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lunedì 29 giugno 2015

Scioglimento dei comuni: un triste primato dell'Italia.

Se Roma non ride, molti Comuni se la passano anche peggio. Sono,infatti, centinaia i municipi che ogni anno devono dire addio alle giunte e consigli perché costretti a una fine prematura delle legislature. Venti di polemiche simili a a quelli che sferzano il Campidoglio quest’anno hanno già colpito 74 amministrazioni, 69 sciolte in via ordinaria e 5 per infiltrazioni mafiose. Se si prendono in considerazione gli ultimi 26 anni - a partire dal 1990 quando vennero introdotte le norme che permettono di mandare a casa amministratori inefficienti o peggio ancora in odor di mafia; norme ora confluite nel testo unico degli enti locali, il decreto legislativo 267/2000 - si registra una media di 175 enti all’anno commissariati, uno ogni due giorni.  

Il numero di gran lunga più elevato riguarda i Comuni sciolti in via ordinaria. Si tratta di oltre 4mila municipi che, a partire dal 1990, hanno interrotto l’attività per vari motivi, così come prevede l’articolo 141 del testo unico degli enti locali (Tuoel). Si va dalle dimissioni dei consiglieri - situazione che si è verificata 2.400 volte; quest’anno a inizio giugno erano 34 gli enti in tali condizioni - alle dimissioni del sindaco, circostanza che in 26 anni si è ripetuta 666 volte (15 nell’ultimo semestre). Questo per limitarsi ai motivi di scioglimento più ricorrenti, ai quali bisogna aggiungere le violazioni di legge da parte degli amministratori, i gravi motivi di ordine pubblico, la mancata presentazione o approvazione del bilancio, il voto di sfiducia nei confronti del primo cittadino o impedimento vari che lo colpiscono  (decadenza o decesso), la rimozione di giunta e consiglio. Il picco degli scioglimenti per tali motivi si è verificato negli anni 1993 e ’94 - il periodo di Mani pulite - quando si arrivò agli oltre 300 casi (quasi 400 nel ’93) di amministrazioni mandate a casa prima del tempo. 

A riprova che in quel periodo la mala-politica era finita sul banco degli imputati, c’è il fatto che il 1993 è stato anche l’anno record dei Comuni sciolti per mafia o comunque per infiltrazioni della criminalità organizzata (situazione disciplinata dall’articolo 143 del Tuoel): furono 34, di cui 18 in Campania e 9 in Puglia. Per ritrovare la doppia cifra si deve andare a ritroso - nel 1991 e ’92 i municipi sciolti per mafia furono 21 - o risalire ai giorni nostri: nel 2012, dopo anni in cui gli scioglimenti spesso neanche raggiungevano la decina, si è arrivati al commissariamento di 24 enti. In questo lungo itinerario del malaffare, Casal di Principe - il municipio in provincia di Caserta, terra di Francesco Schiavone detto Sandokan, boss dei casalesi - ha il poco invidiabile primato di presenza: era stato sciolto una prima volta nel 1991 ed era nella lista nera anche nel 2012. Nel mezzo, diversi altri episodi di scioglimento.  
Cosa accade quando un Comune o una Provincia (la normativa riguarda anche questi enti) vengono messi in mora? Il decreto del Presidente della Repubblica con cui viene disposto lo scioglimento - procedura che inizia con un atto del prefetto e, nel caso delle infiltrazioni mafiose, prevede un percorso più complesso che chiama in causa una commissione nominata dal ministro dell’Interno per verificare la gravità della situazione e il Consiglio dei ministri che deve deliberare - nomina contestualmente un commissario straordinario. Fa eccezione il caso di scioglimento per impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso del sindaco, circostanze in cui il potere passa al vicesindaco e non viene designato alcun commissario. Quando l’ente viene sciolto per mafia, si nomina una commissione straordinaria di tre componenti scelti tra tra funzionari statali e magistrati in pensione, a cui sono demandati i poteri del sindaco, della giunta e del consiglio. La commissione straordinaria resta in carica da 12 a 18 mesi, prorogabili fino a due anni. L’obiettivo è sempre quello di rimettere in sesto la situazione e permettere al Comune commissariato di scegliersi nuovi amministratori. Per gli enti sciolti in via ordinaria si tratta di un passaggio veloce: devono andare al voto alla prima tornata elettorale utile. Per quelli sottoposti al ricatto dei boss, il ritorno alla normalità è, invece, più lungo e talvolta può durare anni.  

