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sabato 25 febbraio 2012

Intervista a Tommaso di Carpegna Falconieri.

di  A. Lalomia

La pubblicistica sul Medioevo si è arricchita, dalla fine dello scorso anno, di un prezioso volume,  Medioevo militante, che è stato ed è ben accolto dai lettori e dalla critica 1  .
Il suo autore è Tommaso di Carpegna Falconieri, docente di Storia medievale all’Università di Urbino. Per capire il ruolo che questo studioso occupa nel panorama della medievistica italiana  (ma non solo),  è possibile leggere l’elenco delle sue pubblicazioni, presente sul  sito  della sua Università 2 .

L’A. sta concentrando da tempo la sua attività sul tema delle testimonianze storiche, o meglio, sull’attendibilità delle fonti, per evitare di cadere nella trappola delle distorsioni, dei falsi e degli inganni, dei falsari e degli impostori, dei bugiardi e dei truffatori, o più semplicemente, dei miti e delle leggende non supportate da prove e da riscontri scientifici.  Nell’intervista del 2009  citata oltre, dice:  “[…] medieval civilization, which had a clear notion of truth and authenticity, was—and for the same reason—also a civilization of counterfeit. This had its place in a dialectic of entangled relations between truth and falsehood which appears as one of the fundamental characteristics of that civilization.  […] The complicated relationship between fact and legend belongs to the more general problems concerning the relationship between fact and imagination and between events and their narrative representation, which have given rise to a huge debate.  ”

Il confine tra verità e menzogna, tra finzione e realtà  (o, più banalmente, tra leggenda e verità)  è spesso molto sottile; anzi, realtà e mistificazione a volte sono così legate tra loro che i tradizionali strumenti d’indagine dello storico si rivelano inadeguati.   
Anche il falso, però, talvolta può essere oggetto di attenzione e di studio da parte dello storico, per i motivi che vengono evidenziati nel testo.
D’altronde, come ha ricordato Franco Cardini nella sua recensione del libro  “[…]  La scoperta di Marius Schneider  […]  fa capire come davvero ci siano più misteri nel nostro Medioevo, quello vero, di quanti non possano neanche immaginare quanti sono abituati a cercar di risolvere il mistero del Graal leggendo libretti new age.”.
Grazie anche al suo talento narrativo, Tommaso di Carpegna Falconieri ci mostra come sia possibile districarsi in questo ginepraio, e ci illustra prospettive di indagine finora ignorate o sottovalutate, guidandoci con mano sicura e con un piglio di amabile signorilità in un percorso ricco di riferimenti eruditi e di citazioni dotte, ma ispirato anche ad una saggezza e ad un senso di umanità che rendono la lettura delle sue risposte gratificante e densa di suggestioni.

È con grande orgoglio, quindi, che propongo ai lettori del blog l’intervista che lo storico mi ha concesso.
Le domande sono divise in sei gruppi. Ove non sia indicato altrimenti, mi riferisco a Medioevo militante.

1.  Genesi, realizzazione e fortuna dell’opera.
2.  Contenuti del libro.
3.  Attività professionale: ricercatore e saggista.
4.  Attività professionale: docente universitario.
5.  Interessi extra-accademici.
6.  Progetti in cantiere e riflessioni su Roma.

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Note

1  V. le pagine “Libri consigliati”    ed  “Eventi culturali”   di questo blog.

2  Sono ben 150 voci tra libri, articoli e saggi, tutti apparsi, questi ultimi, su prestigiose riviste accademiche nazionali e di altri paesi, e nelle diverse opere che fanno capo all’Istituto della Enciclopedia Italiana (Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia dei Papi, Federiciana). Il suo libro L’uomo che si credeva re di Franciaedito da Laterza, è stato tradotto e pubblicato da una fra le principali case editrici degli Stati Uniti, la University of Chicago Press.
Alcune delle sue opere hanno ricevuto riconoscimenti di altissimo livello.  Al  Cola di Rienzo ,  ad esempio, nel 2003 è stato assegnato il  Premio della Cultura da parte della Presidenza del Consiglio, la più importante onorificenza culturale dello Stato.
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1.  Genesi, realizzazione e fortuna dell’opera.

-  In un’intervista scritta del 2009 www.medievalists.net, lei osserva: 

