di A. Lalomia
Sono passati poco più di due anni dalle celebrazioni del 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia e il dibattito su quel periodo, anziché placarsi, è diventato, se possibile, ancora più virulento.
Per la verità, le polemiche sono nate ben prima della ricorrenza 1 , ma hanno raggiunto negli ultimi mesi toni da
vera e propria crociata, tra quanti, pur tra
i necessari distinguo, sono pro e quanti, invece, considerano quel periodo
come una delle pagine più buie della storia d’Italia. Basti vedere le reazioni che hanno innescato
e continuano ad
innescare, su alcuni siti, articoli e saggi relativi al Regno delle Due Sicilie e a quel periodo storico. 2
Per non parlare della valanga di commenti alla presentazione su “Storia in rete”, del libro di Juri Bossuto e Luca Costanzo, (ovviamente
piemontesi, vedremo oltre il perché di questa precisazione), Le catene dei Savoia, con l’introduzione
di Alessandro Barbero.
Ma a provocare una vera e propria sollevazione di
scudi a favore del
Regno delle Due Sicilie è stato senza dubbio il volume di Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, visto il prestigio dello storico e la sua
autorevolezza a livello internazionale. Le reazioni sono scattate ancor prima della comparsa del volume nelle librerie. La storia del Nord che ha liberato il Sud per assicurargli libertà e prosperità, sottraendolo all’oppressione, all’ignoranza, alla povertà, al divieto di stampa senza censura preventiva, di espressione, di manifestazione, di riunione, sarebbe, secondo i revisionisti, soltanto una favola, una menzogna costruita ad arte dai vincitori, perché il Regno delle Due Sicilie era più ricco, meglio amministrato e più liberale del Piemonte (e a questo punto non si capisce allora per quale motivo decine di migliaia di intellettuali, professionisti, nobili, borghesi e gente comune abbiano deciso di abbandonare il Regno delle Due Sicilie e di andare in esilio in Piemonte, rinunciando alle ‘libertà’ e al benessere che i Borbone assicuravano loro).
La ‘leggenda nera’ di Fenestrelle, a ben vedere, è una di quella vicende che fanno capire quanto poco sopiti siano, ancora oggi, gli animi di coloro i quali ritengono che l’Unità sia stata una guerra coloniale del Nord -e nello specifico di Casa Savoia- contro il Sud, presentato appunto come il più ricco, il più moderno, il più forte militarmente, il più liberale tra tutti gli stati italiani pre-unitari. Dopo l’unificazione, sostengono i revisionisti, questo stesso Sud diventa terra conquistata, con tutti gli orrori e le nefandezze che una guerra coloniale comporta. E ai vinti, continuano, non rimaneva altra scelta che diventare briganti o emigrare.
Una vecchia e brutta storia, lamentano gli anti-unitari, che per molto tempo si è cercato di
nascondere e di cancellare dalla memoria collettiva (e vedremo oltre che consistenza abbiano simili affermazioni). Fenestrelle si è trasformata così, in alcuni ambienti nostalgici, nell’icona del dramma di un intero popolo, schiacciato dalla violenza e dall’avidità del Piemonte. L’ Auschwitz del Sud, insomma.
Ma da chi sarebbe stato ordito -sembra lecito chiedersi- questo progetto di genocidio e comunque di sterminio sistematico ? Da Vittorio Emanuele II ? Ma se molti storici sono concordi nel ritenere piuttosto modeste, per non dire insignificanti, le sue capacità ? Per non parlare della tesi secondo cui egli non era neanche figlio di Carlo Alberto 3 .
Oppure sarebbe stato Cavour ? E per quale motivo ? Da buon liberista, il conte era interessato a creare un florido mercato interno, che evidentemente ha bisogno di manodopera e di consumatori. Ma se si eliminano intere popolazioni, chi lavora nei campi e in fabbrica ? chi compra i prodotti del Nord ? È curioso, poi, che gli anti-unitari non citino mai i massacri contro le stesse popolazioni napoletane -non parliamo delle stragi che commettevano in Sicilia- ad opera di quel medesimo esercito borbonico di cui adesso tessono le lodi e ricordano i martiri. 4
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In realtà, le tesi dei revisionisti, anche se esposte in
buona fede e talvolta con un
impeto che rivela un forte coinvolgimento emotivo, presentano alcuni limiti:
a. non costituiscono una novità, perché le
polemiche sul Risorgimento, sull’intero
processo unitario (“guerra di annessione da parte dei Savoia”), sugli episodi ignobili che sono stati perpetrati a danno delle genti
del Sud nella lotta contro il brigantaggio, si conoscevano da decenni (addirittura dall’indomani dell’Unità), ed esiste una
bibliografia che lo conferma, ma che conferma anche che non si è trattato certo
di un piano studiato a tavolino per liquidare un’intera razza. Gli psicopatici che hanno ordinato l’uccisione
di decine di civili innocenti e inermi, o la distruzione di interi paesi, sono
sempre esistiti e d’altra parte non costituiscono una prerogativa italiana (oltre che delle cannonate di Bava
Beccaris, vogliamo parlare anche dell’eccidio di Amritsar ?).
b. Spesso non sono
sufficientemente documentate (le note
servono proprio a questo e a volte rappresentano le parti più importanti di un’opera,
soprattutto storica);
c. sono evidenti delle contraddizioni;
d. sembrano elaborate soprattutto per i napoletani, perché pongono questa
città al centro di tutto, trascurando quasi le profonde differenze che esistevano
ed esistono ancora oggi tra diverse aree del Meridione e della stessa
Campania;
e. dimenticano che il Sud, anche se durante la repressione del brigantaggio
è stato trattato in modo tendenzialmente ostile (ma con eccezioni non trascurabili),
comunque, per limitarci all’Italia repubblicana, ha ricevuto massicci aiuti
dallo Stato, a partire dalla Cassa
del Mezzogiorno. Inoltre, parecchi
meridionali hanno fatto parte di diversi governi e ben quattro presidenze della
Repubblica sono state affidate a napoletani 5 .
f. In troppi casi, i siti
filo-borbonici e anti-unitari sono violentemente antisemiti e negano addirittura
l’esistenza della Shoah. Questo forse è l’aspetto più inquietante.
Cerchiamo di esaminare subito un po’ più a fondo alcuni di questi punti.
Per quanto riguarda l’assenza di un supporto documentario alle loro
tesi, vorrei citare almeno il brigantaggio e l’emigrazione, che secondo loro
sarebbero nati dopo l’Unità.
In realtà, esistevano già prima.
