* di Angelo Paratico
La domanda di merce di origine orientale fu sempre fortissima già a partire dai tempi di Roma imperiale. Il dittatore romano Giulio Cesare fu il primo a indossare una toga di seta e inoltre gli storici narrano che egli donò alla sua amata Servilia, la madre di Bruto, una perla nera dei mari del sud che pagò una somma favolosa.
Per questo possiamo dire che egli fu un trend-setter e questo spinse altri romani a imitarlo. Uno dei risultati di questa passione per l’esotico che colpì i patrizi romani fu che l’argento e l’oro di Roma scorrevano verso Oriente, un drenaggio di metalli preziosi che nel corso dei secoli provocò varie crisi finanziarie. I romani, infatti, potevano solo esportare vetro, manufatti in metallo, tessuti di lana, che non bastavano per bilanciare i conti. Nerone, nell’anno 54, fu costretto a ridurre il contenuto in oro e argento delle monete romane, per cercare di limitare i danni. Gli imperatori romani organizzarono varie spedizioni in Oriente per trovare degli accordi commerciali e ovviare al problema. Si ricordano particolarmente quelle di Antonino Pio e di Marco Aurelio, i cui ambasciatori siamo certi raggiunsero la Cina. Nonostante ciò lo sbilancio perdurò e non trovò una soluzione fin quando i britannici nel XVIII secolo non cominciarono a sfruttare una merce in grado di appianare i conti: l’oppio. Pagavano i loro acquisti rivendendo lo stupefacente che coltivavano in India.
La via usata dai romani per raggiungere l’estremo Oriente era una combinata terra-mare, come diremmo oggi usando il gergo degli spedizionieri, che però fu abbandonata alla fine del II secolo d.C. e solo parzialmente usata nuovamente durante il Medioevo. Solo nel XIII secolo, grazie all’impero costruito a tempo di record dai mongoli, il più grande mai apparso sulla terra, le porte dell’Oriente si spalancarono nuovamente sulla via terrestre, oggi nota come la via della seta. Molti intrepidi mercanti, avventurieri e missionari si spinsero a est in cerca di nuove opportunità, che non furono sempre oneste, in verità. Per esempio genovesi e veneziani furono incaricati dai conquistatori mongoli di operare come loro agenti e di rivendere al miglior offerente migliaia di prigionieri che avevano catturato saccheggiando città e villaggi tedeschi, russi, polacchi e ungheresi.
La domanda di prodotti
provenienti dall’Oriente restò sempre elevata in Europa: tutti volevano avere
pepe, noce moscata, cannella, liquirizia, zenzero, mostarda, coloranti come
l’indaco, la porpora, semi di piante esotiche e da frutto e il cotone che
allora era chiamato “agnello vegetale”,
essendo sconosciuta la sua origine. Non dobbiamo dimenticare le
medicine, alle quali venivano accordate favolose proprietà curative; ci restano
molti libri scritti durante il Rinascimento nei quali questi farmaci venivano
presentati come delle panacee. La tentazione di trovare una via diretta per
procurarsi queste merci era dunque enorme.
Nel 1318, nel suo viaggio in Oriente Odorico Mattiuzzi da Pordenone (1265-1331) fece una parte del tragitto via terra, ma a Bombay s’imbarcò e raggiunse lo Sri Lanka, poi da lì, sempre per nave, raggiunse le coste meridionali della Cina, sbarcando presso Canton, per poi risalire sino a Pechino. Regnava a quel tempo un pronipote di Gengis Khan che aveva conosciuto Marco Polo. Nel suo viaggio di ritorno passò dal Tibet, entrando a Lhasa, poi proseguì per la Persia e l’Armenia, tornando sano e salvo sino al suo Friuli.
L’impero dei mongoli, alla fine del XIII secolo, con la stessa rapidità con cui era stato costruito, si disfece e sparì. Fu così che ritornarono gli intermediari commerciali arabi e persiani, e i prezzi delle mercanzie esotiche ebbero un’impennata.
Prima dei viaggi dei navigatori portoghesi, i fratelli genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi
(?-1291), vista
l’impossibilità di attraversare i paesi controllati dagli arabi, decisero di
viaggiare verso oriente circumnavigando l’Africa, anticipando Vasco da Gama e i
portoghesi di due secoli. Ottennero finanziamenti da mercanti genovesi e da
certi nobili.
Partirono nel 1291 su due galere, l’Allegranza e la Sant’Antonio,
con un equipaggio di
trecento uomini. Fecero sosta a Majorca e furono visti per
l’ultima volta davanti alle coste
del Marocco. Il loro fato resta un mistero. I
loro figli lanciarono una spedizione per cercarli,
ma non riuscirono a venire a
capo di nulla. In seguito varie leggende fiorirono su ciò che
poteva essere
accaduto e furono verosimilmente all’origine dell’ispirazione di Dante
Alighieri (1265-1321) quando nel canto XXVI dell’Inferno descrive la fine di
Ulisse.
Un gran numero d’italiani sbarcò
nel sud della Cina a partire dagli inizi del XVI secolo:
soldati, preti,
mercanti che viaggiavano per conto proprio o per conto dell’impero marittimo
portoghese che si stava estendendo sempre di più. Il grande storico inglese
C.R. Boxer
così descrive tale aggressiva crescita: “Era una mistura di
appassionata cupidigia, ferina,
inesorabile, insaziabile, combinata con uno
zelo religioso aspro, impervio, mortale, che
spinse avanti i portoghesi,
facendogli perdere ogni remora.”
Il Rinascimento pose nei cuori
dei nostri antenati un nuovo spirito, nelle loro menti nuove
idee, nelle loro
mani nuove mappe, nuove armi e nuove tecniche di navigazione e di
combattimento. Si era creato un nuovo tipo d’umanità, che la imponente
civilizzazione
cinese dei Ming, ancora ferma a un vecchio sistema feudale
basato sui tributi, non era in
grado di contrastare, anche perché aveva
proibito il commercio marittimo, dunque le vie
marittime erano sgombre. Questo
pose la Cina in una posizione assai difficile.
Paolo da Pozzo Toscanelli (1397-1482) fu un medico e filosofo fiorentino che per primo
ebbe l’idea di
navigare verso occidente per raggiungere la Cina. Nell’estate del 1474
scrisse una lettera a re Alfonso V del Portogallo e a suo figlio Joāo, della quale ci
restano
varie copie. Secondo Toby Lester, autore del libro The Fouth Part of
the World (New York
2004), questa resta “una delle più celebri lettere di
tutti i tempi”. Secondo alcuni storici,
Paolo da Pozzo Toscanelli fu in
corrispondenza anche con Cristoforo Colombo, il quale
effettivamente cercò di
raggiungere la Cina navigando verso occidente.
Nel 1459 un frate veneziano, Mauro di san Michele (?-1459), mise insieme una grande
G. F. Poggio Bracciolini |
Il fiorentino Andrea Corsali (1487-?) viene ricordato principalmente per essere stato il primo navigatore ad
aver descritto – e schizzato su di una sua celebre lettera – la costellazione della Croce del Sud, che oggi fa parte della bandiera australiana. Scrisse
alcune lettere a Giuliano de’ Medici nel 1515 per informarlo di quanto i
portoghesi andavano scoprendo in Oriente. Corsali aveva conosciuto
personalmente Leonardo Da Vinci, il quale, sia qui detto per inciso, nutriva un
vivissimo interesse per i paesi orientali, invero un interesse molto più ampio
che per il continente americano. Certe sue annotazioni lo testimoniano. La
presenza di Corsali su un vascello battente bandiera portoghese avvalora ancor
di più l’ipotesi di un diretto interesse finanziario della casata dei Medici
nelle scoperte portoghesi lungo quella che divenne poi nota come la “via delle spezie”.
Diverse sono le testimonianze che
ci sono pervenute sui primi incontri con i cinesi. Corsali
stesso, in una delle
sue famose lettere, li descrisse come persone di grande abilità e simili
portoghese Afonso de Albuquerque (1453-1515), ne rimase molto ben
impressionato e,
curiosamente, li descrisse come uomini dalla pelle chiara, con
vestiti in stile tedesco e con
calzature in stile francese. Suo padre,
Leonardo, aveva un banco di cambio e fu da lui che
Giovanni apprese l’arte del
cambio e della finanza. Entrambi furono seguaci del Savonarola
ma dopo la
caduta del frate domenicano preferirono dedicarsi solo al commercio. Nel 1502 Giovanni si trovava a Bruges, poi accettò di partire per le Indie salpando da
Lisbona per
conto dei finanzieri Gualtierotti e Frescobaldi. Compì ben tre
viaggi. Per l’ultimo partì
sempre da Lisbona il 7 aprile 1515 sulla flotta
comandata da Lobo Soares de Albergaria.