“I am now working on the broad cultural phenomenon one can call “medievalism,” especially on its connections with contemporary politics, and will talk about it in Kalamazoo, at the next international medieval studies conference. Indeed the ‘middle ages’ are an idea, a stereotype and a historiographical category which gets exploited all the time. This variegated idea of the middle ages, this ambiguous metaphor, has been used over and over, both positively and negatively. The middle ages have become particularly conspicuous, with marked political connections, in recent decades: there has been much talk of ‘crusades,’ or of the medieval roots of ‘united Europe’ or of this or that European nation or nationalism. The middle ages are also thriving in America: the “new middle ages” is a genuine interpretative category in the study of international relations. I’m writing a book on this huge subject, which will probably come out (in Italy) in 2010. In it I will analyze how the middle ages have been perceived and used politically over the past forty years, in the West, and also in the lands of Islam (with talk of ‘crusades’ and ‘crusaders’). Without the ‘medieval concept’ contemporary society and its cultural tendencies cannot be fully understood. Connections with my previous studies and with the case of ‘king Giannino’ are clear; for here I am also dealing with the relationship between historical fact and its representation in imagination: again, the relationship between fact and fiction, broadened to a macroconcept, the ‘middle ages.”  
Da quanto tempo stava lavorando al libro ?
La scrittura di Medioevo militante  mi ha impegnato dal 2008 al 2011. L’idea di scrivere dei nessi tra il medioevo e la contemporaneità risale però a tempi più lontani: avevo già cominciato ad occuparmene in alcune recensioni nel corso degli anni Novanta e in un paio di articoli pubblicati nei primi anni del nuovo millennio sulla rivista Quaderni medievali, che ora purtroppo tace, ma che dalla sua prima apparizione, negli anni Settanta, fino agli ultimi suoi numeri (2005), dedicò sempre una sua sezione a ciò che intitolava «L’Altro Medioevo», ovvero al medioevo dei non specialisti, quello che ci raggiunge soprattutto attraverso i media. Direi pertanto che la mia scelta di scrivere del medievalismo contemporaneo ha una genesi lunga. Del resto, anche chi, come me, si è specializzato nello studio e nella ricerca del medioevo storico, ha spesso un iniziale retroterra non molto diverso da quello di tante altre persone. Si tratta di quella sorta di imprinting che ci proviene dall’idea di medioevo che ci aveva colpito e affascinato quando eravamo ancora bambini. Lo stesso Jacques Le Goff ha affermato di «aver scoperto il medioevo» a dodici anni, leggendo Walter Scott (J. Le Goff, Alla ricerca del medioevo, Roma-Bari 2003, p. 3). Con questa prima assimilazione dell’idea e con le proposte successive che giungono, per esempio, attraverso il cinema, lo studioso, se vuole interagire con coloro che non sono specialisti, deve continuare a fare i conti anche in seguito, per non correre il rischio di risultare incomprensibile ai più. Per questo, ritengo sia meglio evitare di irrigidirsi nella netta contrapposizione tra un «medioevo vero» e un «medioevo immaginato», che non coincide con la nostra comune percezione e rappresentazione del periodo, nella quale queste due categorie sono molto permeate l’una dall’altra, mentre è molto utile ragionare sulle categorie di «storia medievale» e di «medievalismo» che sono, effettivamente, differenti, e che debbono costituire entrambe oggetto di studio da parte della medievistica. Oggi condivido con diversi altri ricercatori questa predisposizione a comprendere il significato del medioevo storico anche attraverso l’analisi della sua continua reinterpretazione nella cultura che ci è più vicina. Per esempio, ho partecipato con soddisfazione a un gruppo internazionale di ricerca sul medievalismo diretto da Patrick Geary (UCLA, ora Princeton) e da Gábor Klaniczay (Central European University), che aveva come sede principale il prestigioso Collegium Budapest che oggi, a causa delle difficoltà economiche della Repubblica d’Ungheria, è stato chiuso.
-  Ha incontrato particolari difficoltà nel reperire il materiale ?
Una tra le principali difficoltà che si celano dietro a un libro come Medioevo militante non risiede tanto nel reperimento del materiale – perché esso è senza dubbio sovrabbondante – ma piuttosto nella necessità di organizzarlo secondo principi logici. Come dire: il medievalismo, anche quello politico del quale maggiormente si occupa il libro, è un dato ben comprensibile a molti, perché ognuno di noi si ritrova continuamente di fronte le molte «idee di medioevo» con cui interagire; tuttavia, dare un senso e un ordine ai dati è impresa impegnativa. Scrivendo un libro che parla del medievalismo, mi sono trovato ad affrontare problemi di metodo differenti rispetto a quelli solitamente incrociati dalla medievistica. Renato Bordone, attraverso la metafora della damigella di Shalott, condannata a non poter rimirare Camelot altrimenti che attraverso uno specchio, diede una bella descrizione del tipo di fonti che si trova ad analizzare uno studioso di medievalismo, il quale non studia l’immagine originaria, ma il suo riflesso nello specchio: «Si tratta di uno specchio, questo non è il medioevo delle nostre fonti che invece sta al di fuori di quella finestra. Ma noi lo sappiamo benissimo e non è qui che cercheremo la realtà dell’età di mezzo. Quella che cerchiamo in questo specchio è un’altra storia» (R. Bordone, Lo specchio di Shalott, Napoli 1993, p. 14).
-  Oltre agli elogi di un insigne medievalista come Franco Cardini, il volume ha ricevuto subito diverse e molto lusinghiere recensioni  (v. la pagina  “Libri consigliati”  di questo blog)  sia da parte della stampa di sinistra che di quella di destra.  Basti pensare ai due estremi del “Secolo d’Italia” e del “Fatto quotidiano”.  Inoltre, la pubblicazione dell’opera viene annunciata anche su blog  -per esempio  http://materialismostorico.blogspot.com - di intellettuali dichiaratamente marxisti e comunisti.  Queste convergenze tra destra e sinistra sono state evidenziate bene nella recensione di Matteo Sacchi  apparsa sul “Giornale”  del 23-11-11. Evidentemente, lei ha toccato un argomento che scuote la sensibilità collettiva, indipendentemente dall’ideologia professata.  Essere riuscito nell’improba impresa di mettere d’accordo schieramenti tradizionalmente contrapposti è un successo non marginale, quasi un prodigio.  Non trova ?

Ritengo che il tema del medievalismo sia una delle chiavi per comprendere la contemporaneità. Gli schieramenti politici sono tradizionalmente contrapposti, ma forse Medioevo militante li può rendere maggiormente consapevoli dell’importanza di questo elemento per la loro definizione culturale, poiché in questo libro tratto degli usi attuali del medioevo presentando una casistica ampia, che comprende tanto le culture conservatrici e reazionarie, quanto quelle progressiste. «Medioevo» è un concetto con il quale tutti si trovano a dover fare i conti, sia quando viene presentato come «storia medievale», sia quando viene proposto come «medievalismo».
Tuttavia, non so se sono riuscito a convincere il senatore Luigi Ramponi, che lo scorso 13 settembre ha tenuto in Parlamento un discorso sull’assoluta inutilità della ricerca sul medioevo. A lui vorrei rispondere citando una frase scritta da Giuseppe Mazzini nel 1826 e recentemente riproposta da Paolo Golinelli (Medioevo romantico, Milano 2011, p. 162) :«Tali furono i tempi, nei quali Dante menò la dolorosa sua vita, tempi fecondi di gravi insegnamenti a chi dentro vi guardi con occhio filosofico, tempi, dallo studio dei quali non può venir che salute all’Italia». Il medioevo non è importante solo come periodo storico in sé e per sé – e lo è di certo -, ma anche e soprattutto perché il suo continuo riaffacciarsi nella cultura contemporanea, attraverso le nostre rappresentazioni e reinterpretazioni, lo rendono sempre attuale. Limitandoci all’Italia, basterà ricordare che la nostra moneta metallica di minor valore – quella da un centesimo – rappresenta oggi il federiciano Castel del Monte, e quella di maggior valore – i due euro – rappresenta Dante Alighieri. E si potrebbe aggiungere, tanto per fare altri esempi che ci sono molto vicini, che il più vecchio partito oggi in Italia, la Lega Nord, ha una propria mitologia che si serve della Lega lombarda, del Carroccio, di Pontida e di Legnano; che il tradizionalismo cattolico plaude all’idea di un incontaminato e originario «medioevo cristiano», che i movimenti della destra postfascista coltivano il mito della cavalleria, o ancora che Fabrizio De André, forse l’autore più amato degli ultimi decenni, si considerava un epigono di François Villon, e che l’ultimo italiano ad aver ricevuto un Premio Nobel, Dario Fo, nel 1997 è stato insignito di questa altissima onorificenza con la seguente motivazione: «Nella tradizione dei giullari medievali fustiga il potere e restituisce la dignità agli umiliati».          