Antonello Cherchi, Comuni, uno scioglimento ogni due giorni, "Il Sole 24ore", 29-06-15.

'Buona scuola' o solo demagogia ?

Per il senatore Mario Mauro (Gal – Grandi autonomie e libertà), la Buona scuola «È un provvedimento “civetta”, fatto per attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema del rilancio dell’istruzione ed educazione, ma in realtà è il classico provvedimento tampone, usato dal governo come “un’arma di distrazione di massa” tanto della scuola che dell’educazione. Un’arma che al suo interno nasconde degli specchietti per le allodole. Uno di questi è il comma 16 del testo e il riferimento alla teoria del gender». Mauro vede un’atteggiamento troppo prono da parte dei colleghi deputati e senatori di Ncd-Area popolare: «Il premier Renzi sta portando avanti delle idee, tanto sul gender che sulle unioni civili, che aveva sin dai tempi della Leopolda. Si abbia il coraggio di dire a Renzi che, dato che i voti di Ncd sono decisivi, se il suo governo insiste nel voto su questi temi, lo si farà cadere, anziché infilarsi in una serie di distinguo. Sarebbe opportuno un atteggiamento più virile da parte di un partito che dice di richiamarsi alle idee e valori di centrodestra».

Senatore, cominciamo dalla Buona scuola. Perché ha un giudizio così negativo?
Perché è un provvedimento “civetta”, fatto per attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema del rilancio dell’educazione, ma in realtà usato come classico provvedimento tampone. È maturato dopo la decisione della Corte di giustizia europea sugli insegnanti precari, che ha censurato il comportamento del governo italiano e imposto la stabilizzazione dei docenti precari da più di tre anni. Per anni il Governo ha ingannato generazioni di insegnanti, posticipando sempre la loro messa in regola e perpetrando l’ammontarsi di una massa di lavoratori precari, sapendo che la giurisprudenza lo impediva e che non poteva nemmeno assumerli, e adesso ha creato un’arma di distrazione di massa che si chiama Buona scuola.


Perché la reputa “un’arma di distrazione di massa”?
Ci troviamo di fronte ad assunzioni di precari fatte male: Matteo Renzi ha stracciato i diritti di tante persone che avevano avuto la speranza di diventare un giorno un insegnante, e avevano investito tempo e denaro per la frequenza di Siss e Tfa, e che adesso vengono lasciate per strada. Dentro la “Buona scuola” ci sono anche degli specchietti per le allodole.


Ad esempio?
Uno è il bonus per chi iscrive i figli alle paritarie. Non lo critico tanto per l’importo davvero esiguo, meno del bonus di 80 euro. Lo reputo uno specchietto perché nelle pieghe della Buona scuola si sancisce l’impossibilità per le scuole non statali di scegliere il proprio personale, e le si costringe a reclutare il personale esclusivamente tra i precari generati da concorsi e concorsoni. A questo aspetto, tra i punti dolenti della Buona scuola, ce n’è un altro, ancora uno specchietto per allodole, su cui aggiungere una riflessione, quello del gender.


Lei si riferisce all’articolo in cui si dice che il Piano triennale dell’offerta formativa assicurerà «l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni». Per gli esponenti di Ncd, però, è un falso allarme perché il termine “gender” non appare mai.
È molto grave fare quello che ha fatto un partito di governo come Ncd. Prima ha inscenato una manfrina per chiedere una modifica del testo, a votazione già conclusa. Ora si lancia nei distinguo e nega che si parli di gender, ammettendo solo “ambiguità”. Significa che Ncd specula sulle migliaia di persone che non hanno lesinato applausi per i suoi politici, che promettevano in piazza San Giovanni un impegno a difesa della famiglia e contro qualsiasi imposizione del pensiero unico sul gender.