Scrisse in una sua lettera: “Hanno
discoperto la Cina… la quale è la maggior ricchezza che
sia al mondo… Son tante
le cose grandi che di là vengono, che sono stupende: che se io
non muoro, spero
innanzi che di qui mi parta, fare un salto là a vedere il Gran Cane, che è
il re, che si chiama il re di Cataio…”. Giovanni da Empoli lo possiamo definire il
primo
banchiere viaggiatore europeo della storia asiatica. Stava a fianco di
Albuquerque durante
la sua spedizione a Melaka e più avanti fu inviato a
Sumatra, dove si fermò prima di andare
in Cina. Pare che sia morto vicino a
Macao nel 1518, dunque almeno il suo desiderio di
vedere la Cina prima di
morire fu esaudito.
Benedetto Scotto (?-1640) fu un
bizzarro nobiluomo genovese che all’inizio del XVII secolo
scrisse un libro nel
quale sosteneva che fosse possibile raggiungere la Cina passando dal
Polo Nord
e poi scendendo giù dal Giappone – la linea seguita oggi da certe compagnie
aeree europee –, ma via mare era chiaramente impraticabile.
Nel suo libro lo Scotto parlò del
Continentis Australe che si trovava dopo la Nuova Guinea,
zone che a suo
dire erano gigantesche, colme di ricchezze e paragonabili al Giardino
dell’Eden. Queste informazioni potrebbe averle raccolte dalle lettere di
Corsali o da altri
esploratori. Il suo libro fu pubblicato ad Anversa nel 1618
e più tardi in Francia. Pare che la
sua vivida, pur essendo immaginaria,
descrizione delle ricchezze australi sia stata da
sprone ai navigatori olandesi
nell’esplorare l’Australia. Il primo sbarco fu compiuto
dall’olandese William
Janszoon nel 1606, ma spedizioni meglio organizzate, sempre da
parte olandese,
si ebbero solo nel 1623 e nel 1636.
Un altro sfortunato esploratore
genovese fu Paolo Centurioni (?-1525), che propose un
itinerario verso la Cina
simile a quello seguito oggi dalla ferrovia transiberiana. Poiché la via
marittima pareva un monopolio portoghese, il re britannico Enrico VIII
(1491-1547) stava
proprio progettando un tragitto simile al suo. Aveva
programmi di sviluppo tanto seri al
punto da invitare Centurioni a Londra per
discuterne, ma sfortunatamente l’intraprendente
italiano si ammalò e vi morì.
Agli inizi del Cinquecento, il
controllo dei commerci con l’Oriente fu all’origine dello scontro
tra
veneziani, arabi e persiani da un lato e portoghesi dall’altro, rei di aver
ormai preso il
sopravvento tagliando fuori tutti gli intermediari. I
mammalucchi egiziani, con il supporto
tecnico dei veneziani, avevano smontato i
loro vascelli ad Alessandria d’Egitto e li avevano
rimontati sulla riva del mar
Rosso per impiegarli contro i portoghesi. Tutti questi sforzi non
servirono a
nulla: la superiorità portoghese in termini di armamento e manovrabilità decise
lo scontro. Dom Francisco de Almeida (1450-1510) il 3 febbraio 1509 sconfisse
la flotta
musulmana a Diu, sulle coste occidentali dell’India. Quello fu
l’inizio di un annus horribilis
per Venezia. Infatti, la lega di
Cambrai, composta da tutte le maggiori potenze europee,
con l’eccezione
dell’Inghilterra e dell’Ungheria, prese le armi contro Venezia e invase il
territorio della Serenissima. Nella primavera del 1509, il 14 maggio, un
esercito composto
principalmente di soldati francesi sconfisse i veneziani, che
persero d’un colpo le città di
Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza e Padova. Le
conquiste di otto secoli andarono
perdute in un giorno, come notò con
soddisfazione Niccolò Machiavelli, che non li amava.
In seguito recuperarono un
po’ del terreno perduto, ma l’aspirazione di san Marco di essere
una potenza
europea morì quel giorno.
Vasco da Gama (1460-1524)
raggiunse Calicut nel 1498 e udì raccontare delle storie di
uomini dalla faccia
pallida, con la barba, che viaggiavano su grandi navi e che si
chiamavano Chin.
Quelle storie forse erano ciò che restava del passaggio della grande
flotta
dell’ammiraglio Zheng He (1371-1433).
Il primo incontro fra una nave
cinese e una europea dev’essere avvenuto verso il 1511 a
Malacca. Vedendo i
propri commerci in pericolo, i mercanti arabi presenti in quel porto
convinsero
il sultano di Malacca ad attaccare i portoghesi. Molti furono uccisi o
catturati ma
altri riuscirono a fuggire e tornarono con una flotta di diciotto
navi guidata dal nuovo viceré,
Afonso de Albuquerque (1453-1515), che prese
d’assalto la fortezza. I mercanti cinesi si
offrirono di aiutare i portoghesi,
ma questi rifiutarono.
per intraprendere un viaggio verso il Siam (Tailandia) e la Malesia. S’arruolò
nell’armata
portoghese divenendone un ufficiale. La sua condotta fu così
apprezzata che Francisco de
Almeida lo decorò. Descrisse il suo straordinario
viaggio in un libro intitolato Itinerario di
Ludovico di Varthema, Bolognese, che fu pubblicato nel 1510.
Descrive i suoi viaggi verso
la Terra Santa e poi verso l’Oriente. Mentre
viaggiava diretto a Chittagong condivise
l’imbarcazione con un persiano e con
due cristiani cinesi, forse dei nestoriani. Passò del
tempo a Java e a Malacca;
racconta che mentre stava a Calicut incontrò due artigiani
milanesi, che
avevano disertato i portoghesi e che poi avevano preso servizio presso il
monarca locale. Possiamo definire questo uno dei primi casi di trasferimento di tecnologia.
Era l’agosto del 1505. Queste sono le sue parole rese in italiano
moderno:
“Raggiungemmo Calicut sulla
via del ritorno, come ho scritto poco prima, vi trovammo due
cristiani che
erano milanesi. Uno si chiamava Gian Maria e l’altro Pietro Antonio, ed erano
giunti su navi dal Portogallo per comprare gioielli per conto del re. E quando
giunsero a
Cochin fuggirono a Calicut. In verità fui felicissimo di aver
incontrato questi due cristiani.
Andavamo in giro nudi, seguendo le abitudini
del luogo. Chiesi se fossero cristiani. Gian
Maria rispose: “Certo, lo siamo.”
Pietro Antonio chiese a me se fossi cristiano. Risposi: “Sì,
grazie a Dio.” Mi
prese allora per mano e mi portò nella sua casa. Quando fummo entrati
cominciammo ad abbracciarci e a baciarci, piangendo. A dir il vero non potei
parlare come
un cristiano: pareva che la mia lingua fosse ormai pesante e
impacciata, poiché per quattro
anni non avevo parlato a dei cristiani. La notte
seguente restai con loro e non fui capace né
di dormire né di mangiare per la
gran gioia. Potete immaginare che ci augurammo che
quella notte non avesse mai
fine per la reciproca contentezza, così che avremmo potuto
parlare di varie
cose, fra le quali gli chiesi se conoscessero il re di Calicut. Mi risposero
che
erano i suoi capomastri e che gli parlavano ogni giorno. Gli chiesi allora
quali fossero le loro
intenzioni. Mi dissero che ben volentieri sarebbero tornati
nella loro città, ma non sapevano
che via seguire. Gli risposi: “Tornate
seguendo la via che avete seguito per venire.” Dissero
che non era possibile,
perché erano disertori per i portoghesi e che il re di Calicut li aveva
obbligati a fabbricare un gran numero di pezzi d’artiglieria, contrariamente
alla loro volontà,
e per via di ciò non volevano rifare la stessa strada per
fuggire. Aggiunsero che si
aspettavano l’arrivo della flotta del re di
Portogallo molto presto. Gli risposi che se Dio mi
avrebbe concesso la grazia
di poter fuggire, avrei raggiunto Cananor quando la flotta vi
sarebbe giunta, e
mi sarei dato da fare per far loro avere un perdono; aggiunsi che per loro
non
era possibile prendere altra via di fuga perché era noto a tutti che sapevano produrre
pezzi d’artiglieria. Molti re avrebbero voluto averli al proprio servizio per
via della loro abilità
e perciò nessuna altra via era a loro aperta. Si noti
che avevano già prodotto circa
cinquecento bocche da fuoco, grosse e piccole, e
perciò avevano una gran paura dei
portoghesi, in verità avevano buon motivo di
temerli, perché non solo produssero dei pezzi
ma insegnarono anche a quei
pagani come produrne loro stessi e usarle, infatti aggiunsero
che avevano
insegnato a quindici servi del re come sparare le spingarde. Proprio nei giorni
in cui stavo con loro diedero a uno di questi pagani un disegno costruttivo
d’un mortaio del
peso di cento e cinquanta cantara da costruirsi in metallo.