Circa il brigantaggio, Renata De Lorenzo, nel suo recentissimo Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno Editrice, Roma 2013, € 13,00 -con Prefazione di Alessandro Barbero- spiega lucidamente quanto fosse virulento
questo fenomeno durante il Regno dei
Borbone. 6 Per inciso, come ha sottolineato
Barbero, l’azione di contrasto al
brigantaggio vedeva coinvolti sia l’esercito regolare (che comunque, a quella data, comprendeva anche
giovani del Sud, in particolare napoletani), sia
militi della Guardia Nazionale, reclutata proprio nei luoghi interessati dal
brigantaggio.
Sull’emigrazione, si può dire che aumentò, dagli
Anni Settanta circa del
XIX secolo, per una serie di fattori: ciclo economico di recessione nel periodo
1873-96, e poi, verso la fine dell’Ottocento, a causa di una
maggiore pressione demografica (favorita
da migliori condizioni igieniche e dai progressi in campo medico, che ridussero
soprattutto la mortalità
infantile), non compensata da opportunità di lavoro 7 ; grazie alle nuove applicazioni tecnologiche
nel settore della navigazione; e infine in
virtù dell’accresciuta richiesta di
manodopera che proveniva dai mercati del lavoro europei ed
extraeuropei e a promesse di donazione di terre da coltivare a chiunque si fosse insediato nel paese (fu il caso, ad esempio, dell’Argentina). È curioso che i
revisionisti non ricordino mai che il picco dell’emigrazione italiana si
raggiunse proprio durante l’età giolittiana
8 - vale a dire nel periodo più
felice dell’Italia liberale- perché proprio in quel decennio l’economia di
molti paesi -a partire dagli Stati
Uniti- si trovava in pieno ciclo
economico di espansione (1897-1914). Oltre a questo, non mi sembra scientificamente
corretto sostenere, come fanno i revisionisti, che l’emigrazione sia stato un fenomeno che ha riguardato esclusivamente (o
quasi esclusivamente) le regioni del Sud, e in particolare la
Campania. Come Barbero ricorda puntualmente, a lasciare
l’Italia per altre mete sono state anche popolazioni del Nord, a partire
proprio dai piemontesi, seguiti dai veneti. Basta dare un’occhiata in rete per
rendersi conto delle tante associazioni che, soprattutto nelle Americhe,
tengono vivo il ricordo delle
origini piemontese e veneta. 9
E passiamo alle contraddizioni.
I revisionisti prima dicono che le vittime del "genocidio" da parte del Nord nei confronti dei meridionali e soprattutto dei napoletani sarebbero centinaia di migliaia, se non addirittura milioni (tesi smentita da Barbero nell’intervista, presentando documentazione, questa sì, inoppugnabile); poi però aggiungono che, per esempio la Legge Pica, introdotta per combattere il brigantaggio, vietava, in diversi casi, di annotare il numero dei caduti sotto il fuoco dei soldati dell’esercito italiano (che, lo ricordo ancora una volta, comprendeva anche militari meridionali, e soprattutto napoletani). Ma allora, se non si posseggono dati, come si fa ad affermare che le vittime dello "sterminio sistematico" sono state centinaia di migliaia, o addirittura milioni ? Non mi sembra un modo corretto di ragionare. Inoltre, da un lato, quando parlano dei "massacri" di meridionali tra il 1860 e il 1865 (e magari oltre), non esitano a citare la Shoah e chiedono addirittura l’istituzione di una giornata della memoria; dall’altro, però, parecchi dei loro siti non solo risultano ferocemente antisemiti, ma negano che la Shoah si sia mai verificata, trattandosi, a loro giudizio, di un’invenzione della "propaganda massonico-sionista", di un "cinico complotto ebraico e della cricca massonica" (la massoneria non manca quasi mai nei discorsi dei revisionisti), nel tipico frutto della "perfidia della lobby giudaico-massonica, guidata dalla banda Rothschild", che da tempo immemorabile terrebbe il mondo in
pugno (evidentemente, I Protocolli dei Savi Anziani di Sion
rappresentano una delle letture preferite di certi nostalgici, malgrado che da decenni ne
sia stata confermata l’assoluta falsità).
10
Mi auguro di non attirarmi una querela se faccio notare che questa ‘comunanza di
interessi’, non giova certo all’immagine
e alle finalità di
quanti, in buona fede e animati da un sincero spirito di attaccamento alla
propria storia, sostengono il primato del Regno delle Due Sicilie e sottolineano i danni che il Sud avrebbe
subito con l’unificazione. 11
Ma c’è dell’altro.
Ma c’è dell’altro.
Trovo singolare il fatto che i revisionisti condannino
i Savoia per i soprusi e le vessazioni contro il Sud, considerandola una
dinastia di massacratori, e poi venerino quasi
(ma v. oltre) Francesco II
(1859-61), che era figlio di Ferdinando II e della prima moglie Maria
Cristina di Savoia, la quale a sua volta era figlia di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna dal 1802 al 1821, quando abdicò
a favore del fratello Carlo Felice (che a causa della sua assenza affidò la
reggenza a
Carlo Alberto). Paradossalmente, anzi, Francesco II è
stato l’ultimo Savoia d.o.c., a differenza di Vittorio Emanuele II, appartenente al
ramo collaterale dei Savoia-Carignano
(ammesso che fosse veramente figlio di Carlo Alberto…). Francesco II, in
definitiva, sarebbe
il cugino di
quel Vittorio Emanuele II che i nostalgici
considerano il
mandante del "genocidio" dei meridionali. È
curioso che questo particolare non emerga mai nei discorsi dei
revisionisti. Forse perché è imbarazzante ?
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Il più illustre rappresentante dei revisionisti, e cioè Gennaro De Crescenzo, è uno
studioso che difende con appassionato vigore le sue idee e dimostra di
essere disposto al contraddittorio, anche se talvolta usa
categorie di pensiero e un linguaggio francamente inaccettabili (le violenze contro i meridionali messe sullo
stesso piano della Shoah: anche lui) e fornisce cifre, su quello che chiama il genocidio
dei meridionali, che, lo ripeto, non sono supportate da prove. Egli
per la verità sostiene di essere in possesso di documentazione
a sostegno delle sue tesi, ma non si capisce per quale motivo, allora,
non la pubblichi e non la
metta a disposizione degli altri studiosi.