I parlamentari di Ncd però insistono nel far notare che nel testo si parla di «genere» e che «non c’è alcuna legittimazione del gender». Cosa risponde?
Tutto chiacchiere e distintivo questo ragionamento. Il passaggio dell’articolo 16 non è ambiguo, è chiarissimo perché fa riferimento ad un’altra legge che non solo il gender lo nomina, ma stabilisce la competenza dell’Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) non solo su attività extracurriculari ma anche sul curriculum scolastico. Ciò in sostanza signica che se l’Unar ritenesse discriminante nei confronti dei matrimoni omosessuali, ad esempio, alcuni passaggi de I promessi sposi o della Divina commedia, potrebbe censurarli. Se non abbiamo capito questo significa che non capiamo cosa significa lotta alla discriminazione. Il fatto che in queste ore il social network Facebook abbia chiuso il profilo di Costanza Miriano, una scrittrice, la dice lunga sul clima di discriminazione reale.


Il profilo di Miriano è tornato subito attivo ieri.
Attenzione, ma facebook l’ha chiuso. Non sono un patito del dibattito sul gender, ma nascondere la realtà in nome del politicamente corretto è uno degli atteggiamenti più lesionisti che si possono avere. Questi atteggiamenti raccontano un’enorme fragilità dell’identità europea e occidentale e avrebbero bisogno di una discussione molto seria su cosa voglia dire effettivamente discriminazione e diritti. Ci sono diritti legati al contesto di una democrazia che hanno bisogno di essere chiariti.


Tipo la libertà d’espressione?
Sì, la libertà d’espressione non mi pare un fatto trascurabile. Ma mi riferisco anche al diritto della libertà religiosa. Siamo di fronte ad un momento molto particolare. Ieri in Turchia è avvenuta la repressione di una manifestazione omossessuale, con persone che erano scese pacificamente in piazza e che sono stati dispersi con cariche di polizia, idranti e pallottole di gomma. Eppure non ho sentito nessuno dei politici italiani, tanto meno quelli che criticavano Piazza San Giovanni qualche giorno fa, esprimere una pur blanda reprimenda al governo Erdogan. Proprio come era avvenuto poco tempo fa, in occasione del centenario del genocidio armeno, dopo che Erdogan aveva fatto affermazioni negazioniste molto gravi. Nessuno, tra i nostri difensori dei diritti civili, difende adesso i diritti civili di Istanbul, forse perché l’opportunismo politico e gli interessi economici vietano di esprimere la più semplice solidarietà con chi protesta contro un governo repressivo, con cui si hanno rapporti commerciali. Tutto ciò ci rivela che sul tema dei diritti civili c’è una riflessione seria da fare in Italia. Mi spiace sia stato preso in ostaggio un provvedimento che parlava di scuola per fare una mera operazione ideologica.


Anche il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, in una lettera, nega questa operazione ideologica, e sottolinea: «La teoria gender è una cosa, la lotta alle discriminazioni, anche di genere, un’altra. Non ci può essere equivoco. Mentre sulla lotta alle discriminazioni non si discute, per la teoria gender se i genitori vogliono (e solo in questo caso) sarà loro compito e cura insegnarla».
La distinzione tra teoria gender e lotta alla discriminazione è quella che ho appena fatto. Io e Toccafondi la pensiamo dunque alla stessa maniera. Il problema riguarda il Governo: che esecutivo è questo? Il governo del 2013 è nato dicendo che l’Italia aveva bisogno di una grande coalizione nell’interesse del Paese. E grande coalizione lo è stata sino all’uscita di Forza Italia. Dopo, tutto ciò che c’è stato è solo un governo del Pd a trazione renziana. Ovvero un governo che aveva in mente dei contenuti, tra cui quello dei gender e delle unioni civili, sin dai tempi della Leopolda. C’è dunque un governo del Pd in cui gli altri attori recitano il ruolo del cagnolino? Nulla di scandaloso, ma lo si dica. Oppure, si abbia il coraggio di dire, se non si è d’accordo sulle unioni civili e la teoria del gender, che non si può stare dentro questo governo. Si abbia il coraggio di dire a Renzi che, dato che i voti di Ncd sono decisivi, se il suo governo insiste nel voto su questi temi, lo si farà cadere, anziché infilarsi in una serie di distinguo. Sarebbe stato opportuno un atteggiamento più virile su questi temi da parte di un partito che si richiama anche nel nome alle idee di centrodestra.