C’era pure un ebreo che aveva
costruito un bel galeone e aveva fabbricato
quattro mortai di ferro. Il detto ebreo annegò in
un laghetto in cui si era
tuffato. Torniamo ai due cristiani: Dio sa ciò che gli dissi, esortandoli a non
mettere in pericolo la vita di altri cristiani. Pietro Antonio piangeva senza
sosta e Gian Maria
disse che per lui era lo stesso morire a Calicut o a Roma, e che gli bastava
che la volontà di Dio fosse fatta”
Ben poco si sa dei primi contatti
fra diverse civiltà. Le memorie sono poche e spesso
incomplete.
Il primo, o uno dei primi,
europei a essere sbarcato sulle coste della Cina meridionale, dopo
aver
compiuto il viaggio via mare, fu forse il portoghese di origine italiana
Raffaele
Perestrello (?–dopo 1524?). Il suo antenato, Filippone Perestrello, si
era trasferito in
Portogallo nel 1385 con la moglie, una Sforza. Vissero a
Oporto e poi a Lisbona. Sua
cugina, Filipa Moniz Perestrello, sposò Cristoforo
Colombo. Raffaele Perestrello fu inviato
in Oriente per stabilire contatti
commerciali con i cinesi. S’imbarcò su una nave diretta a
Malacca e sbarcò
sulle coste della provincia del Guangdong, nella Cina meridionale; vi
scambiò
della merce e poi ripartì. L’anno non è certo, probabilmente si trattava del
1513 o
1514, e si sa che tornò nuovamente nel 1516. I suoi rapporti molto
ottimistici sulle possibili
aperture al commercio della Cina indussero Tomé
Pires (1465–1524) e Fernăo Peres de
Andreade (?–1523) a tentare una missione
diplomatica. Questa fu un fallimento, ma nel
1521 e 1522 i commercianti
portoghesi ottennero un importante successo potendo gettare
l’ancora a Tuen Mun
(ora parte del territorio di Hong Kong) e successivamente a Macao,
una penisola
dove i portoghesi misero al riparo le proprie navi a partire dal 1535, dove nel
1557 ottennero un permesso di residenza dalle autorità cinesi. L’occupazione di
Macao da
parte del Portogallo, tacitamente accettata dalla Cina dei Ming, diede
una base stabile dalla
quale operare, non solo al Portogallo, ma anche a molti
altri paesi europei.
Tra i primi europei ad arrivare
in Cina ci fu anche il capitano portoghese Jorge Alvarez (?–
1521), che sbarcò
nel maggio 1513 da una nave birmana che aveva noleggiato, sull’isola di
Lintin.
Oggi è nota come Nei Lintin in cinese e si trova a ridosso delle acque
territoriali di
Hong Kong ma è parte della prefettura cinese di Zhuhai. La si
scorge quando si va a passeggiare sulla cima del Castle Peak, nei Nuovi Territori di Hong Kong. Non è da
escludere che in sua compagnia ci fossero anche degli italiani. L’Alvarez nel 1517 risalì il
fiume delle Perle sino a Canton e, gettando l’ancora di fronte alla città, fece una
memorabile gaffe, sparando una cannonata in segno di saluto. I cinesi si sentirono offesi da
tale affronto. Lui spiegò che era solo una forma di saluto e che le navi cinesi che aveva
incontrato a Malacca facevano lo stesso. La spiegazione peggiorò le cose agli occhi delle
autorità locali, perché i commerci privati erano stati proibiti con un editto imperiale. Inoltre il
Sultano di Malacca, che i portoghesi avevano deposto, era un leale tributario cinese.
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Macao
porta d’Oriente ecc.
Religiosi europei a Macao. Sec. XVIII. |
canossiane e i missionari del PIME.
Pechino guardò sempre a Macao e successivamente
a Hong Kong come a propaggini periferiche del suo vasto impero. Le considerava
delle escrescenze di Canton. Delle terre marginali e proprio per tale motivo
adatte a mantenere rapporti commerciali con i barbari occidentali, senza
venirne contaminati. Non a caso uno dei due ideogrammi che indicano Macao è una
porta. Vediamo ora brevemente quali furono i primi passi che portarono al
fertile contagio tra Italia e Macao, prima, e Hong Kong, poi.
L’Italia vera e propria è solo di
vent’anni più giovane di Hong Kong. Eppure se per Italia intendiamo il Paese
dove il sì suona, allora si può tranquillamente andare a ritroso, sino a
ben prima della fondazione di Macao. Siamo convinti che gli italiani sbarcati a
Macao siano stati davvero molti nel corso dei secoli. Furono perlopiù soldati,
marinai e religiosi al servizio di portoghesi e spagnoli. Parliamo anche di
Spagna perché a partire dal 1580 il Portogallo, la maggiore potenza coloniale
in Asia, passò sotto il dominio spagnolo. Purtroppo la gran parte di questi
italiani non si distinsero per opere o per azioni eroiche, e dunque i loro nomi
restano a noi sconosciuti. Conosciamo il nome dell’ammiraglio Raffaele
Perestrello, cognato di Cristoforo Colombo, del quale abbiamo già accennato qui
sopra, ma non i nomi di tutti coloro che lo accompagnarono. Oppure quello di
Francesco Carletti (1573-1636) e suo padre, Antonio, due fiorentini che nel
1598 arrivarono a Macao dal Giappone. Oggi Francesco viene ricordato come il
primo libero cittadino che compì il viaggio intorno al mondo pagandosi di volta
in volta il biglietto. Oltre che dall’incontro con la realtà locale, il loro
viaggio fu arricchito anche dall’incontro con il gesuita Alessandro Valignano.
Durante la sua permanenza, Antonio Carletti si sentì male, poi morì e fu
sepolto a Macao. Il giovane Francesco andò al porto e scorse un suo compagno di
scuola scendere da una nave. Era Orazio Neretti che arrivava da Goa. La nave su
cui viaggiava Neretti era in ritardo e così perse la coincidenza per il
Giappone. Fu una grossa fortuna perché quella nave sparì nel nulla con il suo
carico di merce e di uomini. Il Carletti, ritornato nella sua Firenze, dopo
essere stato rapinato in alto mare da una nave olandese, scrisse un libro di
gran successo con i ricordi del viaggio che compì.
Nel 1695 passò da Macao Giovanni Francesco Gemelli Careri, un nobiluomo napoletano, che stava compiendo il giro
del mondo, anche lui per puro diletto; una volta rientrato a Napoli, nel 1700,
narrò le proprie avventure in una serie di libri che incontrarono grande
successo e furono tradotti in francese e inglese. Secondo alcuni sarebbe stato
proprio lui l’inventore del turismo, in quanto il suo viaggio non ebbe scopi
commerciali, religiosi, diplomatici o militari. Dedicò ben due capitoli del suo
libro alla storia e ai commerci di Macao. Si sospetta che i gesuiti lo
scambiarono per una spia inviata segretamente dal papa e quindi fecero di tutto
per assecondare i suoi desideri. Lo accompagnarono a Pechino, facendogli
incontrare l’imperatore Kangxi, e alla Grande Muraglia. A Pechino Gemelli Careri
vide delle carte geografiche cinesi e, per errore, contribuì alla diffusione
della leggenda che narra che Matteo Ricci avrebbe collocato la Cina al centro
della sua mappa del mondo. Una cosa non vera. I diari di Gemelli Careri ebbero
una grande influenza e cento cinquant’anni dopo forse ispirarono Giulio Verne
quando scrisse il suo Giro del mondo in ottanta giorni.
Ecco
quanto annotava il 9 agosto 1695, mentre risiedeva a Macao: “Andai a vedere rappresentata una commedia
alla cinese; questa la facevano fare quelli della vicinanza per lor diporto in
mezzo a una piazzetta. Era posto un tavolato ben grande per capire 30
persone fra uomini e donne che rappresentavano; benché io non l’intendessi,
perché parlavano in lingua Mandarina, o di Corte; nondimeno alli gesti, e
maniere compresi, che rappresentavano con grazia, e abilità. Era parte in stile
recitativo, e parte cantata, accordando colla musica la varietà degli strumenti
d’ottone, e di legno, secondo l’espressione del commediante. Eran tutti vestiti
assai bene, e gli abiti erano ricchi d’oro, che mutavano ben spesso. Durò
questa commedia dieci ore, terminando con le candele; poiché finito l’atto si
pongono a mangiare i Commedianti, e spesse volte gli ascoltanti sogliono far lo
stesso”.