-  Durante le presentazioni del libro, quali sono state le domande più frequenti da parte del pubblico e comunque quali punti dell’opera hanno suscitato maggiore interesse e consenso tra i presenti ?

L’elemento che mi sembra essere emerso più spesso durante le conversazioni con i lettori e con le persone interessate alle presentazioni, è quello della sim-patia, cioè della condivisione con quanto avevo scritto. Vi sono state persone, alle quali non posso che essere grato, che mi hanno detto: «Ora ho finalmente capito perché il medioevo mi riguarda direttamente». 

-  È lecito secondo lei affermare che uno dei motivi principali  -se non addirittura il più importante-  per cui il Medioevo  -o almeno una certa rappresentazione ideologizzata e comunque superficiale e di comodo dell’età di mezzo-  sta vivendo un periodo di fortuna, sia legato soprattutto ai fenomeni migratori che interessano diversi paesi dell’Europa occidentale, a partire dal nostro, rinnovando pregiudizi e rancori che si credevano ormai superati ?  
I flussi di milioni di migranti   -in particolare quelli di fede islamica-  che da varie regioni del pianeta si dirigono verso le zone più ricche del nostro continente, sono considerati da taluni come minaccia all’occupazione, alla sicurezza, all’identità e all’integrità nazionali.
I migranti  - soprattutto, ripeto, se di fede islamica-, sono visti spesso come clandestini, come soggetti che tolgono lavoro,  si dedicano ad attività illecite, appartengono ad associazioni terroristiche, fomentano disordini, vogliono imporre la loro visione del mondo al paese che li ospita.
E questo non soltanto in Italia: basti pensare al leader del PVR olandese, Geert Wilders  capofila di quanti reclamano a gran voce misure restrittive nella concessione di permessi di ingresso e di soggiorno per gli stranieri provenienti da quelle aree  (ma Wilders va oltre, perché chiede che gli stessi metodi siano adottati anche nei confronti di migranti provenienti dall’est europeo).
Gli immigrati, in alcuni ambienti italiani ed europei  (ma non solo), sono considerati come i nuovi barbari, refrattari all’integrazione e in grado di insidiare tradizioni, valori, cultura, aspettative, radici e stili di vita delle popolazioni del vecchio continente.
D’altra parte, a contrastare questa mentalità e a ristabilire un clima di serena convivenza, certo non giovano le intemperanze di gruppi di extracomunitari fanatici che manifestano in pieno centro di Londra in modo concitato e bellicoso, ostentando provocatori cartelli che inneggiano alla sharia, alla vittoria dell’islam sulle altre religioni  (a partire da quella cristiana), che saranno distrutte, e imprecando contro la civiltà occidentale
Qualche tempo fa, il premier britannico Cameron e la cancelliera tedesca Merkel hanno dichiarato  (forse un po' troppo frettolosamente)  che i tentativi di procedere nei loro rispettivi paesi all’integrazione dei migranti sono miseramente falliti, a causa proprio della volontà dei nuovi arrivati di mantenere stili di vita non compatibili con quelli dello stato che li ospita.  Il multiculturalismo, hanno detto, è stato rifiutato proprio da coloro ai quali era stato offerto su un piatto d’argento. 
C’è qualche analogia  -sia pure indiretta-  con il Medioevo, oppure l’accostamento è un po’ forzato e in definitiva improponibile ?

Ho trattato di questi argomenti a più riprese all’interno del libro, soprattutto in relazione con le supposte «nuove invasioni barbariche», con le «attuali crociate» e con la costruzione dell’Unione europea. Certo, il medioevo sembrerebbe un tempo perfetto per evocare disastri, ma si tratta, appunto, di una rappresentazione attualizzante che, per nostro comodo, facciamo corrispondere al medioevo storico, intendendo in realtà parlare di noi. Ogni accadimento è uguale solo a se stesso. Postulare una coincidenza tra i processi storici attuali e quelli antichi – le migrazioni di oggi come le invasioni barbariche, le forti tensioni con il fondamentalismo islamico come l’espansione araba altomedievale o le crociate – significa fare un uso strumentale della storia. Agire politicamente servendosi di questi apparenti parallelismi ha un forte impatto mediatico, perché viene evocato uno spettro sinistro che crediamo di conoscere già, ma non ci aiuta a comprendere quanto realmente stiamo vivendo, né, tantomeno, a comprendere il medioevo. Oltretutto, l’accostamento che davvero si può fare con il medioevo storico porta, paradossalmente, nella direzione opposta rispetto all’idea, spesso propagandata, di una contrapposizione tra civiltà provviste di salde e immodificabili identità: il medioevo è stato un periodo contraddistinto da forti processi dinamici, da acculturazioni continue. Non per niente, è durato mille anni.

 Libreria Piola di Bruxelles
-  Come mai ha inserito Bruxelles tra le sedi di presentazione del volume ?  Per la sua centralità a livello comunitario ?    

Ho scelto Bruxelles senza dubbio per la sua centralità nell’Unione europea, e infatti un intero capitolo del libro è dedicato al medievalismo dell’Europa unita; ma l’ho fatto anche in omaggio a Jacques Brel, il grande chansonnier che ha cantato Le plat pays e che più volte ha colorato i suoi testi di atmosfere medievali, come hanno fatto i suoi corrispettivi italiano e francese, Fabrizio De André e Georges Brassens: di tutti questi autori tratto in un altro capitolo. Il medievalismo politico è però un tema transnazionale che coinvolge l’intero Occidente ed è molto presente (oltre a essere ben studiato) anche negli Stati Uniti d'America: per questa ragione, tra le mie prossime tappe vi sono anche una conferenza alla Rutgers University nel New Jersey e un’altra al New College di Sarasota, in Florida.
 New College di Sarasota, Florida (USA)

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2. Contenuti del libro.