mercoledì 24 giugno 2015

Riga, città bilingue.

Riga è la capitale della Lettonia, ma quando passeggiate in centro, o soprattutto vi trovate in quartieri come Daugavgrīva, Bolderāja o Pļavnieki, è più facile che sentiate intorno a voi parlare russo che lettone.
Secondo i dati dell’Agenzia centrale di Statistica della Lettonia (Centrālās statistikas pārvalde), il 50% dei cittadini di Riga parla abitualmente il russo, mentre solo il 43% usa come lingua quotidiana il lettone.
La percentuale di russofoni aumenta in particolare in alcuni quartieri periferici della città, in cui il russo diventa davvero preponderante: a Daugavgrīva il 75%, a Bolderāja e Pļavnieki il 66%. Sempre a Daugavgrīva  solo il 16% degli abitanti del quartiere parla in lettone, mentre a Bolderāja si arriva al 24%. Sono questi i quartieri meno popolati da cittadini di lingua lettone a Riga.
Il quartiere di Riga dove si parla di più il lettone, l’83% dei suoi abitanti, è Bieriņi, all’estrema periferia sud occidentale della città, insieme a Buļļi, a nord ovest.
In Lettonia circa il 37% della popolazione complessiva su 2 milioni di abitanti, è russofona, mentre il 62% dei cittadini parla lettone.

La percentuale maggiore di russofoni è presente proprio a Riga, oltre che nella regione del Latgale, nella zona sud orientale del paese.

Sempre secondo i dati della CSP a Daugavpils, in Latgale, il 79% degli abitanti parla russo, mentre solo il 10% parla abitualmente il lettone. Nell’altra città principale del Latgale, a Rēzekne, la percentuale di russofoni si abbassa fino al 57%, con il 38% che parla lettone.
Differente invece la situazione in altre regioni della Lettonia, come Vidzeme, Kurzeme e Zemgale.

A Valmiera in Vidzeme l’86% degli abitanti parla prevalentemente il lettone, e solo il 12% abitualmente il russo.
In Kurzeme, nelle due città principali Ventspils e Liepāja, la percentuale di abitanti che usa abitualmente il lettone è intorno al 56%, i russofoni sono il 38%.
Percentuali simili a quelle che si registrano a Jelgava, la principale città dello Zemgale.

L’Agenzia di Statistica ha anche pubblicato i dati relativi alla densità abitativa di Riga e delle altre principali città lettoni.

Nella capitale lettone la maggiore densità abitativa si trova nel quartiere di Pļavnieki con 14.992 abitanti per km. quadrato, seguita da Purvciems con 11.814 abitanti.
La densità minore è a Spilve, un’area di Riga praticamente disabitata, con 9 abitanti per km. quadrato, e Kleisti con 12 abitanti.
La densità abitativa complessiva in Lettonia è di 32 abitanti per km. quadrato.

Il Medioevo ? A vedove e orfani offriva maggiori tutele.