Nel
1784 sappiamo che passò per Macao l’ammiraglio toscano Alessandro Malaspina (1754-1810), al comando di un vascello spagnolo, la Asunción. Vi farà tappa nuovamente negli anni seguenti, prima di
cadere in disgrazia a causa di intrighi presso la corte reale di Madrid.
Carlo Vidua (1785-1830), naturalista ed esploratore nativo di Casale Monferrato,
visitò Macao nel 1829. L’anno successivo morì a causa di una frattura a una
gamba, provocata da una caduta mentre esplorava un vulcano, a Celebes,
nell’arcipelago indonesiano.
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E poi sorse Hong Kong
Mappa ridotta di Hong Kong |
Con la fondazione di Hong Kong, nel 1841, il baricentro della presenza europea in Cina si spostò: un colpo durissimo dal quale Macao non si riprese più. Hong Kong e Macao devono la loro fortuna al fatto che sono sempre stati un porto sicuro dove costituire una base per entrare in Cina e condurvi le proprie attività commerciali.
Giuseppe Garibaldi arrivò a Hong
Kong nel 1852 a bordo della sua nave battente bandiera peruviana, la Carmen. Dato che era un ricercato,
usava il falso nome di Giuseppe Pane. Fece per qualche settimana la spola fra
Macao, Hong Kong, Canton e Xiamen, prima di far ritorno in Sud America. Il suo
luogotenente, Nino Bixio, non fece in tempo a giungervi con la sua bella nave a
carbone, la Maddaloni.
Intendeva aprire un ufficio commerciale a Hong Kong e a Singapore, ma
un’epidemia di tifo lo uccise nelle isole della Sonda, nell’arcipelago malese.
Per
l’Italia la codificazione degli accordi con la Cina giunse nel 1866. I rapporti
diplomatici furono suggellati dal trattato del 26 ottobre 1866 , reso esecutivo
in Italia dopo la sua ratifica, con la legge numero 4406 del 23 maggio 1868, la
quale stabiliva, fra l’altro, all’articolo 11: “Gl’italiani possono in questi porti far commercio con chicchessia,
entrare e uscire con le proprie merci, costruire e affittare case, prendere a
censo terre, edificare chiese, ospedali e cimiteri”. Notevole
anche l’articolo 54, quello della nazione più favorita: “È espressamente stipulato che il Governo e i sudditi italiani avranno
di pieno diritto e in eguale misura tutti i privilegi, immunità e vantaggi che
sono stati o saranno concessi nell’avvenire da Sua Maestà l’Imperatore della
Cina al Governo e ai sudditi di ogni altra Nazione. Similmente, se alcuna delle
Potenze europee facesse alla Cina qualche utile concessione, la quale non fosse
pregiudizievole agli interessi del Governo o dei sudditi italiani, il Governo
di sua Maestà il Re, farebbe ogni sforzo per aderirvi”.
I
due firmatari che siglarono l’accordo a Pechino furono il comandate Vittorio Arminjon della pirofregata Magenta e
il plenipotenziario cinese Than. Fu un colpo maestro che sul piano diplomatico
pose l’Italia sullo stesso livello degli altri paesi, come la Gran Bretagna e
la Francia.
Filippo de Filippi |
L’assistente
del De Filippi, Enrico H. Giglioli, pubblicò un diario di questo viaggio, Viaggio Intorno al Globo della Regia Pirocorvetta Magenta negli anni 1865-66-67-68, che ebbe un
notevole successo. Ecco il passo che racconta l’entrata a Hong Kong: “Ad un tratto si gira una punta, il canale si
allarga, si copre di centinaia di navi di ogni forma e di ogni dimensione, e
nel fondo, invece di rupi nude e precipitose, appare una grandiosa città,
fabbricata alle falde di un’alta montagna, i cui bianchi palazzi risplendono,
riflettendo i raggi solari. Quella meravigliosa apparizione era Victoria, detta
comunemente Hong Kong, che è propriamente il nome dell’isola. La Magenta
allenta alquanto il cammino, si insinua attraverso al labirinto creato dalle
giunche e dalle navi; giunge nel luogo che sembra riservato ai bastimenti da
guerra, e dà fondo a breve distanza da terra dirimpetto all’arsenale navale.
Finite le salve, si poté ancora ammirare il bellissimo panorama di Victoria;
quella città ci rammenta Genova e un pochino Gibilterra, essendo disposta quasi
ad anfiteatro sopra una ripida pendice che scende al mare. Innanzi a noi
sorgeva il picco omonimo della città, sulla cui vetta, a 555 metri sopra il
livello del mare, è il semaforo che segna gli arrivi e le partenze; i fianchi
del monte sono affatto nudi, e le case della città si stendono lungo la sua
base e sopra le colline di forma conica che gli sorgono intorno”.
Visse
a Hong Kong uno dei più celebri fotografi del mondo, Felice Beato, un
anglo-veneziano, che aprì uno studio fotografico in Giappone, poi in Birmania.
Fu il primo fotografo di guerra mai esistito.
Le sue foto sono oggi ricercatissime e costosissime.
A
cavallo tra Ottocento e Novecento furono molti gli orientalisti di valore di
origine toscana che passarono per Hong Kong: Antelmo Severini, Carlo
Valenziani, Ludovico Nocentini, Carlo Puini e Zanoni Volpicelli, che fu
stimatissimo nostro console a Hong Kong e Macao, oltre che autore di numerosi
libri tradotti in inglese sulla guerra sino-nipponica e sulla fonetica cinese. Ecco
un ritratto di Volpicelli, che troviamo in Verso la Cina di Domenico Antonio Mazzolani, pubblicato nel
1915: “Poco dopo le dieci il
commendatore Volpicelli mi trova nel suo ufficio. Egli è sorpreso di rivedermi:
vuole sapere notizie della Libia, e in particolare della guerra: mi afferma che
la nostra conquista ci ha fatto molto bene anche in Cina, sebbene i nostri
interessi commerciali minacciano di andar sempre peggio”.
Volpicelli,
secondo Mazzolani, sembra spiaciuto dal fatto che sia stato sospeso l’attracco
di vapori italiani: “Il console
Volpicelli è un uomo pericoloso per un medico, bisogna essere sempre sul chi
vive: egli è igienista e i suoi ragionamenti richiedono attenzione. Ogni
mattina scende a piedi dalla sua abitazione situata quasi sull’ultima cima del
Peak: questo esercizio giornaliero e un regime essenzialmente vegetariano gli hanno permesso di mantenere una agilità fisica rara
per una persona della sua età. Alla fine si parla di noi. In quel momento
l’inserviente porta un biglietto da visita: è il barone de La Penna, ministro
d’Italia a Bangkok, diretto in Giappone. Il console va a incontrarlo: pare che
abbia avuto qualche fatica a ritrovare il consolato. Anche lo “stemma” è
piccolo e alquanto invecchiato: fortuna che il tricolore salva sempre la
situazione”.
Nei
primi anni del Novecento era attiva una
Italian Far East Trading Company di proprietà del signor Giulio Badolo.
Nel 1900, nel corso del viaggio verso Pechino per seguire la guerra dei Boxer,
alla quale l’Italia partecipava con cinque navi da guerra e tremilaseicento
soldati, si fermò a Hong Kong anche Luigi Barzini (1874-1947), che colse
l’occasione per salutare il nostro rappresentante consolare Volpicelli.
Interessanti sono le sue annotazioni sul numero di residenti italiani a Hong
Kong a quell’epoca, solo dodici, e sulle sue impressioni della città: “Sollevando gli occhi dallo scritto, ammiro,
attraverso alla finestra spalancata uno dei quadri più belli che mai vista
umana possa vedere. Se fosse vero quello che i poeti vogliono farci credere,
cioè che la bellezza è ispiratrice, io dovrei scrivere questa corrispondenza in
versi sovrumani. Invece non sento altra ispirazione che quella di buttar via la
carta e matita e di sprofondare negli abissi della più idiota – e, per questo,
certamente più dolce – delle contemplazioni: la contemplazione a vuoto senza
idee. Per il momento abito in un albergo sulla cima del picco di Hong Kong.