De Crescenzo lo nega, ma a me sembra che buona parte
delle sue argomentazioni siano finalizzate proprio alla creazione del mito di
quella che Barbero
ha chiamato ‘Borbonia felix’ 12 , un mix di Utopia
di T. More e di Eldorado di Voltaire, in cui gli
abitanti vivevano negli agi, tranquillamente e rispettati dal sovrano e dai
suoi uomini. Con tutto il rispetto per
lo studioso napoletano, a me pare che questo
scenario, a parte il fatto che ignora -o
non prende in
considerazione-, la circostanza che la Sicilia, a causa della sua ‘riottosità’ a sottomettersi ai diktat dei Borbone (e non per nulla i siciliani erano
esentati dal servizio militare), era mantenuta praticamente in stato
d’assedio, non tenga conto dei numerosi esuli duo-siciliani che avevano scelto
proprio Torino come meta del loro peregrinare, nella certezza che, comunque, lì
avrebbero potuto realizzare quello
che era loro negato in patria:
ossia, esprimersi liberamente, soprattutto dopo l’introduzione dello Statuto,
che, ancorché carta ottriata, rappresentava pur sempre
qualcosa di infinitamente meglio rispetto all’assolutismo partenopeo, al
dispotismo e ai capricci di un monarca, Ferdinando II, ricordato immancabilmente (e a ragione) come 'il re bomba' 13 . Lo stato borbonico viene disegnato come un'isola di 'felici e contenti', il paese dell'utopia, appunto. Immagine suggestiva, certo, ma non corrispondente alla realtà. 14 -------------------------------------
Così come mi sembra improponibile la tesi secondo cui gli Italiani (perché, loro non si considerano Italiani ?) dovrebbero chiedere ogni giorno scusa al Sud e in particolare ai napoletani per quello che hanno fatto prima e soprattutto dopo l'Unità. Al di là del fatto che in diversi casi le scuse sono state già presentate, se si dovesse accettare questa logica, noi oggi dovremmo pretendere dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra quantomeno scuse solenni e ripetute per i bombardamenti aerei che hanno effettuato durante la seconda guerra mondiale, incursioni che troppe volte hanno colpito la popolazione civile, inerme e indifesa 15 . Dobbiamo obbligare il Presidente Obama a scusarsi ufficialmente per questi azioni di puro terrorismo (visto che non avevano alcuna finalità bellica) ? Non scherziamo, per favore.
Alcuni
revisionisti, inoltre, secondo me esagerano quando si
compiacciono di far parte addirittura della Commissione Cultura del “Parlamento delle Due Sicilie”, un organo che non mi pare sia contemplato dalla
nostra Costituzione. Se
in questo modo vogliono far vedere ai leghisti
-i quali blaterano di "nazione padana",
di "governo del nord" e amenità simili-,
che anche al Sud sono capaci di fantasia
e di spiritosaggini, è un conto; ma se credono davvero
nella validità di tali ‘istituzioni’ (a
proposito: ma dove si trovano, chi li ha eletti e quali
funzioni ritengono di avere questi parlamentari ?), dovrebbero rivedere attentamente la loro
scelta, anche per non esporsi al rischio di violare la Costituzione. La quale, per inciso -e sono certo che i revisionisti non lo
ignorano- precisa a chiare lettere
che l’unico punto della Carta che non potrà mai essere modificato è quello
dell’assetto istituzionale: l’Italia è e
dovrà rimanere una Repubblica. Non c’è
spazio, quindi, per sogni di restaurazione monarchica, né sotto la bandiera dei
Savoia, né sotto la bandiera (che
devo riconoscere più bella) dei Borbone
(anche la musica dell’ inno, di G. Paisiello, a onor del vero, è più suggestiva) . 16
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Al di
là di tutto, comunque, resta l’esigenza di ripensare ancora il nostro
Risorgimento (“ancora”, perché come ricorda Barbero, il Risorgimento, e
soprattutto l’unificazione, sono stati sottoposti a critiche sin dal 17 marzo 1861), di rivedere ciò che veramente sono state certe figure carismatiche, di scoprire, in particolare, a mio avviso, che cosa si nascondeva dietro
splendide vittorie militari (la corruzione
–e comunque le promesse che avevano ricevuto da Torino- certi generali borbonici ?).
Ma per far questo, è necessario che si accetti una buona volta
l’idea di una memoria
condivisa, che ha unito regioni e popoli d’Italia che
comunque, al di là di parlate e di tradizioni diverse, appartengono ad un’unica
stirpe. È giusto condannare con forza i torti che certe popolazioni hanno subito con l’Unità; è giusto chiedere, anche, un qualche atto simbolico da parte delle autorità ufficiali nei confronti di quelle comunità che ne sono state vittime 17 ; ma è anche giusto non dimenticarsi mai che certe tesi possono produrre effetti devastanti in una coscienza collettiva già piuttosto indifferente all’Unità, qual è quella italiana.
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Per finire, vorrei osservare che un dato sembra emergere con particolare vigore da questa polemica: e cioè che la Storia va riscritta continuamente, perché gli archivi, più si aprono e più costringono a rivedere certezze e a riformulare idee che fino a poco tempo prima erano state presentate come indiscutibili. 18
Per finire, vorrei osservare che un dato sembra emergere con particolare vigore da questa polemica: e cioè che la Storia va riscritta continuamente, perché gli archivi, più si aprono e più costringono a rivedere certezze e a riformulare idee che fino a poco tempo prima erano state presentate come indiscutibili. 18
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Note
Ma le denunce sulle efferatezze (più o meno reali) compiute dall’esercito italiano nella lotta al brigantaggio, come scrivo sopra, sono di antica data (decenni e decenni), per cui risulta quantomeno curiosa l’affermazione di taluni revisionisti che in passato nessuno abbia mai sollevato la questione. Non è così, e un’ennesima prova al riguardo è stata fornita proprio da Barbero nel corso dell’incontro –dedicato al brigantaggio e alla questione meridionale- svoltosi a Gorizia, nell’ambito del Festival Internazionale di Storia (“èstoria”: 24-26 maggio 2013. Alle imprudenti affermazioni di P. Aprile circa il silenzio che avrebbe avvolto per decenni -e che continuerebbe ad avvolgere- il tema della repressione del brigantaggio, con il suo calvario di orrori, Barbero ha risposto mostrando il libro di Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1969 (ulteriori edizioni nel 1979 e nel 2005; se ne dà notizia anche nel sito www.brigantaggiolibri.it), da cui ha estratto alcuni punti dove si citavano proprio le rappresaglie compiute dall’esercito italiano (insisto: “italiano”, non piemontese, come continuano a ripetere certi revisionisti), in particolare quella di Pontelandolfo, nei confronti della popolazione civile per stroncare il brigantaggio. Barbero ha poi proseguito ricordando che già Gramsci ed altri intellettuali prima di lui avevano condannato le zone d’ombra del Risorgimento, le sue occasioni mancate, i suoi fallimenti, ma inquadrando il discorso in una prospettiva ideologica, di incapacità delle classi dirigenti italiane di rispondere alle aspettative del Paese. D’altronde, vorrei aggiungere, già nel 1964 era uscito, presso Feltrinelli, il libro di Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità.