         -  Da tempo lei si è dedicato allo studio dell'evoluzione e della fortuna del termine “Medioevo” a partire dal Rinascimento per arrivare fino ad oggi, in cui si osserva lo scollamento tra due formule che definisce “medioevo per specialisti” e “medioevo immaginario” . Si può fissare un periodo relativamente circoscritto dell’inizio di questo processo ?

Medievistica e medievalismo sono nati nel medesimo paesaggio culturale, che è sostanzialmente il Romanticismo. Il periodo della loro separazione può essere fatto corrispondere al processo di specializzazione delle discipline, dunque dalla fine dell’Ottocento in avanti. Da allora si è prodotto un fenomeno che si può riassumere nella sempre più difficile osmosi tra i diversi campi del sapere.  L’arricchimento delle scienze umane e la loro specializzazione ha avuto come effetto positivo un incredibile aumento delle possibilità di impostare e risolvere i problemi; ma la contropartita è stata l’impossibilità di seguire con la necessaria competenza gli sviluppi di un settore nel quale non si è specialisti. La medievistica studia i suoi temi, cambia idea, si corregge, cerca nuove strade, valuta nuove fonti. Ma i suoi risultati giungono attutiti e vengono recepiti in ritardo (se mai vengono recepiti), tanto da coloro che praticano forme di analisi consorelle (sociologi, giornalisti, storici specialisti di altre epoche), quanto dai «non addetti ai lavori»: è ciò che Giuseppe Sergi ha chiamato «aggiornamento asincrono». Così, la professionalizzazione della storiografia ha avuto un esito se si vuole inaspettato: quello di scindere il sapere accademico dal senso comune. Il modo di conoscere e rappresentare il medioevo si è diviso in due strade: una storiografia praticata nel mondo universitario e un senso comune di base, spesso ancora legato saldamente alle interpretazioni trasognate proposte dal Romanticismo, e dunque spesso neoromantico. Una delle intenzioni principali del mio libro è proprio quella di rinsaldare il ponte che lega la storiografia alla contemporaneità, attribuendo un denso valore cognitivo  al «senso comune».

-  Tra le varie definizioni che sono state formulate per il termine “medievalismo”, quale giudica più corretta e completa ?

La parola medievalismo sta cominciando a prendere piede, benché manchi ancora, per esempio, una voce corrispondente in lingua italiana su Wikipedia. La sua definizione non è semplice, tanto che un intero numero della rivista specialistica «Studies in Medievalism» (17, 2009) è stato dedicato a questo tema, e molto di recente Richard Utz, uno dei principali studiosi in questo campo, ha scritto un articolo interamente incentrato sul problema (R. Utz, Coming to Terms with Medievalism, «Journal of English Studies», 15,2, 2011, pp. 101-113). La definizione che ne ho dato all’interno del libro è semplice, e forse, almeno per questa ragione,  in parte condivisibile: «“Medievalismo” è un concetto che individua la rappresentazione, la ricezione e l’uso postmedievale del medioevo in ogni suo aspetto, dai revivals alle attualizzazioni in senso politico. Lo studio del medievalismo comprende dunque tutte le forme in cui il medioevo è stato rappresentato dal Quattrocento a oggi, comprese la storiografia, l’archeologia e la storia dell’arte di argomento medievistico precedenti il XX secolo».

-   Nella già citata recensione sul  “Giornale” ,  si ricorda quanto da lei scritto, e cioè che
     “Quando ho intrapreso questo lavoro avevo le idee più chiare di quando l'ho terminato”. L'unica certezza inconfutabile è che il medievalismo è «un contenitore di dimensioni talmente ampie che ciascuno di noi se lo ritrova davanti continuamente».  È anche a questo che allude quando parla dell’invasività del falso nella Storia, del fatto che verità, truffa e  immaginazione sono spesso così legate tra loro che spesso è difficile riuscire a separarle nettamente e che comunque anche nel falso, forse, c’è qualche elemento di verità ?  Che il vero è talvolta mescolato al falso, in una miscela micidiale che mette a dura prova la pazienza dello studioso ?   