Pubblichiamo il comunicato del Forum delle associazioni familiari – Oggi si celebra la V Giornata internazionale delle persone vedove istituita dall’Onu nel 2011. Nel mondo ci sono 245 milioni di vedove, e tra esse 115 milioni sopravvivono in condizioni di estrema povertà. In Italia sono circa 5 milioni; le famiglie con capofamiglia vedovo/a sono circa 3,8 milioni, i nuclei familiari con figli sono circa 190mila, la cui metà comprende figli minori.
Un tempo le vedove e gli orfani venivano considerati le persone più deboli e di conseguenza anche le più protette dal comune sentire. Ora invece sono ancora le più deboli ma nel più completo disinteresse della società. Un’ingiustizia, indegna di una società civile (qui la storia raccontata da tempi.it di Monica Ventimiglia, ndr).

Ad esempio, la pensione di reversibilità o indiretta, se c’è, è ridotta al 60%, ma se il coniuge superstite lavora e possiede un reddito anche di soli a 25mila euro lordi, se la vedrà ulteriormente decurtata del 50%.
Per questo il Forum ha avanzato alcune proposte concrete, che costano poco ma che renderebbero la vita di queste persone meno sofferente. Si potrebbe, ad esempio, scorporare la pensione di reversibilità dal reddito complessivo, così da evitare che il cumulo faccia scattare lo scaglione Irpef e di conseguenza le tasse.
Altra iniziativa potrebbe evitare che la quota di pensione di reversibilità a favore dei figli entri nel calcolo dei redditi così da poter essere considerati a carico del coniuge superstite. In alternativa si potrebbe elevare il limite (€ 2840,51) fissato diversi decenni addietro per considerare un figlio a carico o non a carico. Una soglia mai più adeguata alle rilevazioni ISTAT.

Una terza proposta riguarda il cumulo dei contributi versati e non goduti dal coniuge venuto a mancare. Attualmente se un lavoratore non raggiunge il minimo previsto per il conseguimento della pensione i contributi versati non sono utilizzabili dal coniuge superstite, vanno dunque perduti. Sarebbe equo invece che quei contributi possano essere aggiunti ai contributi del superstite consentendogli di raggiungere una pensione leggermente superiore.
Piccole cose, fattibili da subito, con un impatto sul bilancio pubblico limitato, facilmente governabile, e soprattutto con una spesa pubblica che finalmente andrebbe utilizzata per situazioni di bisogno oggettive, chiarissime: la fatica di un genitore rimasto solo con figli a carico dopo la morte del proprio coniuge.

Piccole soluzioni che riporterebbero la nostra società almeno al Medioevo, che sembrerebbe poterci dare lezioni di civiltà, quando almeno sapeva riconoscere quali situazioni erano davvero fragili. Orfani e vedove, ieri come oggi, anzi, oggi più dimenticati.


sabato 20 giugno 2015

Il tragico destino dei tedeschi in Cecoslovacchia.

La marcia commemorativa (trentadue chilometri a piedi), o anche Pellegrinaggio della Riconciliazione, partita sabato trenta maggio dal sito di una fossa comune nella città di Pohorelice e conclusasi a Brno, è il primo evento ufficiale per ricordare la cosiddetta “marcia della morte” di Brno.
Al termine della guerra e quindi dell’occupazione nazista della Cecoslovacchia nel 1945 i circa 3 milioni di tedeschi etnici che avevano vissuto nel paese per secoli cominciarono ad essere considerati nemici del paese. Il trenta maggio di quell’anno le autorità brunensi costrinsero oltre ventimila persone – ne morirono forse quasi ottomila – di lingua tedesca a lasciare Brno a piedi verso l’Austria, un atto di vendetta in risposta alle atrocità naziste subite.
Secondo alcune testimonianze, raccolte per la prima volta grazie ad un lavoro corale di storici cechi e tedeschi nel libro Rozumět dějinám, molti morivano di stanchezza durante il percorso lungo ben cinquantasei chilometri; alcuni si ammalarono a causa delle epidemie che si diffusero nel campo di Pohorelice, campo a cui furono inviati dopo che fu loro negata anche la possibilità di entrare in Austria; altri furono picchiati a morte o uccisi dalle guardie armate. Sembra inoltre che a tale massacro abbia partecipato il comunista  Bedřich Pokorný, organizzatore tre mesi dopo di un secondo massacro di tedeschi nella cittadina di Usti Nad Labem.
Nonostante dalla pubblicazione di Rozumět dějinám siano passati quasi quindici anni è la prima volta che le autorità cittadine di Brno esprimono ufficialmente rammarico per l’espulsione e le morti dei tedeschi, istituendo il 2015 come anno di riconciliazione, in cui a detta del consiglio comunale la città avrà modo di affrontare la sua storia.
Gli sforzi di riconciliazione della città hanno ricevuto però critiche da alcuni ambienti. Una sezione di una organizzazione di antinazisti combattenti attiva durante la seconda guerra mondiale ha infatti affermato che la marcia della morte del ’45 messa a confronto con le ingiustizie subite dal popolo ceco sotto l’occupazione nazista non sia da considerarsi così grave, motivo per cui il gruppo si dissocia dalle scuse della città ai tedeschi.
Marzia Romano, Rep. Ceca: Settanta anni dopo il ricordo dei tedeschi di Brno, "East Journal", 18-06-15.