L’isola sulla quale Hong Kong è costruita, come tutte le isolette qui intorno,
è formata da un’unica montagna scoscesa e dirupata, alle cui falde, al nord,
sul mare, sorge la città. La cima del monte è l’Eden di Hong Kong, il delizioso
rifugio degli europei, che sono venuti ad appollaiarsi quassù, a parecchi metri
sul livello del caldo e della puzza. Le ville e gli alberghi vi formano una
seconda cittadina, tutta immersa in un bagno di verde e di verdura. Lo scoglio
si è cambiato in un giardino con viali che serpeggiano fra prati fioriti e fra
ciuffi di bambù e di aloe, viali che tagliano la roccia rosata come lunghe
ferite ancora sanguinanti. Intorno intorno il mare, frastagliato da scogli,
isolotti, penisolette, come un mare norvegese, si apre al disotto – grande
carta geografica al mille per mille, nel quale non mancano che i segni dei
meridiani e dei paralleli. Tramonto; è l’ora che intenerisce il cuore ai
naviganti – ma io da ieri non sono più navigante e non sento perciò alcun
effetto sul pericardio. La via per la quale sono venuto si perde di fronte a
me, lontano, al sud, fra brune infuocate. Una grande mandria di isole solleva
le groppe del mare calmo, tutto acceso di rosa. Si profilano come pezzi di uno
scenario sconfinato; le più vicine in azzurro, poi più in là in viola, poi in
grigio, poi in carnicino. Alcune strane nuvole si incendiano al tramonto; sono
strisce sottili e dritte di fuoco, spade incandescenti di arcangeli stese
sull’orizzonte. Il vento traccia sul mare mutevoli linee di cobalto. Lontano,
qualche puntino fumante – un piroscafo – sembra sospeso nella luce. Presso alla
costa numerosi sampan dalle vele gialle ad ala di pipistrello si avvicinano
alla baia. Una pace infinita, un silenzio solenne. Dall’altro lato, fra l’isola
e il continente, si apre la baia. I monti della Cina svaniscono nella nebbia
viola. Giù in Hong Kong, all’ombra del gran Picco, è già scesa la notte e la
città comincia a costellarsi di lumi. Una corona scintillante si distende in
giro alla baia. Sull’acqua, che sembra aria, le navi ancorate a centinaia, i
sampan, le giunche, i vaporini, i ferry-boat accendono i loro lumi che si
riflettono a zig-zag nell’acqua calma. Pare che un lembo di questo bel cielo
stellato sia caduto nel mare. Sono come sospeso nell’infinito. Le lampade
elettriche delle vie, degli scali, dei dock, sono le stelle fisse in mezzo alle
più deboli luci delle finestre, alle nebulose delle pallide lanterne cinesi accese a
migliaia lungo le vie. I lumicini mobili dei rickshas e delle sedie di giunco,
che i coolies portano a spalla, fanno pensare a quelle scintille che corrono a
centinaia sopra un pezzo di carta bruciata, prossima a spegnersi. Tutto questo
è sublime e basta a compensare l’amara disillusione di chi – come me –
arrivando in questo primo lembo di Cina, credeva di trovarsi in Cina. Arrivando
a Hong Kong, dopo aver visitato quei lembi di Cina mandata all’estero che sono
Penang e Singapore, si prova l’illusione di essere tornati indietro. Succede
come a quel celebre contadino – il quale prese per la prima volta un biglietto
di andata e ritorno – che, credendo di andare a “viceversa” si ritrovò nel suo
paese. Hong Kong, dal mare, somiglia a Genova. File di palazzi europei si
arrampicano sul monte, a più ordini. Vedrete dello stile inglese, dello stile
italiano, del gotico, del Rinascimento, ma non il più piccolo tetto a
barchetta, non la più umile pagoda: l’edilizia cinese è bandita”.
La
magia di Hong Kong aveva incantato pure lui, perché termina il paragrafo
dicendo: “La cortesia degli uomini
congiura con la divina bellezza del paesaggio. Io debbo aspettare qualche
giorno prima di procedere al nord. Ebbene, è la prima volta in vita mia che io
trovo che l’aspettare può essere una cosa piacevole”.
A
Macao e Hong Kong troviamo anche il toscano Guido Amedeo Vitale, che partecipò
all’assedio delle legazioni diplomatiche di Pechino durante i 55 giorni più critici
della rivolta dei Boxer (dal 20 giugno al 14 agosto del 1900). Lavorava alla
nostra ambasciata come traduttore.
Nel
tentativo di sbarcare il lunario, nel 1910 approdò a Hong Kong dall’Indocina
l’aretino Mario Appelius, fuggito da casa a quindici anni. Scrisse negli anni
seguenti vari libri di successo, nei quali idealizzò la sua vita randagia: Da
Mozzo a Scrittore; Asia Gialla:
Giava, Borneo, Indocina, Annam, Cambogia, Laos, Tonkino, Macao, Cina; La
Crisi del Buddha e via dicendo. Con la Cina aveva una certa
familiarità, essendo stato suo nonno un setaiolo comasco che a Shanghai aveva
impiantato uno dei primi setifici moderni.
Edda
Ciano Mussolini (1910-1995), il cui marito Galeazzo Ciano (1903-1944) era stato
console d’Italia a Shanghai dal 1930 al 1933, visitò varie volte Hong Kong. Si
racconta che certe sue amiche raccogliessero informazioni di valore militare
giocando a canasta con le mogli di ufficiali britannici, per poi passarle a
Roma. Per restare in ambito spionistico, sui libri di storia appare anche il
nome di un certo Gino, che giocava a biliardo all’Hong Kong Hotel, ma che era
in realtà una spia che poi passava informazioni riservate ai giapponesi. Nello
stesso hotel, un simpatico barbiere si trasformò in capitano dell’esercito
nipponico subito dopo l’invasione del 1941.
Il Conte Rosso in rotta verso Hong Kong. |
Prima
della sciagurata entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, da Hong Kong
transitarono varie navi che portarono in salvo migliaia di ebrei in fuga dai
nazisti e muniti di vista falsi. Fu il caso delle navi di lusso italiane Conte Rosso e Conte Verde, che facevano concorrenza a quelle più spartane
della P&O, collegando Genova a Shanghai, via Singapore e Hong Kong. Un
anno più tardi il consolato italiano a Canton ci aggiorna circa lo stato degli
italiani a Hong Kong: “Gli italiani sono quantitativamente pochi. La colonia si
compone di qualche commerciante di generi alimentari, di mosaicisti e camerieri
d’albergo. Non si può certo chiamare una colonia imponente per mezzi materiali
e deve considerarsi inesistente nella vita politica ed economica del paese.
Quelle che invece contano
sono le italiane e particolarmente la Missione Cattolica dell’Istituto
Pontificio di Milano che ha circa 30.000 fedeli, ha a capo un vescovo italiano
ed è fiancheggiata da suore canossiane e industriosi salesiani. La navigazione
italiana a Hong Kong occupa solo il dodicesimo posto. L’Italia esporta a Hong
Kong molto di più di quello che importava e il suo commercio, gravemente
intaccato dalle sanzioni, aveva accennato a una ripresa nel 1937. Il commercio
di esportazione italiano comprende soprattutto tessuti, seta, derrate
alimentari, cemento, mercurio, ecc. Non è probabile che un prospero futuro si
presenti a questo nostro commercio, se si deve giudicare dall’effetto che le
contingenze politiche in Cina dal 1937 a oggi hanno avuto nel commercio con
tutte le nazioni straniere”.
Anche
le navi da guerra italiane visitarono spesso la baia di Hong Kong. Vi passarono
varie volte l’incrociatore Trento,
la Colleoni, la Montecuccoli, la Carlotto, Elba, Vettor Pisani, Fieramosca,
Caboto e Lepanto. Vi
fece sosta anche la Quarto, la
nave da guerra su cui prestava servizio Benito Albino Mussolini, il figlio del
Duce e della trentina Ida Dalser.
Copertina della "Domenica del Corriere" dedicata all'impresa di De Pinedo. |
Passò per Hong Kong anche Amleto Vespa, avventuriero e spia, originario dell’Aquila.
Amleto Vespa e famiglia |
Negli
anni Trenta troviamo a Hong Kong Gennaro Pagano di Melito, che fu console d’Italia a dal 1937 al 1940. Era
stato decorato durante la prima guerra mondiale come capitano di una nave che
pattugliava il mare Adriatico e fu poi autore di vari libri che ebbero una
certa popolarità, come La Nave Pirata nel 1933, Mine e Spie e Il
Principe Marinaro nel 1934. Fu poi nominato console a Shanghai sino al
1941. Nel 1943 rifiutò di entrare nella R.S.I. e fu internato in un campo di
prigionia dai giapponesi. Morì in circostanze misteriose nel 1944 vicino a
Pechino, sempre prigioniero dei giapponesi. Suo figlio ha sempre sostenuto che
si trattò di una esecuzione.