Gli studi sugli inganni camuffati dietro all’uso e all’abuso della grande parola «storia» sono oggi numerosi. La storiografia contemporanea è infatti pienamente consapevole del ruolo fondativo dell’interpretazione e di quanto la costruzione della memoria sia uno strumento artificioso che può anche trasformarsi in un produttore di falsi. Gli storici medievisti hanno da tempo scoperto che esisteva un «medioevo inventato», considerandolo però un prodotto residuale e – a volte ancora oggi – ritenendolo non degno di indagini serie, né tantomeno suscettibile di una riflessione da condursi nell’ambito della storia della storiografia. Per arrivare a comprendere che anche il medievalismo, ancorché davvero non corrispondente agli accadimenti medievali, costituisce un oggetto della ricerca, dovevano essere intervenuti alcuni cambiamenti importanti nel modo in cui la storiografia si pone di fronte al fatto storico e seleziona le fonti utili all’indagine. Sopra ogni cosa, bisognava arrivare a capire che il documento falso è materia di studio quanto lo è il documento autentico. Se infatti studiamo un falso non per ciò che vorrebbe lasciarci intendere, bensì per rintracciarvi l’intenzione del falsario che lo ha costruito, ecco che ci si spalancherà di fronte un mondo altro, che resterebbe fuori della nostra portata qualora limitassimo l’analisi ai soli documenti autentici. Si tratta del mondo dei desideri, della rappresentazione, della percezione, della finzione: un universo che avrebbe fatto rabbrividire uno storico positivista, ma che oggi non ci stupisce più, e nel quale, anzi, ci troviamo a nostro agio. Dalla consapevolezza che il falso racconta anch’esso una sua storia, infatti, basta fare un altro passo e si raggiunge l’immaginario, i mondi paralleli, la letteratura, e ovviamente la politica che di questo immaginario si nutre.  Di conseguenza, la percezione è divenuta una chiave di lettura indispensabile della storia. Ho provato ad avvicinarmi a questo tema in un mio libro di alcuni anni fa, L’uomo che si credeva re di Franciain cui ho narrato e analizzato la vicenda sofferta e umana di un mercante senese del Trecento, un falsario incallito ma in buonafede che si convinse di essere il re di Francia, il quale ci raggiunge ancora oggi attraverso un testo che, originariamente, era la sua autobiografia.
Marc Bloch
Allargando lo spettro di indagine al medievalismo, possiamo ritenere di avere davvero a che fare con un modo di avvicinarsi al medioevo, anche se il medioevo che ci viene raccontato non corrisponde a quello vissuto dagli uomini che vissero in quel millennio, bensì a quello che è stato loro attribuito «da chi è venuto dopo». Nella medievistica, questo modo di pensare la storia è germogliato per la prima volta nei celebri studi di Marc Bloch. 
Mi riferisco ovviamente a I re taumaturghiin cui la materia di studio è offerta non da un fatto, ma da una tradizione secolare, e ancor più al suo piccolo libro La Guerra e le false notizie, in cui Bloch raccontò il modo in cui si diffondevano le false notizie nelle retrovie e nelle trincee della Grande Guerra. 
Non siamo lontani dal 1929, quando Magritte dipinse l’opera «Ceci n’est pas une pipe» che tanto piacque a Foucault: in effetti, un quadro che rappresenta una pipa non è certo una pipa, bensì la sua descrizione. Ne ho parlato di recente in un mio articolo sugli antipapi medievali che uscirà nei prossimi mesi sul periodico online Reti Medievali Rivista . Il problema si pone, però, quando vengono confusi i piani di realtà; quando ciò che attiene la rappresentazione e la percezione di un determinato oggetto viene proposto come se fosse l’oggetto stesso. Il fenomeno è generale e notissimo alla sociologia; corrisponde infatti alla sopravvenuta incapacità di distinguere il fatto dalla notizia, la vita vissuta dalla vita raccontata, il mondo reale da quello virtuale: non per niente, in italiano la parola inglese reality ha conosciuto uno scivolamento di senso ossimorico, andando a significare «spettacolo che finge il reale», cioè praticamente l’opposto del suo significato originario. Nel caso del medioevo, questa confusione si verifica sempre quando una proposta di interpretazione che attiene interamente al medievalismo viene spacciata per storia medievale: quando per esempio si determina una perfetta corrispondenza tra le guerre della Lega lombarda nel XII secolo e le istanze politiche risorgimentali (l’Italia unita per la prima volta dalla battaglia di Legnano contro l’imperatore germanico) o separatiste (La Padania unita per la prima volta dalla battaglia di Legnano contro Roma ladrona). Dietro a questo processo, che ho analizzato a lungo nel libro, si coglie la mescolanza volutamente indistinta tra il tempo storico e il tempo mitico, tra l’analisi storica e la rievocazione simbolica. È un processo di destoricizzazione che porta diritto a quelle trasmissioni televisive in cui il medioevo è ridotto a un castello fatato o a un antro sinistro pieno di misteri da scoprire, di templari e di Graal.   
Questo processo è anche conseguenza di oltre quarant’anni di riflessioni postmoderne di tipo decostruzionista sulla storia. Queste ci portano all’opinione che il dato reale – cioè il dato storico – resti irraggiungibile e che ciò che lo storico può fare sia soltanto analizzare dei testi. La ricaduta delle teorie decostruzioniste sul modo di pensare e poi di usare la storia è notevolissima. Infatti, partendo dal presupposto che il dato reale sia comunque inattingibile, la storiografia viene privata del suo statuto di scientificità e viene ricondotta a un’arte retorica. Puntando l’attenzione sulla forma anziché sui contenuti, sulle relazioni linguistiche e semantiche all’interno di un testo anziché sulla metodologia necessaria per arrivare a un dato, si è asserita la possibilità di considerare formalmente autentico persino un prodotto di finzione. La debolezza epistemologica attribuita alla storiografia ne ha minato le fondamenta: questa disciplina, dopo essere stata espressione compiuta di un pensiero forte, può divenire addirittura il campione di un pensiero debole, rivolgendo il «dubbio metodico» contro se stessa. D’altro canto, gli storici sono persuasi che il dato di realtà sia avvicinabile e che l’obiettività sia un risultato a cui si può e si deve tendere attraverso una metodologia adeguata. L’oggetto che ci riconduce al dato reale resta sempre la fonte storica. Magritte, per dipingere una pipa, da qualche parte doveva averne vista una. La fonte sarà autenticamente medievale se indaghiamo il medioevo storico, mentre sarà una fonte moderna o contemporanea se indaghiamo il medievalismo. Ma, sia chiaro, medioevo storico e medievalismo sono entrambi dei fatti reali – dunque esperibili storicamente dalla medievistica – ed entrambi determinano conseguenze concrete. L’uno perché ha sviluppato processi storici di lunga durata che in parte ancora ci raggiungono (basti pensare all’Università o all’Europa), l’altro perché, rievocando il medioevo oggi, determina oggi il nostro agire. Può forse sembrare una provocazione, ma, nella contemporaneità, ciò che ha maggior impatto sociale, e dunque maggiore rilevanza storica, è proprio il «medioevo immaginato». Anche se sono inventate, sono però molto più efficaci le «rappresentazioni del medioevo» proposte da un movimento politico attuale, che non le ricostruzioni del sistema curtense.      

-  L’attualizzazione del Medioevo è da biasimare sempre ? Nella sua recensione, Luca Negri   ricorda che  “…molti cattolici tradizionalisti si abbandonano  all’utopia reazionaria e vorrebbero tornare indietro, restaurare la teocrazia. Cosa impossibile, sconsigliabile per la Chiesa stessa, dato che equivarrebbe a consegnarla al passato invece di proiettarla nel futuro pur mantenendola ancorata all’eterno. Semmai, come consigliò Augusto Del Noce, occorre interiorizzare il Sacro Impero e cercare di attuarne le positività nell’epoca del liberalismo democratico e della civiltà massmediatica. Così fece papa Wojtyla, meritandosi un bel complimento da parte dell’insigne storico dell’età di mezzo Jacques Le Goff: “Giovanni Paolo II è il medioevo più la televisione”.  Anche i ‘viaggi nella storia del Medioevo’ che vengono promossi talvolta a livello locale, sia pure soprattutto per fini turistici, potrebbero servire a restituire un’immagine meno fumettistica e ridanciana del periodo, anche se è inevitabile che qualcosa di pittoresco alla fine rimanga (se non altro per una questione di cassa).  Si vedano ad esempio alcuni articoli apparsi sul  "Giornale"  (1, 2, 3).  E d’altronde, il Palio di Siena, che si svolge da tempo immemorabile, non rientra forse nel fenomeno teso ad attualizzare il Medioevo, anche se ne fornisce un’idea approssimativa e abbastanza violenta ? Vuol dire qualcosa, in proposito ?