giovedì 18 giugno 2015

Giugno 1941: la deportazione dei cittadini baltici in Siberia.

 La partenza dei deportati lettoni per la Siberia.
La notte del 14 giugno 1941 resta una delle notti più terribili della storia dei paesi baltici. Migliaia di cittadini lettoni, lituani ed estoni furono deportati in Siberia dal regime sovietico, che occupava i baltici, alla vigilia dell’arrivo delle truppe naziste, che si apprestavano a loro volta ad invadere i baltici.
Furono 15.424 i lettoni che la notte del 14 giugno 1941 durante i rastrellamenti casa per casa degli agenti della polizia segreta sovietica furono caricati a forza e stipati in vagoni bestiame per iniziare il lungo viaggio verso la deportazione in Siberia.

Di questi 15.424, 11.418 erano lettoni, 1.771 ebrei, 742 russi, 36 tedeschi e di altre nazionalità, altri 247 furono espulsi. Nei carri bestiame si trovavano famiglie intere, di ogni estrazione sociale: 1.345 contadini, 616 commercianti, 306 poliziotti, 29 guardie carcerarie, 166 ufficiali dell’esercito, 7 deputati, 6 diplomatici, 31 giudici 71 insegnanti, 24 medici, 7 sacerdoti, 15 studenti, 39 guardi forestali,73 funzionari locali.

Ebbero pochi minuti per raccogliere poche cose da portarsi dietro, e poi furono portati nelle stazioni di Riga e di altre città lettoni per essere stivati nei carri bestiame. A Riga i treni partirono dalle stazioni di Šķirotava e soprattutto Torņakalns, dove furono caricati quella notte oltre novemila persone sui treni merce. Ancora oggi un vagone usato per le deportazioni si trova alla stazione di Torņakalns in Pārdaugava, in memoria di quel tragico evento.

Dalla Lituania furono deportate quel giorno 16 mila persone, 9000 dall’Estonia. Oltre ai paesi baltici, la triste sorte delle deportazioni toccò in quei giorni anche altri paesi come la Bielorussia e l’Ucraina.
Un terzo dei deportati morì durante il lungo e tormentoso viaggio, o poco dopo essere giunto nel luogo di destinazione in Siberia.
Appena una settimana dopo la tragica notte del 14 giugno le forze sovietiche fuggivano dai baltici, sotto l’attacco sferrato dalla Germania nazista con l’operazione Barbarossa. Il 22 giugno del 1941 gli aerei tedeschi bombardavano Ventspils e Liepāja, le due principali città lettoni sulla costa occidentale del mar baltico.
Il 1° luglio le truppe tedesche entravano a Riga, e dieci giorni dopo l’intero territorio lettone era occupato dalla Germania.

domenica 14 giugno 2015

Chi ha paura dei media russi indipendenti ?