Durante
l’occupazione giapponese di Hong Kong, dalla fine del 1941 al 1945, Macao fu
un’isola di relativa pace. Quel piccolo territorio riuscì infatti ad accogliere
ottocentomila rifugiati, fra i quali numerosi italiani, correndo rischi
estremi. A costo di grandi sacrifici, le autorità portoghesi riuscirono a
procurarsi il riso necessario per sfamarne gran parte. La situazione degli
italiani a Hong Kong durante l’occupazione giapponese, invece, fu molto
critica. Ecco quanto scrisse il console italiano a Canton il 1 agosto 1942: “Ed
è su
questo tragico quadro che va prospettata la presente situazione dei nostri
connazionali a Hong Kong: missionari e civili. Troppi, per l’avvenuto afflusso
di religiosi dall’interno, i primi; fortunatamente pochissimi – precisamente
tre, due dei quali con famiglia – i secondi. Più ancora che le difficoltà
presenti cui cercano coraggiosamente di far fronte, creano preoccupazioni le
incertezze del domani e un senso di mal celata ostilità che credono non
infondatamente di poter notare nei loro riguardi nei nuovi dominatori della
colonia [i giapponesi]. Le condizioni finanziarie della missione sono
certamente ben tristi. […] La missione non può, così almeno afferma Monsignor
Valtorta, usufruire, se non temporaneamente e a titolo di anticipo, dei fondi
ricevuti dal Vaticano giacché questi sono per espresso ordine del Pontefice da
devolversi a opere di carità e all’assistenza ai prigionieri di guerra, e non al
mantenimento della missione. Monsignor Valtorta, che ho trovato invecchiato,
deperito in salute e nervosissimo, ha adottato le più rigide misure di
economia, stabilendo come massimo per la spesa giornaliera di vitto per capita
per i suoi missionari la somma di due dollari di Hong Kong. Ma questa cifra è
assolutamente insufficiente per la stessa sola razione quotidiana di riso. In
analoghe difficoltà si trovano le suore canossiane le quali vedono con orrore
avvicinarsi il giorno in cui potrebbero trovarsi costrette a chiudere le loro
porte e abbandonare alla mercé di Dio più di quattrocento ricoverati (infermi,
ciechi e bambini). Gli unici che non mi hanno rivolto domanda di assistenza
sono i padri salesiani, il cui superiore ebbe anzi a dirmi che essi erano ‘fortunatamente
caduti su quattro zampe’. L’occupazione di qualche stabile non ha praticamente
cagionato alcun inconveniente e la saggia amministrazione per la quale il loro
ordine si distingue permette loro di affrontare serenamente e senza gravi
preoccupazioni l’attuale crisi. Quanto ai tre connazionali, Sasso Innocenzo,
Lazzeri Sinibaldo e Guerci Giacomo, essi sono riusciti a ottenere il permesso
di aprire e gestire una piccola ma decentissima trattoria, messa su accomunando
le scarse risorse liquide di cui ancora disponevano. Tirano così innanzi alla
meglio in attesa di poter riscuotere i crediti che hanno verso gli alberghi di
cui erano prima impiegati e verso le banche in cui sono depositati fondi loro
spettanti. Ma la loro situazione è critica e temo che ove i loro reclami non
abbiano una pronta soluzione bisognerà provvedere al loro trasferimento
altrove”.
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Tempi
Moderni
La seconda guerra mondiale
terminò in Italia il 29 aprile 1945, ma il Giappone firmò la resa solo il 2
settembre 1945. Mentre le forze armate britanniche ritornarono a Hong Kong per
riprendere possesso della loro vecchia colonia, i prigionieri di guerra furono
liberati e i soldati giapponesi si trasformarono in poliziotti per mantenere
l’ordine. Divennero cordialissimi e gentilissimi, sorprendendo tutti i locali
che li avevano visti comportarsi con ferocia sino a qualche giorno prima. Molta
gente tornava a Hong Kong da Macao e dalla Cina, ritrovando le proprie
proprietà distrutte, gli amici perduti o mutati profondamente dalle brutalità
belliche. Gli americani avrebbero voluto restituire Hong Kong alla Cina di
Chang Kaishek, ma i britannici non ne volevano sentire parlare. Con la
progressiva conquista della Cina da parte dei comunisti di Mao Tzetung, gli
americani non ne discussero più.
Pochi gli italiani rimasti. Uno
di questi era Oseo Acconci che aveva sofferto la fame e tanti pericoli a Macao,
ma che prese un battello e tornò a Hong Kong. Venne subito affrontato da un severo
sergente di polizia inglese che lo riconobbe. Lo chiamò, ordinando di farsi
avanti. Teneva il frustino sotto l’ascella destra e un monocolo in un occhio.
Gli pose questa strana domanda: “Acconci, sei italiano, non è vero? Se il tuo
governo ti avesse chiesto di lanciarci una bomba, tu lo avresti fatto?”. Oseo
gli rispose: “Certo che l’avrei fatto!”. Il sergente lo guardò e poi disse:
“Sei un uomo coraggioso, Acconci. Bentornato! Fate passare questo signore…”.
La vecchia colonia di Hong Kong
diede un’altra prova della sua vitalità negli anni seguenti grazie al sistema
legale creato dai britannici e all’intraprendenza dei propri cittadini. Nei
primi anni Cinquanta, con l’arrivo di nuovi capitali da Shanghai, di personale
specializzato e di industriali, Hong Kong divenne la città moderna ed
efficiente che tutti conosciamo e che attirò dall’Italia il fior fiore della
nostra intellighenzia.
S. Loren e M. Brando nella Contessa di Hong Kong |
Altri italiani hanno contribuito
alla prosperità di questa città operando nei settori più svariati, come Paolo
Borghese, figlio di Junio Valerio Borghese, che abitò a Hong Kong per vari
anni. Fu un abile ingegnere e molte delle strutture elettriche che
distribuiscono energia in questa città sono il frutto del suo lavoro. Pietro
Badoglio, nipote del generale, prima della sua prematura scomparsa lavorò a
Hong Kong nel campo dell’abbigliamento.
Nel secondo dopoguerra vari
scrittori italiani hanno lasciato la propria testimonianza scritta del loro
passaggio a Hong Kong. Come il pratese Curzio Malaparte, che proprio in Cina fu
colpito dall’acuirsi del male che lo porterà poi alla morte. Si sentì trattato
così bene dai cinesi che decise di lasciare la sua splendida villa di Capri in
eredità alla Repubblica Popolare Cinese.
Eric Vio, console generale a Hong
Kong dal 1950 al 1954, era nato nel 1910 a Fiume, allora parte dell’Impero
Austro-Ungarico. Studiò medicina a Roma e si trasferì in Giappone nel 1936,
sfruttando una borsa di studio. Nel 1937 si spostò a Shanghai, dove lavorò come
chirurgo al General Hospital. Dal 1943 al 1945 fu internato dai giapponesi
nello Shandong. Dal 1945 al 1974 operò a Hong Kong, dopodiché si spostò in
Sudafrica e poi a Taitung, Taiwan, dove lavorò al Mission Hospital. Scrisse
vari libri di poesie in italiano, inglese e tedesco. Fu anche un raffinato
collezionista di antichità orientali, e alcuni suoi pezzi sono stati
recentemente battuti da Christie’s. Sposò la celebre pianista Maria Grazia
Taddei, che visse a Hong Kong per trent’anni. Era nata nel 1918 e si è spenta a
Roma nel mese di aprile 2011.
Anche
Giuliano Bertuccioli fu console a Hong Kong dal 1953 al 1960. Fu un grande
orientalista e uno dei maggiori sinologi italiani. Parlava benissimo sia il
cinese che il giapponese. Dal 1960 al 1962 fu presidente del dipartimento
orientale della Fondazione Cini di Venezia. Scrisse un gran numero di articoli
e di libri sull’Estremo Oriente.
Hanno operato nella colonia
britannica vari corrispondenti di quotidiani nazionali come Goffredo Parise,
Sergio Moravia, Enrico Emmanuelli, che intitolò un suo libro uscito nel 1957
con quella rima La Cina è vicina, che non ci ha più lasciato, Luigi
Barzini jr., Renato Ferraro del «Corriere della Sera» e la sua affascinante
consorte, Ilario Fiore e Carmen Lasorella. Soggiornarono a Hong Kong anche Enzo
Biagi e Tiziano Terzani, autore tra molti titoli di Un indovino mi disse,
ambientato in parte a Hong Kong: lo si poteva spesso vedere seduto a un certo
tavolo del Foreign Correspondents’ Club, nella saletta a quel tempo riservata
ai non fumatori. Oriana Fallaci e Curzio Malaparte soggiornarono per brevi
periodi all’ombra del Picco.