L’attualizzazione del medioevo non è affatto da biasimare, perché può essere una ricchezza. È però da comprendere in profondità, assegnandole il valore che le è proprio e di cui si è detto qualcosa poco fa. Bisogna essere serenamente in grado di distinguere tra ciò che è accaduto e ciò che si vorrebbe – o che non si vorrebbe – fosse accaduto.

-  Non crede che il fenomeno dell’uso strumentale e propagandistico del Medioevo per fini politici non riguardi soltanto l’Occidente ?  Certo, da noi si trovano quelli che nelle kermesse di Pontida  (magari con menu a base di carne d’orso)  si calano in testa improbabili elmi o indossano ‘armature medievali’ decisamente kitsch (come a Carnevale),  tuonando contro la degenerazione della razza, inquinata dall’eccessiva presenza degli immigrati, in particolare musulmani.  Però, anche in altre parti del mondo il Medioevo  continua a rimanere un pozzo senza fondo da cui attingere, un terreno di caccia in cui reperire luoghi comuni, beceri slogan, temi e motivi di propaganda che servono ad esaltare le folle, per incitarle all’odio contro il nemico, l’infedele, per accusare l’Occidente delle peggiori nefandezze.  Vorrei citare soltanto Gheddafi, che usava spesso il termine crociati per indicare gli occidentali e soprattutto i cristiani,  e  Ahmadinejad che ha lanciato sull’Occidente l’accusa di voler diffondere epidemie devastanti nel mondo arabo e in Iran, come avrebbero fatto, appunto, i crociati.
Anche se il mio libro riguarda sostanzialmente l’Occidente, questo argomento è trattato diffusamente in un capitolo del libro.  La metafora medievale è ben lontana dal costituire un appannaggio esclusivo dell’Occidente, ma riguarda anche, fondamentalmente, l’Islam. Certo, la parola impiegata non è propriamente «medioevo», poiché la cultura islamica (come del resto le altre culture non del tutto occidentalizzate), non fa uso di questa periodizzazione. Tuttavia, i riferimenti a fatti epocali che noi datiamo nel medioevo e che hanno visto il confronto tra l’Islam e la Cristianità, sono numerosissimi e di notevole significato politico.


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3. Attività professionale: ricercatore e saggista.

-  A parte quanto indicato di seguito sulla produzione narrativa, sin dall’inizio della sua attività professionale lei ha lavorato prevalentemente  (per non dire soltanto)  sul Medioevo.
Esiste qualche motivo per questa sua precisa scelta ?  L’appartenenza ad un’antica e illustre famiglia aristocratica ha influito in qualche modo in tale decisione, nel senso che lei ha voluto ricostruire di persona un passato storico che, oltre ad avere una sua importanza a livello nazionale, comunque la riguarda direttamente ? 
Nella sua bibliografia, in effetti, si trovano testi sui Carpegna  e sui Massimo  (compresi i contributi all’Enciclopedia Treccani),  anche se non sempre riferiti al Medioevo.  Mi riferisco ad esempio allo studio condotto sui diari del suo bisnonno  -Guido di Carpegna Falconieri-  e del quadrisnonno   -Vittorio Emanuele Massimo-   (“Settembre1870. Roma pontificia e Roma italiana nei diari di Vittorio Massimo e di Guido di Carpegna”, Roma, Gruppo dei Romanisti, 2006, Quaderni del Gruppo dei Romanisti, V, pp. 64.).  

Per rispondere a questa domanda devo chiedere aiuto a Benedetto Croce, che ha affermato: «Ogni vera storia è sempre autobiografia». Chi non ammette o rifiuta questo assunto apparentemente semplice, o non ha capito cosa esattamente stia facendo, oppure è in malafede. L’atto della scrittura storica, anche se condotto con una adeguata metodologia e anche se tende alla valutazione il più possibile autentica e onesta del dato, è sempre determinato dal suo autore, che ha un proprio retroterra culturale, riceve sollecitazioni da ciò e da chi lo circonda e soprattutto pone domande sue proprie all’oggetto che ha liberamente scelto di studiare. Se vogliamo, chi scrive (anche chi scrive di storia) compie un’analisi su se stesso. Un marxista che studia le rivolte contadine o operaie, oppure un cultore di memorie patrie che riscrive la storia del suo paese, stanno facendo la stessa cosa. Non vi è separazione tra lo storico e il suo campo d’indagine. È pertanto certo che il retroterra culturale che mi caratterizza, l’appartenenza a una famiglia dalla memoria lunga, mi abbia profondamente condizionato, non solo nei temi che ho deciso di indagare, ma anche nella scelta iniziale di compiere studi storici. Dietro a questa scelta vi è la volontà di comprendere ciò che è stato, e dunque di comprendere ciò che anche io sono e sono stato, per avere, storicizzandola, consapevolezza della mia e nostra memoria, e per rendere in tal modo un servizio a me stesso e alle comunità cui appartengo.  
Mi piace, a questo proposito, citare una frase di Jorge Luis Borges per Buenos Aires, sua città natale, ripresa da Leonardo Sciascia per la sua Racalmuto, frase che rende bene l’idea del mio rapporto con la storia: «Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato». Io non voglio e non sono in grado di scrivere intorno a ciò che non conosco o a ciò che non avverto come mio. Non posso farlo perché, questa volta con Cesare Pavese, mi verrebbe da dire: «Non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire “Ecco cos'ero prima di nascere”». Ritengo fondamentali i temi dell’identità e dell’appartenenza, e pertanto anche le loro metamorfosi nel segno dell’immaginario e del fantastico, metamorfosi delle quali, però, intendo essere consapevole. Roberto Bizzocchi ha scritto un libro sulle Genealogie incredibili : ecco, io credo che sia bellissimo avere dietro di sé una «genealogia incredibile», nella quale le imprese dei padri si mescolano con i sogni dei figli. Per questo ho bisogno di ragionare tanto sui fatti storici – gli accadimenti – quanto sulla loro rielaborazione o persino invenzione: la memoria, la fantasia, il sogno.