L'incontro di Gorizia era moderato dal bravo vice-direttore del TG1 Gennaro Sangiuliano, il quale, pur essendo napoletano d.o.c., ha sottolineato, giustamente, che il modo in cui si è realizzata l’unificazione non può rappresentare, per il Sud, un alibi per spiegare la sua arretratezza rispetto al Nord. Comunque, ha aggiunto, questo stesso Nord -e più in generale il Paese- hanno ampiamente ripagato gli oltraggi e le nefandezze compiute nel periodo post-unitario, e in proposito ha citato la numerosa rappresentanza di politici e intellettuali meridionali nei governi della Repubblica -ma io risalirei ad epoche precedenti (un solo nome: Giovanni Gentile) e aggiungerei anche la Presidenza della Repubblica (cfr. la nota n. 5)-. Infine, vorrei ricordare le montagne di denaro pubblico che sono state riversate al Sud, e soprattutto in Campania, per favorirne lo sviluppo. Ancora si deve fare uno studio approfondito di quanto sia costata, al Paese, la Cassa per il Mezzogiorno. Se queste immense risorse messe a disposizione del Sud non sono riuscite, secondo Aprile e altri, a risollevarne l’economia, la ragione dovrebbe essere ricercata al Sud stesso, non in altre parti d’Italia. Tornando all’incontro, vorrei concludere che Aprile, il quale appunto continua a sostenere la tesi che dei massacri non si è mai parlato, poteva comunque evitare, per far ‘conoscere’ questi massacri al pubblico in sala, di soffermarsi su particolari raccapriccianti, da tregenda, inutili sul versante storico e disdicevoli su quello dello stile personale, vista tra l’altro la presenza in sala di molte signore
Purtroppo, non è la prima volta che Aprile usa un approccio che indugia su certi dettagli. Non si capisce peraltro per quale motivo lo stesso, quando Barbero ha ricordato che ad opporsi al brigantaggio non c’era solo l’esercito italiano, ma anche la Guardia Nazionale, composta da gente del luogo, abbia usato il termine “ascari”, in segno di evidente disprezzo. Come al solito, i primi ad essere razzisti sono proprio coloro i quali accusano gli altri di trattarli in modo razzista.
2 Un esempio per tutti: quasi settanta
commenti, seguiti alla recensione di Mario Avagliano, del libro di Antonella
Orefice, Termoli e Casacalenda nel 1799. Stragi dimenticate. (Arte Tipografica Editrice, pp. 101, €
12,00), apparsa prima sul “Mattino”
del 14 giugno 2013 e riprodotta lo stesso giorno sul suo blog, con il titolo Quei massacri ordinati dai Borbone. La virulenza che contraddistingue certi
commenti lascia sconcertati: vi si
propongono, con una leggerezza senza parole, cifre apocalittiche sui "massacri" perpetrati dai giacobini a danno della popolazione napoletana (e non soltanto dei realisti) durante la rivoluzione del 1799. Questa tendenza ad ingigantire
oltre ogni limite della fantasia le cifre, purtroppo rappresenta una costante di alcuni
‘nostalgici’. Sulla Orefice, direttrice
del prestigioso “Nuovo Monitore Napoletano”, cfr. le seguenti interviste dello scorso anno sulla Repubblica napoletana del 1799 e più in generale sulla sua attività.
3 E a supporto di questa tesi si citano le profonde
differenze somatiche, di
intelligenza, di cultura e di stile -la
regina Vittoria rimase inorridita dal modo di stare a tavola
di Vittorio Emanuele II- tra i due.
4 Basti pensare, appunto, alle reazioni che
ha suscitato, pochi mesi fa, la pubblicazione
dell’articolo di Mario Avagliano, di cui ho parlato sopra.
5 Enrico De Nicola: Capo Provvisorio dello
Stato dal giugno 1946 al dicembre 1947 e dal 1° gennaio all’11 maggio 1948
Presidente della Repubblica, come previsto dalla prima delle Disposizioni transitorie e finali della Costituzione; Giovanni
Leone, dal 1971 al 1978; Giorgio
Napolitano, dal 2006 a oggi, unico caso di presidente rieletto. Tutti napoletani d.o.c. . Nessun’altra città italiana ha espresso un numero così consistente di
Presidenti della Repubblica.
6 Vorrei soltanto aggiungere che il più famoso brigante di questo
periodo, Carmine Crocco, nel 1852 aveva disertato dall’esercito borbonico -dove prestava il servizio militare- e aveva formato una sua banda, assieme ad
altri elementi. Alla fine venne arrestato,
ma nel 1859 evase e si unì a Garibaldi. Deluso dal generale, tornò
all’antico mestiere, sostenuto dai mezzi forniti dai Borbone. Venne arrestato di nuovo nel 1864, ma anziché
essere giustiziato sul posto (in base a quanto stabiliva la Legge
Pica), fu condannato all’ergastolo, da scontare nell’isola d’Elba, dove
scomparve nel 1905, per cause naturali. A
questo punto sorge spontanea una domanda:
se al nemico numero uno del nuovo Stato italiano viene risparmiata la
fucilazione e se questo stesso nemico numero uno sopravvive in carcere per altri quarant’anni,
come si fa ad affermare che i massacrati furono centinaia di migliaia o
addirittura milioni? Come si fa a classificare come inumane le condizioni in cui erano detenuti ? Non solo.
Forse non tutti sanno, per passare ad un altro brigante di prim’ordine,
che il comune di Villa Castelli (in
provincia di Brindisi), nel 2010 ha dedicato una strada a Pasquale Domenico Romano
(detto "Sergente Romano", ma più famoso con un altro soprannome, decisamente
truce), un ex graduato borbonico macchiatosi di numerosi
delitti e ucciso in uno scontro a fuoco con la Guardia Nazionale nel 1863). Sul sito del
suddetto comune di Villa Castelli, nella pagina riservata alla storia del paese, si può leggere quanto segue: “A questa
situazione di disagio economico, sociale e amministrativo [prima dell’Unità], in quel periodo si
aggiunse anche il fenomeno del brigantaggio, che da qualche anno imperversava
in tutto il Meridione d’Italia, caratterizzandosi come forma
di insurrezione popolare contro l’invasione sabauda.” Non una parola sugli atti di delinquenza
gratuita commessi dai briganti per finalità ben diverse dalla restaurazione
borbonica. Vale la pena aggiungere che al "Sergente Romano" sono stati
eretti cippi funerari e lapidi nei
luoghi in cui ha combattuto. Questo
tanto per chiarire, ancora una volta, che fatti ed
episodi del brigantaggio sono noti da tempo immemorabile, e le prove sono alla
luce del sole. Per chi le vuol vedere,
ovviamente. Non si può dire,
altrettanto, purtroppo, quanto a notorietà, dei massacri che in passato hanno
visto coinvolte comunità italiane nelle colonie, o in quelle che erano state
colonie. Quanti dei revisionisti sanno,
ad esempio, che cosa accadde a Mogadiscio l’11 gennaio
1948 ?