Diversi scrittori hanno invece
scelto Hong Kong come luogo d’ambientazione delle loro opere: Ennio Flaiano
scrisse un breve racconto ambientato al Peninsula Hotel, in una notte di
tifone; lo scrittore di marineria Vittorio G. Rossi ambientò a Hong Kong un libro
di viaggio intitolato Festa delle lanterne, pubblicato nel 1960.
In previsione della fine del dominio coloniale britannico su Hong Kong e
della sua riunificazione alla Cina Popolare, nota come handover e caduta nella mezzanotte del 30 giugno 1997, si
scrisse molto in Italia a proposito, e anche a sproposito, di Hong Kong,
cercando di prevederne il futuro. Le analisi risultavano spesso influenzate
dalle vedute politiche di chi scriveva. Durante quei caotici giorni, numerosi
giornalisti italiani furono inviati nel territorio, contribuendo direttamente
alla nascita di un fenomeno che venne in seguito definito “giornalismo
paracadutato”, un’espressione scherzosa per indicare un tipo di reporting
prodotto da corrispondenti inviati in un luogo per descrivere complessi
cambiamenti storici dei quali essi stessi conoscono poco. Nel 2003 si registrò
un nuovo grande interesse verso Hong Kong: purtroppo questa volta fu per un
fatto sgradito a tutti, essendo scaturito dalla malattia polmonare virale nota
come SARS.
Grazie
alla sempre maggiore attenzione che gli italiani hanno riservato a Hong Kong,
oggi la città beneficia di istituzioni di varia natura che contribuiscono alla
sua ricchezza e a quella dei suoi abitanti italiani e non solo. La Camera di
Commercio Italiana è ormai una macchina ben oliata, che raccoglie un crescente
consenso fra i nostri connazionali, l’attuale presidente è Fabio De Rosa,
succeduto ad Angelo Pepe, Vincenzo Callà e Giovanni Orgera.
La società Dante
Alighieri, oggi presieduta da Bruno Feltracco, è un’istituzione culturale che
ha lo scopo di diffondere la lingua e la cultura italiane: attiva già negli
anni Venti, sparì con lo scoppio della seconda guerra mondiale, per riaprire
negli anni Sessanta grazie all’impegno del cav. di Gran Croce Leo Li. Il suo
patron è il cav. Richard Lee, distributore di auto Ferrari e Maserati. Nel 2013
la Dante Alighieri è stata dedicata alla memoria di Angelo Pepe (1949-2008), un
grande italiano e un uomo di rarissima generosità che ha grandemente
contribuito alla sua rinascita.
Inoltre è attiva da molti anni un’associazione che raccoglie le donne italiane, fondata e presieduta per vari anni da Anna Wong, poi da Paola Caronni Yip, da Paola de Antonellis e ora da Michela Bardotti. A partire dal mese di ottobre del 2011, il Consolato d’Italia ospita una sezione dell’Istituto Italiano di Cultura, diretto da Matteo Fazi, attivissimo nell’organizzare, assieme al consolato, un gran numero di eventi culturali, come concerti, film, seminari, spettacoli teatrali, che hanno rafforzato molto la presenza della cultura italiana in Cina. Da sei anni esiste anche una sezione del Fogolar Furlan (un’associazione che raccoglie i friulani domiciliati in varie parti del mondo), fondata da emigrati friulani e loro amici, il cui presidente è Paolo Sepulcri. Una ricorrenza ormai consolidata tra gli italiani di Hong Kong è la Festa dell’Uva, un evento che attira ogni anno un numero sempre crescente di partecipanti alla ricerca di qualche ora di buona cucina, di vino e di svago. A organizzare l’evento è stato Eligio Oggionni, che ha anche fondato la Scuola Alessandro Manzoni, presieduta attualmente da Luca Melzi e Paolo Sepulcri, che ogni sabato mattina offre lezioni a livello di scuola elementare e media.
Angelo Pepe con Giovanni Leone |
Inoltre è attiva da molti anni un’associazione che raccoglie le donne italiane, fondata e presieduta per vari anni da Anna Wong, poi da Paola Caronni Yip, da Paola de Antonellis e ora da Michela Bardotti. A partire dal mese di ottobre del 2011, il Consolato d’Italia ospita una sezione dell’Istituto Italiano di Cultura, diretto da Matteo Fazi, attivissimo nell’organizzare, assieme al consolato, un gran numero di eventi culturali, come concerti, film, seminari, spettacoli teatrali, che hanno rafforzato molto la presenza della cultura italiana in Cina. Da sei anni esiste anche una sezione del Fogolar Furlan (un’associazione che raccoglie i friulani domiciliati in varie parti del mondo), fondata da emigrati friulani e loro amici, il cui presidente è Paolo Sepulcri. Una ricorrenza ormai consolidata tra gli italiani di Hong Kong è la Festa dell’Uva, un evento che attira ogni anno un numero sempre crescente di partecipanti alla ricerca di qualche ora di buona cucina, di vino e di svago. A organizzare l’evento è stato Eligio Oggionni, che ha anche fondato la Scuola Alessandro Manzoni, presieduta attualmente da Luca Melzi e Paolo Sepulcri, che ogni sabato mattina offre lezioni a livello di scuola elementare e media.
Ricordiamo infine alcuni nomi fra
tanti. Quello di Luca Birindelli (1956-2011), pioniere, brillante avvocato e
figlio della medaglia d’oro Gino Birindelli che aprì uno studio legale a Hong Kong,
Shanghai e Pyongyang in Corea del Nord. Franco di Vajo, che abitò a Hong Kong
per vent’anni, partecipando attivamente alla vita della nostra comunità.
Roberto Paggi, un commerciante che seppe anticipare i tempi aprendo un ufficio
commerciale a Hong Kong, vide la crescita della Cina popolare quando ancora in
pochi ci credevano.
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I diplomatici italiani a Hong Kong e Macao
Per la prima volta
pubblichiamo qui di seguito una lista dei nostri rappresentati consolari, che
si sono succeduti a Hong Kong e a Macao, prima e in seguito alla fondazione del
Regno d’Italia, avvenuta nel 1861. Abbiamo evidenziato particolarmente coloro
che sono stati alle dirette dipendenze del Ministero degli Esteri. Questo
elenco è purtroppo incompleto e lacunoso, inoltre non vi figurano le cosiddette
reggenze brevi ossia quelle inferiori ad un anno. Mancano inoltre dati e certe
informazioni fondamentali; per tale motivo speriamo vivamente che in futuro
degli altri storici s’impegneranno a ricercare e a completare gli spazi da noi
lasciati vuoti. Dato che, comunque, nulla di simile è mai stato pubblicato
prima, abbiamo incluso queste informazioni nel nostro volume per via della loro
straordinaria importanza storica.
Rappresentanti del Regno
d’Italia.
1861-63: John Dent -
Console.
1863-67: Francis Chomley - Console.
1867-69: John Dent – Console.
1869-72: William Keswick - Console.
1872-75: John Samuel Gower – Console.
1875-79: Theophilus Gee
Linstead - Console.
1879-97: Domenico Musso -
Console Generale.
1886 - ?: Bernardino De
Senna Fernandes – Console onorario a Macao.
1897-99: Ugo Nervegna -
Console.
Periodo dei Diplomatici
Professionisti.
1899-19: Eugenio Zanoni
Volpicelli - Console Generale.
1919-20: Emilio Eles –
Console Generale.
1921-23: Luigi Petrucci –
Console Generale.
1923: Giuseppe Biondelli
– Reggente del Consolato.
1923-28: Stefano Carrara
– Console Generale.
1928-29: Alfredo
Baistrocchi - Console Generale
1929: Ugo Gonella e Luigi
de Dionigi – Reggenti del Consolato.
1930-31: Emilio Manfredi
- Console Generale.
1931-32: Raffaele
Ferrajolo - Reggente del Consolato.
1932-36: Alberto Bianconi
- Console Generale.
1936-37: Arturo Maffei -
Reggente del Consolato.
1937-40: Gennaro Pagano
di Melito - Reggente del Consolato.
1940-41: Herbert Ros -
Reggente del Consolato.
1942 – 1950 Il Consolato
resta chiuso
1950-54: Eric Vio –
Reggente del Consolato.