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4. Attività professionale: docente universitario.

-  Sulla base della sua esperienza di docente, come giudica il modo di accostarsi degli studenti ai temi caratterizzanti la storia del medioevo e alle questioni di metodo storico?   Ritiene che siano sufficientemente motivati ?  E inoltre, li trova preparati, sul piano dei prerequisiti ?   

Gli studenti che si avvicinano a una facoltà come Lettere e Filosofia sono, in genere, molto motivati, perché sono degli idealisti che sanno di intraprendere una strada che raramente li porterà al successo economico ma che, se riusciranno a tracciarla e a seguirla, aprirà loro le porte a una dimensione di maturità culturale e di tensione intellettuale. La scelta della facoltà di Lettere è, oggi, davvero una scelta difficile. Dal punto di vista dell’insegnamento della storia medievale, mi è stato dato di osservare livelli di partecipazione e di comprensione ovviamente molto distanziati. La curiosità e l’interesse, che spesso sono presenti, è qualche volta inquinata da quel vecchio spauracchio che marca gli studi storici, quello cioè di ritenere, a torto, che tutto si risolva con un esercizio mnemonico di faticoso nozionismo. L’insegnamento di Metodologia della ricerca storica è, in questo frangente, essenziale, perché invita i ragazzi a passare dall’altra parte, a cominciare a trasformarsi da studenti in studiosi, a cominciare a capire che la storia non è una sequela di fatti da ricordare, ma una serie affascinante di problemi da affrontare, e che le domande di solito sono più importanti delle risposte. Purtroppo, da noi come altrove, a causa dei tagli imposti, questo insegnamento sta scomparendo. Diviene allora necessario, ed è ciò che faccio, dare alle lezioni e ai seminari un taglio problematico e metodologico anche al di fuori dell’insegnamento di Metodologia.   

-  Ritiene che tra scuola e università esista una sinergia adeguata, oppure che ciascuno dei due mondi si muova un po’ per conto suo, senza curarsi troppo dell’altro ?  Non crede, ad esempio, che andrebbero intensificate quelle iniziative  -già avviate da alcuni docenti universitari  (penso ad esempio ad Alessandro Barbero)-  di portare la storia medievale all’interno delle scuole o in manifestazioni culturali come il Festival della Mente di Sarzana,  a cui partecipano anche docenti e studenti di scuola superiore ?

Non vi è una ricetta buona per ogni occasione e ogni microrealtà ha sviluppato un approccio diverso per affrontare il problema. Da noi a Urbino, gli sforzi per collegare gli studenti delle classi finali della scuola secondaria con l’Università sono senza dubbio cospicui e, per quanto posso osservare, permettono di ottenere buoni frutti. Si potrebbe, e forse si dovrebbe, rendere questi contatti più sistematici a livello strutturale e nazionale: il vantaggio sarebbe evidente. Bisognerebbe tuttavia fare molta attenzione a ben calibrare questi rapporti, perché l’Università ha un suo statuto particolare che la rende cosa altra rispetto alla scuola secondaria, non trattandosi di un’istituzione preposta solo alla formazione, ma anche alla ricerca. Il rischio che si può correre, soprattutto se l’intenzione politica va in questa direzione, è di considerare l’Università una sorta di «super liceo», mentre essa non deve esserlo affatto. Fra i vantaggi che ha la riforma cosiddetta del “3+2” – primo fra tutti l’aver creato una gerarchia di titoli equivalente a quella presente nella gran parte degli altri paesi – vi è però lo svantaggio di avere spezzato in due tronconi le fasi di apprendimento. Mentre al livello del biennio magistrale gli studenti possono effettivamente raggiungere una solida preparazione, il triennio che precede è invece un terreno che si riesce a gestire con difficoltà e gli studenti che lo frequentano sono spesso considerati «né carné né pesce». E infatti, quando ne escono, non possono spendere nel mondo del lavoro il titolo di studio che hanno conseguito, perché è ritenuto – ed è davvero, almeno per ora – insufficiente e non professionalizzante.    


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5. Interessi extra-accademici.

-  Parallelamente all’attività di storico, lei svolge anche un lavoro di scrittore di libri per ragazzi, testi che incontrano un notevole successo di critica e di pubblico.
Come è nata questa passione ?  È lecito ipotizzare che il tema centrale della sua ricerca, l’intreccio tra realtà e immaginazione, tra verità e inganno  -e anche, sia pure con qualche forzatura-  tra realtà e sogno, svolga un ruolo non secondario in questa scelta ?

Io ho pubblicato sette libri per ragazzi, con gli editori Mondadori e Carthusia, e quest’anno ne pubblicherò un altro che riguarda la Repubblica di San Marino. Come nasce una passione? Difficile dirlo: le passioni nascono, e nel mio caso hanno avuto molta responsabilità le letture di quando ero bambino, perché, come Marguerite Yourcenar fece dire all’imperatore Adriano, «le mie prime patrie sono state dei libri».
Quando scrivo per i bambini e quando ho il piacere di scambiare con loro impressioni negli «incontri con l’autore» organizzati dalle scuole, so di avere di fronte persone intelligenti, ricettive e sensibili, cui bisogna rivolgersi scegliendo il registro più adatto. Difatti, è certo che il registro debba cambiare a seconda che ci si rivolga ai colleghi, ai lettori generici oppure, come in questi casi, ai bambini: la scrittura e la parola sono strumenti malleabili che noi dobbiamo piegare alle nostre intenzioni, e non viceversa, per riuscire a capire e a farci capire. Certamente, la relazione tra realtà e immaginazione è il nodo intorno al quale ruota la mia produzione. Direi che con i «grandi» parto dalla realtà – che grande parola! – per arrivare a tentare di far loro comprendere che l’immaginario né è una componente essenziale; mentre con i «piccoli» parto dalla fantasia – che altra bella parola! – per arrivare a farli ragionare sul fatto che la loro vita reale è e deve essere fantastica, in ogni senso. A volte queste due esperienze si incrociano in una sorta di ibridazioni, che concepisco come «esperimenti di scrittura». È il caso, per quanto riguarda la storia, del mio libro L’uomo che si credeva re di Francia (Laterza), che è un saggio storico presentato come un racconto, nel quale solo la parte finale è costruita in forma problematica. Ed è il caso, per quanto riguarda la narrativa per ragazzi, del libro Ritorno a casa. Il sogno dell’abbazia di Farfa (Carthusia), nel quale immagino un viaggio fantastico di un gruppo di bambini perduti nell’Italia del VII secolo, viaggio ancorato però a dati storici.        