La Russia è da sempre in fondo alle classifiche mondiali sulla libertà di stampa. Ed è notorio. Dal 1992 ad oggi, secondo Cpj, sono 36 gli omicidi di giornalisti documentati, con un tasso di impunità che sfiora il 90 per cento. Inoltre, reporter e cronisti subiscono con preoccupante frequenza aggressioni e minacce. Dalla sua ultima rielezione nel 2012 e, soprattutto, in seguito al conflitto ucraino e all’annessione della Crimea, Putin ha ulteriormente inasprito le già dure norme che colpiscono i media nazionali non allineati.
Bisogna fare molta attenzione a criticare il governo: dopo tre ammonimenti – per aver in qualche modo infranto la legge – i giornali, i siti web e i canali televisivi vengono chiusi. Inoltre è vietato parlare di separatismo o anche solo di minoranze etniche e linguistiche – indipendentemente da quello che si sta scrivendo e raccontando. Si può essere incriminati, è illegale.
Giornalisti russi che combattono quotidianamente per raccontare la verità
Tre anni fa, Serguei Sokolov, redattore capo aggiunto di Novaya Gazeta, che aveva condotto un’inchiesta sulla corruzione di alcuni agenti, fu prelevato contro la sua volontà dall’investigatore capo federale, Alexander Bastrykin, portato in mezzo alla foresta nella periferia di Mosca e minacciato di morte.
Più di recente, la scorsa estate, Lev Shlosberg, giornalista di Pskovskaya Gubernia e deputato della regione russa di Pskov che ha condotto un’inchiesta sulle bare russe che provengono dall’Ucraina – secondo la sua tesi appartenenti a soldati partiti per combattere nel Donbass – è stato aggredito fisicamente davanti alla propria abitazione. Inoltre, perquisizioni improvvise nelle redazioni giornalistiche sono all’ordine del giorno.
L’intervista ad Anastasia Kirilenko di Radio Svoboda
Anastasia Kirilenko, freelance russa (pubblica articoli su testate tedesche, francesi, svizzere e britanniche), lavora dal febbraio 2009 per Radio Svoboda (o Radio Liberty), emittente russa nata nel 1953 e finanziata con contributi pubblici americani. «Non me la sento di dire che non ho paura, però non potrei lavorare mistificando la realtà. Alcuni miei colleghi pur di fare il loro mestiere si adattano, io non potrei» racconta. «I media russi indipendenti ormai non esistono più. Radio Eco di Mosca e Novaya Gazeta di solito sono ritenuti piuttosto attendibili, ma la prima è stata acquistata da Gazprom e la seconda subisce continue pressioni dal Cremlino. Anche Svoboda», continua Kirilenko, «da dopo la rielezione di Putin nel 2012 è cambiata. E negli ultimi tempi, a volte, si autocensura direttamente. Putin ha troppo potere e non può essere contraddetto, non si può lottare contro di lui. Abbiamo già ricevuto due ammonimenti. La redazione di Mosca è a rischio, sono state bloccate le frequenze radio, costringendoci alla trasmissione solo su internet e sul satellite. Io lavoro per il sito, da Parigi. Prima di trasferirmi in Francia, quando vivevo a Mosca, sono stata interrogata da un poliziotto per diverse ore… dicevano che avevo offeso un amico di Putin. Oggi ricevo minacce e insulti ogni giorno, dalla gente comune, tramite la rete, ma non mi perdo d’animo».
Anastasia nel 2010 ha condotto e pubblicato un’importante inchiesta sul passato del leader del Cremlino evidenziando i suoi legami con la criminalità organizzata internazionale. Un reportage che ha fatto scalpore; senza le indagini della coraggiosa reporter tutto sarebbe rimasto sepolto dal tempo. «I notiziari in televisione ormai sono completamente allineati con il Cremlino. Vengono mandati in onda documentari falsi, ricostruzioni ad hoc di eventi sgraditi al potere. La gente si informa solo in questo modo, non guarda i canali stranieri e non legge. E comunque è stata convinta da Putin che tutti gli altri mentano. Gli americani che influenzano il mondo vogliono isolare la Russia e farla fallire. Perché questo è quello che viene continuamente ripetuto dalla propaganda ufficiale. Propaganda che è al massimo delle sue potenzialità, non è mai stata così organizzata» spiega la giornalista. «Il rapporto di Boris Nemtsov, che dimostra il coinvolgimento di Putin in Ucraina, è stato pubblicato solo da noi e da pochi altri media indipendenti. La televisione pubblica, ad esempio, non ne ha mai fatto menzione».
Foto: Anastasia Kirilenko
Sophie Tavernese, Russia: la scure della censura sui media indipendenti, "East Journal", 11-06-15.