1953 – 60 Giuliano
Bertuccioli – Prima Console e poi Console Generale.
1954-56: Guido Relli -
Console Generale.
1956-59: Adalberto
Figarolo di Gropello - Console Generale.
1959-60: Filippo Muzi
Falconi - Console Generale.
Da sinistra: Mario Scelba e Piero Guadagnini. |
1960-63: Piero Guadagnini
- Console Generale.
1963-69: Luigi Bolla-
Console Generale.
1969-71: Marcello Mochi -
Console Generale.
1968 – 70 Gabriele
Menegatti - Console.
1971-76: Pio Saverio
Pignatti Morano di Custoza - Console Generale.
1972 – 75: Enrico Gerardo
de Majo - Console commerciale.
1976-80: Michelangelo
Pisani Massamormile - Console Generale.
1976 – 79: Alberto
Candilio - Console.
1979 – 82: Franco
Giordano - Console.
1980-84: Raffaele
Berlenghi - Console Generale.
1982 – 86: Alessandro
Busacca - Console.
1984-88: Gabriele
Menegatti - Console Generale.
1986 – 87: Vittorio Rocco
di Torrepadula - Console.
1988-91: Massimo
Baistrocchi - Console Generale.
1988 - 92: Federico
Failla – Console.
1991-96: Folco De Luca
Gabrielli - Console Generale.
1992 – 96: Davide La
Cecilia – Console.
1996-98: Alberto
Bradanini - Console Generale.
1996 – 00: Alfredo Conte
- Console.
1998-03: Pietro Giovanni
Donnici - Console Generale.
2001- 05: Davide Giglio –
Console.
2003 - 07: Gabriella
Meneghello - Console Generale.
2005 - 09: Marco Maria
Cerbo. Console.
2007-10: Alessandro De
Pedys - Console Generale.
2009 -: Luca Fraticelli –
Console.
2010 - 2014: Alessandra
Schiavo - Console Generale.
2013 – Sarah Negro
2014 – Antonello De Riu –
Console Generale
Rappresentanti Consolari
italiani prima della fondazione del Regno d’Italia.
Agli inizi del XIX secolo
il Regno delle due Sicilie e quello di Sardegna mantenevano dei rappresentanti
consolari sia a Canton che a Macao. Thomas Dent assunse la carica di Console
del Regno di Sardegna nel 1816. Nel 1824 il Regno delle Due Sicilie nominò come
propri rappresentanti consolari due cittadini britannici: Alexander Robertson e
Antonio G. Daniele, i quali risiedevano rispettivamente a Canton e a Macao. Si
trattava però di consoli di favore e non di consoli onorari. Questa carica
tornava loro comoda poiché gli consentiva di sottrarsi al monopolio della East
India Company. Non avevano compiti specifici, né obblighi nei confronti del
regno che gli aveva concesso tale ufficio. Si trattava, dunque, di nomine assai
vaghe che gli stessi interessati dovevano aver sollecitato presso alle corti di
Torino e di Napoli. In qualche caso la carica fu concessa come una forma di
protezione, per esempio nel 1840 fu nominato Console Sardo a Macao il
missionario svizzero della Propaganda Fide, Teodoro Joset. Questo fu fatto in
accordo con la Santa Sede, per potergli consentire di aggirare certe
restrizioni poste al suo ministero dai portoghesi, che governavano Macao.
Questa protezione consolare non gli servì a molto, giacché nel 1841 egli fu
perseguito dall’autorità coloniale quando seppero che, con un tempismo che
lascia ancora sbalorditi, la Santa Sede decise di spostare la propria sede da
Macao a Hong Kong.
A partire dal 1857 il
conte Camillo Benso di Cavour, uno dei padri del Risorgimento, decise di
rafforzare la rete consolare sabauda. Seguendo il consiglio datogli da Riccardo
Manca di Vallombrosa, che aveva appena completato un viaggio in Asia orientale:
si scartò l’idea di riaprire a Canton, ma si puntò invece su Shanghai,
affidando l’incarico ad un commerciante britannico di sete, James Hogg.
L’investitura ufficiale gli giunse solo tre anni dopo, il 31 maggio 1860. Hogg
restò in carica sino al 1868, finquando non fu inviato a Shanghai un vero
Console, Lorenzo Vignale.
Consoli di nazionalità
straniera.
John Dent, era un
amministratore della Dent & Company e fu Console del Regno d’Italia dal
1861 al 1863. La Dent & Company, assieme alla Jardine, Matheson &
Company (consoli onorari di Danimarca), e alla Russell & Company, fu uno
degli hong più potenti in Cina.
John Dent (1821 – 1892)
era il nipote di Lancelot Dent, a sua volta fratello di Edward Dent, il
fondatore dell’omonima società, dalla quale si dimise nel 1831. Lancelot Dent
fu essenzialmente un commerciante d’oppio. Oggi è ricordato dagli storici per
l’editto d’arresto spiccato contro di lui dal commissario imperiale Lin
Tse-hsu. Questo episodio giudiziario scatenò la Prima Guerra dell’Oppio.
Lancelot Dent, deve aver ispirato la figura di Tyler Brock allo scrittore James
Clavell, quando nel 1966 pubblicò per il suo celebre romanzo Taipan. Nel 1986
la De Laurentis Entarteinment ne trasse un film di gran successo, con Joan Chen
e Bryan Brown.
John Dent s’insediò a
Hong Kong a partire dal 1858, assumendo il titolo di Console del Regno Sardo.
Nel 1861, alla nascita del Regno d’Italia, ottenne automaticamente la qualifica
di Console d’Italia. Il loro quartiere generale sorgeva in prossimità
dell’attuale Gloucester Tower, in Central.
La società commerciale
Dent & Company, con uffici in tutta l’Asia, nel 1869 chiuse la propria
attività a causa di una rovinosa bancarotta, provocata dal fallimento della
banca di sconto Overend, Gurney & Company di Londra. Questa era nota come
la banca dei banchieri. I loro concorrenti della Jardine, Matheson &
Company si salvarono solo perché seppero del crack due ore prima degli altri,
grazie ad un proprio bastimento giunto con due ore d’anticipo da Calcutta.
Fecero dunque in tempo a correre in banca a ritirare tutto il proprio contante
e i loro lingotti d’argento, prima che il panico si diffondesse nella Colonia di Hong Kong. La Dent & Company cessò
l’attività a Hong Kong, ma continuò su scala minore ad operare a Shanghai.
Francis Chomley (Console
1863 – 1867) fu un dipendente della Dent & Company. Nel 1865 fu uno dei
soci fondatori dell’HSBC, la Hong Kong and Shanghai Banking Corporation
Limited.
William Keswick (Console
1869-1872) era anche lui uno scozzese, come i Dent e i Jardine. Era nato nel
1834, sua nonna era sorella di William Jardine, il fondatore della Jardine,
Matheson & Company. Nel 1870 smise di trattare oppio e dal 1874 al 1886 fu
il Taipan della Jardine Matheson e per varie volte membro del Legco di Hong
Kong. Fu un partner nella Jardine, Matheson & Company.
Theopilus Gee Linstead
(Console 1875 – 1879) fu un ex ufficiale della marina britannica. La sua lapide
tombale è ancora visibile nel cimitero protestante di Happy Valley. Operò come
associato della ditta Hoggs & Company, il cui fondatore aveva rappresentato
l’Italia a Shanghai. Fu anche un convinto membro della massoneria e raggiunse
la carica di Gran Maestro Distrettuale. La Loggia Massonica di Hong Kong, oggi
ancora attiva in Kennedy Road N.1, ma si trovava a quel tempo in Zetland Road,
Mid Levels.
* Questo testo è la versione modificata di un saggio già apparso nel volume Cinque secoli di italiani a Hong Kong e Macao. 1513-2013, a cura del Consolato Generale d'Italia a Hong Kong e Macao, Brioschi Editore, Milano 2014, pp.584, 25,00 €.
Angelo Paratico, Eugenio Zanoni Volpicelli – An Italian Sir Edmund Backhouse? , ""Beyond Thirty-nine", 9-10-13.
Angelo Paratico, L'uomo che tradusse in cinese Dante e Beccaria, "Corriere della sera" , 16-04-14 (Blog 'La nostra storia'). [Ancora su Zanoni Volpicelli.]
Angelo Paratico, Eugenio Zanoni Volpicelli – Did he publish a book on the Philippines? ,
"Beyond Thirty-nine", 14-12-14.
Placido Zurla, Marco Polo e degli altri viaggiatori veneziani più illustri, Fuchs Editore, Venezia 1819.