7 Il lavoro al Sud mancava a causa
dell’arretratezza economica ereditata dai Borbone e del
sistema prevalente di conduzione dei campi, cioè il latifondo. Quando si parla del Sud in questo periodo storico, è necessario
citare almeno l’indagine condotta da Leopoldo Franchetti
tra il 1873 e il 1874, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, Tipografia della Gazzetta
d’Italia, Firenze 1875, uno studio abbastanza eloquente sullo stato di
quelle regioni al momento dell’unificazione. Vorrei riportare almeno l’incipit del suddetto lavoro, tanto per chiarire ancora una
volta quali fossero le condizioni effettive (non quelle di qualche storico di corte, alla De
Vito, o dell’ agiografo di turno) di
quelle terre: “Sono già quattordici anni
che le province meridionali fanno parte del Regno d’Italia […] . Ad
eccezione di poche città, vi trovammo un popolo confinato in un
paese mezzo selvaggio, racchiuso nei suoi luridi borghi e nei campi
circostanti, senza strade per allontanarsene, ignorante e laborioso; diretto da
preti poco più civili di lui, e da signori, una parte dei quali ignoranti
quanto lui, ma più corrotti; i buoni, o
in galera o sorvegliati, o cacciati
[corsivo mio]; segregati tutti dal resto d’Italia e d’Europa da un sistema
di proibizioni commerciali, di passaporti e di esclusione di libri;
nell’amministrazione, una corruzione svergognata. […]”
Mi sembra inutile ricordare
che Franchetti fu giustamente critico sul modo in cui venivano risolti i
problemi del Sud ereditati dai Borbone, denunciando clientelismo, sprechi,
malgoverno, profitti illeciti e infiltrazioni lobbistiche. (D’altronde, che fosse una delle voci più
impavidamente critiche della cattiva amministrazione, emerse a proposito
dell’indagine sulla Terni, in cui accusò senza mezze parole l’intreccio di interessi e di accordi nascosti che
legava politici e ambienti ministeriali all’industria siderurgica e bellica.) E ritengo altrettanto superfluo aggiungere
che lo studioso livornese era di antica e prestigiosa famiglia ebraica (anche se la sua fede doveva fare i conti con
il suo libero pensiero) e che nel 1909
venne nominato senatore da Vittorio Emanuele III .
8 Forse perché anche Giolitti era piemontese
?
9 Quanto fosse imponente l’emigrazione piemontese nel mondo, lo testimonia
questa nota del portale www.argentina.it . “Le terre migliori e più fertili erano state acquisite
da emigrati svizzeri e tedeschi ma, a partire dal 1856, con la fondazione della
colonia italiana di Esperanza in un periodo di tempo di trent'anni nacquero
circa altre cento colonie agricole che raggruppavano quasi ottantamila coloni
provenienti per la maggior parte dal Piemonte e dalla Lombardia dai nomi
inconfutabilmente "italiani". Esperanza nel 1856, Emilia nel 1868,
Cavour nel 1869, Nuova Italia nel 1872, Vercelli nel 1873, Torino nel 1876 sono
alcune tra le colonie agricole italiane nate con molto successo in quel periodo.
Piemontesi e Lombardi. Le autorità argentine ed anche osservatori di altre nazionalità interessati ai problemi agricoli dell'Argentina espressero giudizi decisamente positivi sui lavoratori agricoli provenienti dalla Lombardia e dal Piemonte, ma in generale anche per gli altri italiani provenienti dalle regioni del Nord in quanto li giudicavano instancabili al lavoro, dotati di eccellenti costumi e, con particolare riferimento ai piemontesi, di una sobrietà proverbiale.".
Qualche altro dato:
“Furono oltre due milioni i piemontesi
che emigrarono tra il 1870 e il 1970, e sono attualmente oltre sei i milioni di piemontesi ed oriundi
piemontesi (figli e nipoti dei piemontesi emigrati) che vivono all’estero. Questi sono i
dati forniti dall’Osservatorio regionale in occasione della prima Conferenza dei Piemontesi
nel Mondo tenutasi al Lingotto di Torino nel novembre 1999, incontro che ha visto la
partecipazione dei delegati delle 190 Associazioni dei Piemontesi nel Mondo. Piemontesi e Lombardi. Le autorità argentine ed anche osservatori di altre nazionalità interessati ai problemi agricoli dell'Argentina espressero giudizi decisamente positivi sui lavoratori agricoli provenienti dalla Lombardia e dal Piemonte, ma in generale anche per gli altri italiani provenienti dalle regioni del Nord in quanto li giudicavano instancabili al lavoro, dotati di eccellenti costumi e, con particolare riferimento ai piemontesi, di una sobrietà proverbiale.".
L’Argentina vanta il maggior numero di piemontesi, pari a tre milioni, che sono residenti in particolare nelle province di Cordoba, Santa Fè, Mendoza e Buenos Aires. Seguono Brasile e Stati Uniti con 700 mila piemontesi ciascuno; in Brasile i piemontesi hanno scelto in prevalenza le città di San Paolo e Belo Horizonte mentre negli USA i piemontesi sono in maggioranza in California, a Chicago e a New York. In Europa oltre mezzo milione risiede in Francia. Seguono la Spagna con 200 mila presenze (Madrid e Barcellona), Inghilterra (Londra) e Germania (città del sud). In Australia sono oltre 300 mila e 200 mila in Venezuela, 150 mila in Cile e 100 mila in Uruguay. Presenze piemontesi minori si rilevano in Canada (30.000) e in altri paesi." (Giancarlo Libert, La millenaria storia dell’emigrazione piemontese: un approccio biografico .) La presenza piemontese in Argentina è così massiccia che molti comuni della regione Piemonte sono gemellati con una località argentina, dove risiedono parenti dei residenti. E d’altronde, l’attuale Pontefice non discende forse da una famiglia emigrata in Argentina dall’astigiano, dopo una parentesi a Torino ? (Per inciso, l’’emigrazione piemontese ha origini ben più antiche di quelle napoletane o di altre regioni, risalendo addirittura al Medioevo.)