lunedì 8 giugno 2015

Sei cristiano ? Allora non puoi andare all'estero.

Basta essere cristiani in Pakistan per vedersi negato il diritto di recarsi all’estero. Anche se si è dotati di tutti i documenti e le carte necessarie per farlo. È quello che testimonia la storia di Irfan Masih e sua sorella Maria Batool, cristiani di Kasur, vicino a Lahore, che sono stati bloccati all’aeroporto per due volte e per due volte si sono visti negare il diritto a viaggiare in Sri Lanka.

IL VIAGGIO. I due cristiani, assistiti dall’avvocato Mushtaq Gill, hanno fatto causa alla Federal Investigation Agency (Fia). Dopo aver ricevuto, come previsto dalla legge, una lettera di invito da un amico di famiglia, Nalika Damayanthi, residente in Sri Lanka, e aver ottenuto regolarmente il visto, hanno comprato un biglietto aereo per la tratta Lahore-Colombo. Il 12 maggio, però, una volta arrivati all’aeroporto internazionale Allama Iqbal per imbarcarsi, sono stati bloccati da alcuni ufficiali della Fia.

«VOLETE CHIEDERE ASILO». Dopo aver controllato i loro documenti, che erano in regola, non gli hanno permesso di salire sull’aereo e li hanno rispediti indietro dopo aver visto sui documenti la dicitura “cristiano” alla voce “religione”. I fratelli hanno comprato nuovi biglietti per partire l’1 giugno ma ancora una volta sono stati bloccati all’imbarco. Gli ufficiali della Fia li hanno accusati di volersi recare in Sri Lanka per chiedere asilo, «come fanno molti cristiani viaggiando in paesi come anche Malaysia e Thailandia».

«DIRITTI VIOLATI PERCHÉ CRISTIANI». Lo stesso Gill ha dichiarato all’Express Tribune di essere stato bloccato in modo simile nel dicembre del 2014, quando è stato invitato a tenere una conferenza in Italia in difesa di Asia Bibi. «Continuavano a dire che volevo recarmi in Italia per chiedere asilo. Sono potuto salire sull’aereo solo dopo aver chiesto a dei poliziotti di intervenire». Il diritto dei miei clienti, continua Gill, «alla libertà di movimento è stato violato a causa della loro fede. Loro non hanno nessuna intenzione di chiedere asilo».

«TROPPA DISCRIMINAZIONE». La discriminazione messa in atto dalla Fia rivela un altro grave problema, oltre alla violazione della libertà di movimento. La discriminazione e persecuzione dei cristiani è così diffusa e nota a tutti, che è sufficiente un biglietto d’aereo verso l’estero a far sorgere il sospetto che i proprietari vogliano chiedere asilo. Come se fosse scontato. «Il fatto che così tanti cristiani cerchino di chiedere asilo all’estero», ha aggiunto l’avvocato, «fa capire il livello di persecuzione in questo paese. I cristiani in Pakistan subiscono discriminazioni, violenza da parte di gruppi di estremisti, abuso della legge sulla blasfemia, disuguaglianza davanti alla legge, minacce, molestie e discriminazione sul posto di lavoro». Se fossero stati musulmani, i due fratelli «sarebbero potuti salire su quell’aereo».