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6.  Progetti in cantiere e riflessioni su Roma.

-  Potrebbe dire su cosa sta lavorando attualmente e se ha già in cantiere un nuovo libro?

Tra pochi mesi (il 18 e 19 aprile), insieme a Marco Dorati e ad altri colleghi, terrò a Urbino un seminario che abbiamo intitolato «Storia e storie con i se: mondi possibili in storiografia, letteratura, filosofia, arte». L’idea che abbiamo posto alla base del nostro incontro è esplorare in varie direzioni il virtuale, il possibile e il controfattuale in espressioni culturali tra loro differenti, con particolare attenzione alla dimensione del racconto. Lo spettro di analisi intenzionalmente molto ampio permetterà, lo auspichiamo, di intessere relazioni stimolanti tra ambiti di ricerca che spesso affrontano i medesimi temi ma che raramente si confrontano fra loro: storia, filologia, filosofia, storia dell’arte, letteratura, cinema.
In questo quadro, la storiografia controfattuale gioca senza dubbio un ruolo di primo piano: è quella che risponde alla domanda «What if?» - «Cosa sarebbe accaduto se?». Cosa sarebbe accaduto se Napoleone avesse vinto a Waterloo, o se davvero Roberto Benigni e Massimo Troisi fossero riusciti a impedire a Cristoforo Colombo di imbarcarsi e di scoprire l’America? (si veda il film Non ci resta che piangere). Oltre a essere un gioco divertente, la storiografia controfattuale permette di impostare domande e percorrere ipotesi che servono alla ricostruzione storica vera e propria, quella dei fatti accaduti. La proposta di studiare la «storia con i se» mi  obbliga a ragionare non «con il senno di poi», sapendo già come le cose sono andate a finire, ma calandomi nell’hic et nunc: come se io mi trovassi immerso nel presente storico e dovessi calcolare le varie possibilità, esattamente come gli uomini passati di cui sto studiando le azioni, che non sapevano assolutamente «di che morte sarebbero morti». Questo procedimento mi è utile per capire che la controfattualità è anch’essa un dato storico, in quanto la possibilità esiste fino a quando non viene superata dal corso degli eventi. Le possibilità sono nelle previsioni, nelle intenzioni e nelle conseguenti azioni dei diversi attori. Azioni che, beninteso, possono addirittura arrivare a produrre dei falsi, cioè ad alterare la realtà per produrne un’altra, inserendo la controfattualità nel passato, ovvero, inventando la storia: e chi vuole avere un’idea di ciò si legga Millenovecentoottanquattro di Orwell. Il pensiero utopico ha, ovviamente, pesanti conseguenze sul fatto reale, poiché, l’ho detto e lo ripeto, percezione e invenzione sono tutte azioni storiche. Mi sono già avvicinato a questo metodo di analisi affrontando il tema degli antipapi medievali, che sono stati, alla resa dei conti, degli «altri papi» cui la fortuna non ha arriso, e che tuttavia avevano idee precise sullo sviluppo che avrebbero voluto imprimere alla Chiesa: come ho detto, un mio articolo su questo argomento uscirà tra breve. Ora ho concentrato l’analisi su un caso molto particolare occorso a Urbino, stimolato in questo dalla mia traduzione di un libro di Edward Corp che è in via di pubblicazione. Si tratta della residenza di Giacomo III Stuart e della sua corte nel Palazzo Ducale, negli anni 1717-1718.
    
       Giacomo III d'Inghilterra e VIII di Scozia       
(Giacomo Francesco Edoardo Stuart,
  'The Old Pretender' per gli Hannover)
Giacomo era il pretendente al trono d’Inghilterra, che non riuscì mai a  recuperare, e si considerava il sovrano legittimo. Sia lui che la sua corte vissero, nella piccola e gelida Urbino, in una dimensione appartata in cui si continuarono  a celebrare pubblicamente i rituali  della regalità. I cortigiani riverivano Giacomo III che, in quel piccolo mondo al contempo reale e controfattuale, era il re.
Come si può osservare, in fin dei conti la mia ricerca sulla storia, che può forse apparire non compatta, è invece abbastanza lineare, perché ruota sempre sul rapporto tra il fatto storico, il suo racconto, le sue rappresentazioni e le sue possibilità, inverate o immaginarie. Prima ho studiato i casi di due persone: Cola di Rienzo, che tentò di farsi imperatore, e Giannino di Guccio, che tentò di sedere sul trono di Francia. Poi sono passato al macroconcetto di medievalismo, sul quale si concentra il libro Medioevo militante, e ora sono alle prese con il senso – cioè con i sensi, con le molte possibili direzioni – della storia.    

-  Lei è nato e ha compiuto i suoi studi a Roma  (a parte la parentesi milanese), ma passa molto tempo a Urbino.  Al di là dell'attività professionale, che la lega evidentemente all'antica residenza di Federico da Montefeltro, c'è qualche motivo particolare per cui alterna il suo soggiorno tra Roma e Urbino ?  Secondo alcuni esperti, la capitale sta diventando un posto sempre più invivibile, a causa soprattutto del traffico e del degrado ambientale.  Qual è la sua idea al riguardo ? 


Io, insieme con diversi altri colleghi, faccio continuamente la spola tra Roma e Urbino. Conosciamo a menadito ogni metro della E45 e dell’Eugubina, sappiamo dove si mangia bene, diamo nomi bizzarri alle stazioni di servizio, ci salutiamo con i benzinai e con i baristi: praticamente siamo insieme professori e camionisti. Urbino è una città dell’anima cui sono legato da sentimenti profondi. Alterno il silenzio e l’andare a piedi per le piole di Urbino con l’urlo della capitale e il zigzagare della mia motocicletta, e questa alternanza mi piace. Roma è un inferno, ma di struggente bellezza e umanità. 

  Palazzo Ducale di Urbino
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