A
fronte di queste testimonianze (più che
attendibili, direi), non so come si possa continuare a sostenere
pedissequamente la tesi secondo cui l’emigrazione italiana è rappresentata soltanto o quasi esclusivamente dai meridionali, e
soprattutto dai
napoletani. Giocare con la fantasia può
anche fruttare qualche consenso in più, ma non credo che l’autorevolezza se ne
giovi.
Tra le associazioni, vorrei indicare almeno l’ Associazione piemontesi nel mondo, il cui sito riporta un poderoso elenco di
comunità piemontesi presenti in buona parte del globo, con una netta prevalenza
proprio in Argentina .
10 Per una breve rassegna di quanti coniugano
il revisionismo anti-unitario ad una virulenta propaganda contro gli ebrei (alla D. Irving o alla D. Cole, per
intenderci), si vedano ad esempio questo blog e questo sito. Esistono anche pagine Facebook: v. ad esempio qui e qui (in quest'ultima si dice che persino la bandiera dell’ONU è un simbolo della "mafia talmudico-massonica" e del potere dei Rothschild e di Rockefeller, che la Chiesa sarebbe
praticamente complice degli "aguzzini rothschildiani"). Come prova del 'diabolico disegno giudaico-massonico di dominare il mondo', viene usato anche il Diario di Anna Frank.
praticamente complice degli "aguzzini rothschildiani"). Come prova del 'diabolico disegno giudaico-massonico di dominare il mondo', viene usato anche il Diario di Anna Frank.
11 Vorrei citare almeno Gigi Di Fiore, uno degli storici
revisionisti più sensibili, ed
equilibrati. Il garbo e la
disponibilità al confronto di Di Fiore, sono il segno evidente che, senza
mettere in discussione lo stato unitario o coltivare nostalgie venate talvolta
di opportunismo, si possano e si debbano affrontare, in modo anche più deciso di
quanto non sia stato già fatto, taluni episodi ignobili e certe scelte indifendibili del
processo unitario e soprattutto dello scenario post-unitario. (A ben vedere, I vecchi e i giovani, di L. Pirandello,
si muovono proprio in questa direzione: quanto a severità di giudizi
sul ‘modo di fare l’Italia’ e di affrontare i
problemi nati dall’unificazione, Pirandello ha poco da imparare.) Per inciso, tanto per sfatare la
bugia di quei revisionisti i quali dichiarano che per loro
non c’è spazio nei media e in particolare nella grande editoria, vorrei ricordare che una delle opere più
importanti di Di Fiore, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combattè per i Borbone di Napoli. è stata pubblicata nel 2004 dalla Utet, che,
com’è noto, ha sede a Torino. Ma per i
tipi della Utet, sono apparsi altri testi di questo A. . Evidentemente, l’ostracismo di cui parlano certi anti-unitari,
non esiste.
12 Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno Editrice, Roma 2013, €
13,00 -con Prefazione di Alessandro Barbero-, lo
ricordo, è il titolo
di un recente saggio di Renata De Lorenzo. Qui e qui due
video in cui De Lorenzo ed altri denunciano lo stato di
estremo degrado in cui si trova Piazza del Plebiscito a Napoli (orribilmente sfregiata, tra l’altro, dai
graffiti dei mentecatti), e soprattutto la parte che ospita la Società Napoletana di Storia Patria, di cui è presidente. I
locali della Società -e l’eccezionale patrimonio documentario
che conserva- sono a rischio di distruzione,
a causa in particolare delle infiltrazioni d’acqua. Trovo
curioso che De Crescenzo, così attaccato alle sue origini, non metta al servizio di
questa buona causa, e più in generale a sostegno del progetto di riqualificazione
urbana di una città oltraggiata dall’inettitudine e da interessi non propriamente virtuosi di
certi politici e amministratori locali, la sua arte oratoria e il suo talento,
anziché impegnarsi anima e corpo in un’opera di revisione storiografica il cui
obiettivo di fondo è quello di far credere che dopo il 1861 il Regno delle Due Sicilie (il più prospero e liberale, secondo lui,
dell’Italia pre-unitaria),
sarebbe stato ridotto in schiavitù, sarebbe diventato una specie di campo profughi. Come dimostra tra l’altro De Lorenzo nel
primo video segnalato sopra, non è così, e lo testimonia proprio il fervore
intellettuale di cui Napoli ha dato prova negli anni successivi il 1861, un
fervore di cui la nascita della Società Napoletana di Storia Patria,
nel 1875, costituisce uno dei momenti più qualificanti.
13 A Ferdinando II De Crescenzo ha dedicato un volume, in
cui considera le accuse contro questo re come una vendetta dei vincitori, il
segno palese della volontà di fargli pagare la ferma resistenza al complotto
ordito dalla massoneria europea per impadronirsi del Regno di Napoli; una
persona onesta e un patriota, insomma, colpevole soltanto di amare la sua terra
e il suo popolo e di difenderlo dalle mire imperialistiche delle grandi potenze.
Ancora una volta, viene chiamata in causa la massoneria. È interessante notare che la tesi del
complotto massonico è rifiutata anche in certi ambienti della massoneria
stessa, i quali d’altra parte ci tengono ‘a mantenere le distanze’ con i protagonisti del Risorgimento e sono
anche loro convinti che l’Unità sia stata una
guerra di conquista che ha rovinato il Sud.
De Crescenzo lo scorso anno ha pubblicato un libro dal titolo eloquente (I peggiori 150 anni della nostra storia. L’unificazione come origine del sottosviluppo del Sud. 2012), su cui temo di non poter concordare.
De Crescenzo lo scorso anno ha pubblicato un libro dal titolo eloquente (I peggiori 150 anni della nostra storia. L’unificazione come origine del sottosviluppo del Sud. 2012), su cui temo di non poter concordare.
