4- 500 euro al mese. Una bella esperienza per uscire dalla stasi e (chissà) andare verso un lavoro «vero». 

Iscritto un ragazzo su tre  
Il programma è cominciato nel maggio del 2014. Ha avuto una partenza disastrosa, una fase intermedia catastrofica, e adesso arrivato a 11 mesi di vita continua a essere un clamoroso flop. Uno, perché i giovani non si sono iscritti: sulla platea potenziale, si è registrato solo il 28,5%. Due, in ben 11 mesi solo la metà degli iscritti sono stati contattati per un primo colloquio dagli uffici pubblici (il 14,1% del totale potenziale). Tre, sono riusciti ad avere un’occasione di lavoro o tirocinio in pochi: solo il 3,8% dei 1,7 milioni potenziali. Appunto, 65mila su milioni di «sfiduciati» o senza impiego. Al ministero del Lavoro tutto questo è noto: fino a gennaio nei rapporti settimanali gli uffici di Poletti registravano appunto 1,7 milioni di Neet come «bacino potenziale». Ma nell’era della «narrazione» renziana, i fallimenti non sono ammessi. E allora a partire da febbraio il ministero di Poletti ha pensato bene di modificare drasticamente il «bacino potenziale». Da 1,7 milioni li ha ridotti a soli 560mila, ovvero «i giovani che potranno essere raggiunti sulla base delle risorse disponibili e della spesa massima assegnata a ciascuna misura disponibile». Chiaramente, i dati appaiono più «belli» e adeguati allo stile comunicativo del governo.  

I nodi da sciogliere  
Il flop di Garanzia Giovani ha tanti padri, comunque. Si va dalla conclamata inefficienza del sistema pubblico dei servizi all’impiego alla frammentazione delle Regioni, che ha reso caotiche le regole. Le imprese si sono disinteressate. Poi ci sono i vizi della politica: in Campania il governatore Caldoro ha varato 2.500 tirocini negli uffici pubblici pagati 500 euro al mese. Sei mesi, fino alle elezioni, e poi a casa. Infine, c’è la disastrosa burocrazia pubblica: tanti giovani dopo tre-quattro mesi di lavoro o stage non hanno ancora visto un centesimo.  

Roberto Giovannini, 

La Garanzia Giovani fa flop. Pochi tirocini per gli iscritti, "La Stampa", 5-04-15.