Su un punto, comunque, credo che De
Crescenzo abbia ragione: ed è quando difende la memoria di Francesco II, perché
su questa figura (re suo malgrado, un po’ come Luigi
XVI, ma dal temperamento più sensibile e tormentato del monarca francese),
andrebbero forse rivisti certi giudizi sbrigativi, che liquidano la sua persona
come un soggetto insignificante, inetto, crudele proprio perché stupido. Una
specie di Luigi XVI, appunto, o di Nicola II Romanov (ante litteram). Quando mai, nella Storia, un re
fugge dalla sua reggia, dalla sua città
(Napoli) per risparmiare agli abitanti gli orrori
dell’assedio e per di più si porta dietro ben poco delle ricchezze di
famiglia e sue ? Quando mai un monarca si trasferisce in una località insignificante di un altro paese (l’impero
austro-ungarico), dove conduce per anni, nell’anonimato, un’esistenza quasi da
piccolo borghese (attese le modeste
-per un re- disponibilità
finanziarie a sua disposizione) ? Francesco II è diventato il capro espiatorio di una dinastia che ha
annoverato personaggi indegni di stima
(basti pensare ai
massacri contro i siciliani ordinati dal padre), forcaioli che meriterebbero di comparire davanti ad un
Tribunale Internazionale, che ha pagato per colpe non sue. Come spesso accade nella Storia, sono proprio i più miti e indulgenti -e forse
fatalisti (qual era appunto Francesco
II)- ad essere considerati dei carnefici.
14 E d’altronde, la storia dei piemontesi che
vogliono deportare una parte dei prigionieri
napoletani in Argentina, fa il paio con quella di Ferdinando II che dopo il
tentato regicidio nei suoi confronti da parte di Argesilao Milano (8-12-1856), cercò
di stipulare appunto con l’Argentina una convenzione per deportare nel Rio de la Plata i detenuti
politici rinchiusi nelle carceri napoletane, togliendo così acqua al mulino dei critici
stranieri (in particolare inglesi), che giudicavano quelle carceri peggio che
inumane. Inoltre, c’è qualcosa che non quadra nell’immagine
idilliaca di un re -Ferdinando II- che sarebbe venerato dai suoi sudditi. Se era così, come mai la sua guardia
personale era
composta soprattutto da mercenari svizzeri ?
15 Pochi sanno, ad esempio, che parecchi
bombardamenti aerei di città italiane da parte degli Stati Uniti (in cui peraltro andarono distrutte migliaia e migliaia di abitazioni civili, per
non parlare dei luoghi di culto -la
Basilica di S. Lorenzo, a Roma, rasa al suolo durante l’attacco contro l’omonimo quartiere-, e degli
ospedali) erano accompagnati da
mitragliamenti dei caccia di scorta, che colpivano indiscriminatamente, e
ferocemente, tutti quei poveri disgraziati che non erano riusciti a raggiungere
un rifugio. La moglie di una delle vittime
delle Fosse Ardeatine (Michele Bolgia,
medaglia d’oro alla memoria per gli atti di eroismo a favore dei deportati
da parte dei tedeschi) è stata uccisa
proprio durante uno di
questi mitragliamenti. Una delle pagine più tragiche, questa delle
vittime innocenti delle incursioni aeree su Roma, che aspetta ancora di essere
ricostruita pienamente.
16 D’altra parte, a creare una certa confusione tra repubblica e monarchia,
a volte sono gli stessi vertici dello Stato, sia pure involontariamente. In tal
senso, la frase del Presidente della Repubblica, che durante le cerimonie del 2
giugno 2011, alla
presenza di numerosi capi di stato stranieri, dichiarò di essere felice di
averli lì per celebrare, in quel
giorno -il 2 giugno- il 150 °
anniversario dell’Unità d’Italia, non
rappresenta purtroppo una frase molto opportuna. Un lapsus, certo, ma un lapsus che certi revisionisti hanno subito
utilizzato per ricamare ipotesi fantasiose.
Per tornare in Italia, vorrei osservare che le scuse ufficiali a comunità oltraggiate dalla violenza di alcuni reparti dell’esercito italiano (che comprendeva, lo ripeto ancora una volta, anche meridionali) e della Guardia Nazionale locale, nella lotta al brigantaggio, sono state già fatte, ed è curioso che i revisionisti non lo ricordino quasi mai. Basti pensare alle parole che Giuliano Amato, Presidente del Comitato dei Garanti per le Celebrazioni del 150 ° dell’Unità d’Italia, pronunciò il 14 agosto 2011, in rappresentanza del Presidente della Repubblica: “Vi chiedo scusa, a nome della Repubblica Italiana, per l’eccidio di Pontelandolfo”. Scuse ufficiali sono state presentate in quell’occasione anche da Achille Variati, sindaco di Vicenza, città del comandante dei bersaglieri Pier Eleonoro Negri, che il 14 agosto 1861 guidò il massacro di 400 civili inermi (compresi i sacerdoti) e la distruzione dell’intero paese, e dagli stessi bersaglieri. L’ordine era partito dal medesimo Cialdini come rappresaglia per l’uccisione di quarantacinque militari italiani avvenuta l'11 agosto 1861 giorno a Casalduni e di alcuni cittadini di Pontelandolfo, ad opera di una banda di briganti guidati dall’ex capitano borbonico Cosimo Giordano (una delle tante conferme che i briganti provenivano anche dalle fila del disciolto esercito borbonico) a cui si erano aggregati dei giovani di Pontelandolfo stesso. Sembra comunque che Negri abbia eseguito l’ordine in modo estensivo, andando oltre quanto aveva prescritto Cialdini, che in ogni caso ha responsabilità gravissime. (Su questa strage -e sulle sue origini- ci sarebbe da scrivere a lungo, anche perché Cosimo Giordano, a dispetto dei suoi legami con i legittimisti borbonici -dai quali riceveva finanziamenti generosi- commise atti classificabili come delinquenziali allo stato puro, che poco avevano a che vedere con la causa borbonica e con "la lotta all’invasore piemontese". Arrestato nel 1882, dopo ben due anni di processo -e aveva una fedina penale lunga un km-, venne condannato nel 1884 ai lavori forzati a vita, conclusisi nel 1888, quando passò a miglior vita per cause naturali.) Tengo comunque a ricordare che Gigi Di Fiore (a conferma della sua onestà intellettuale) precisa che nel dicembre 1861 il deputato milanese Giuseppe Ferrari denunciò alla Camera l’episodio di Pontelandolfo. (Per la verità, Ferrari, da buon milanese e da autentico federalista, nel corso della sua azione parlamentare si levò più volte contro la piemontesizzazione dell’Italia –era fortemente indignato per la decisione di Vittorio Emanuele di continuare a farsi chiamare “II”- e il centralismo oppressivo imposto dai Savoia.) Ancora una prova, insomma, che certi crimini erano noti sin dal 1861, appunto, che non c’è stata alcuna volontà di rimuoverli o di occultarli, come sostengono i revisionisti più fanatici. Per non parlare di quanto è avvenuto, ad esempio, nel mondo musicale. Nel 1972, il gruppo rock "Stormy Six" compose un LP dal titolo "L’Unità", con canzoni volte a far conoscere le pagine più ingloriose del Risorgimento. Una di queste canzoni era dedicata proprio al massacro del paese in provincia di Benevento, strage di cui viene ricostruita la genesi (le uccisioni di civili e di bersaglieri avvenute nei giorni precedenti, un dato che i revisionisti dimenticano sempre: i quarantacinque bersaglieri che arrivarono in paese dopo gli omicidi del giorno prima, si presentarono sventolando fazzoletti bianchi, in segno di pace, ma furono ugualmente massacrati (e in modo particolarmente efferato). Un
video con questa canzone è stato caricato su youtube nel 2007 –quindi non ieri- proprio dall’Associazione Due Sicilie. Non solo: un’altra canzone, Sciopero , sempre nello stesso LP, rievoca la repressione dello sciopero del 1863, ad opera di soldati italiani chiamati dal direttore degli stabilimenti di Pietrarsa (uno dei pochissimi siti industriali di eccellenza a Napoli), ma per motivi ben diversi, e analoghi a quelli delle tante centinaia di scioperi che si sono verificati in Italia nel periodo liberale (e che venivano duramente repressi dalle truppe, fino a quando Giolitti non decise di cambiare metodo), con un numero di vittime spesso superiore a quello dell’officina di Portici, cinque). Qui il testo scritto della canzone su Pontelandolfo. Mi sembra inutile ricordare che una canzone ha un impatto, in molte memorie individuali, e in particolare sugli studenti, assai più incisivo di un manuale scolastico. Centinaia di migliaia di allievi italiani hanno ascoltato quella canzone, molti di loro l’hanno imparata a memoria, e non sembra azzardato affermare che da ciò sia nato il legittimo desiderio di conoscere meglio l’episodio. E stiamo parlando dei primi Anni Settanta, quando molti revisionisti non erano ancora nati. Per non citare poi la novella Libertà, di Giovanni Verga, che continua ad essere letta in tutte le scuole italiane da decenni e decenni e che ha ispirato il film Bronte. Cronaca di un massacro., trasmesso in TV più volte e che si può tranquillamente vedere gratis sul web. La pellicola, del 1972, è stata successivamente restaurata e negli ultimi tempi ha riavuto un’ulteriore fortuna. (La novella e il film, comunque, si prestano anche a una dura condanna delle condizioni contadine sotto i Borbone.). Nessuna censura, nessun oblio. Come si fa, quindi, a ripetere, come un disco inceppato, che fino a pochi anni fa nessuno conosceva questi fatti ? Un’ultima annotazione. Quando sopra ho scritto che sull’episodio di Pontelandolfo ci sarebbe da scrivere a lungo, mi riferivo anche a quello che ha detto Arrigo Petacco durante il Festival di Storia del 24-6 maggio 2013 già citato, circa lo scempio che i briganti (o presunti tali, aggiungerei io) facevano dei corpi dei bersaglieri uccisi. È un’affermazione importante, perché, al di là dell’ovvia, doverosa, pesante e irrevocabile condanna per il comportamento bestiale di Negri (che tra l’altro sembra che abbia costretto alcuni dei suoi uomini a commettere le atrocità minacciandoli di farli fucilare), certe reazioni vanno inquadrate in un contesto ben definito, con tutti i tasselli al loro posto (come hanno fatto, appunto, gli “Stormy Six”). Altrimenti, si fa soltanto propaganda.
18 Si pensi soltanto alla vicenda dell’assassinio di Lincoln, per limitarci
ad un caso coevo. John Booth, ufficialmente ucciso dai soldati dell’Unitone poco
tempo dopo l’omicidio, secondo altri, invece, sarebbe partito per l’India, dove sarebbe rimasto fino agli Anni
Settanta dell’Ottocento, quando cioè sarebbe passato a miglior vita per cause
naturali.
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“Nell’Italia di oggi, almeno quando si
parla del passato, le menzogne più grossolane
si trasformano facilmente in verità per tanta gente in buona fede.” (Alessandro Barbero, dall’introduzione.)
[…] uno dei nostri problemi
è la scarsa comunicazione tra la ricerca scientifica e l’opinione pubblica: per me è vitale che la gente non ascolti solo una
campana, e soprattutto si
abitui a verificare la credibilità e la scientificità di quel che le viene
raccontato. (Alessandro Barbero).
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1. In un articolo apparso sulla “Stampa” il
21-10-12 (Ma Fenestrelle non fu come Auschwitz), lei ricostruisce la genesi del libro,
facendola partire da una mostra documentaria sui 150 anni dell’Unità. Possiamo descrivere brevemente le tappe di
questa idea e in
quanto tempo l’ha realizzata ? E
inoltre: considerato che il corpus principale
delle sue ricerche e delle sue pubblicazioni
riguarda la storia medievale, con qualche incursione nella storia moderna (Federico Il Grande, Lepanto, Waterloo), che cosa
l’ha spinta ad
occuparsi di un argomento che fa parte
sì della storia moderna, ma di una storia moderna che a quanto pare non è
ancora ben metabolizzata (quantomeno in
certi ambienti di nostalgici) e i cui segni
-non sempre pacifici e
colloquiali- si ritrovano nella realtà
quotidiana ? Il fatto di voler smentire
certe affermazioni molto impegnative di giornalisti e storici meridionali
secondo cui a Fenestrelle, così come in altre fortezze del Nord, siano stati deportati -e in gran parte trucidati o
lasciati perire a causa delle malattie e degli
stenti- decine di migliaia (se non addirittura centinaia di migliaia) di prigionieri borbonici ? La volontà (o l’intenzione) di
dimostrare l’inconsistenza e la falsità della tesi secondo cui il Sud sarebbe stato trattato (quantomeno tra il 1860 e il 1865) come terra di conquista dalle truppe con la
bandiera dei Savoia (che comunque non
erano soltanto piemontesi, come continuano a ripetere alcuni revisionisti,
dimenticando che nelle Forze
Armate del Regno d’Italia confluirono interi reggimenti degli eserciti pre-unitari
) ?
Il
motivo per cui ho fatto questa ricerca e scritto questo libro è molto semplice.
In occasione dei 150 anni, e della mostra di cui sopra, ho scoperto quanto
fosse diffusa la tesi del genocidio di Fenestrelle, di cui prima non avevo mai
sentito parlare. Avendo accennato in televisione al documento che mi aveva
colpito in mostra (e cioè la condanna, da parte di un tribunale civile, di
alcuni soldati di origine meridionale che nel 1862 si trovavano a Fenestrelle, e
che "per diritto di camorra" avevano preteso il pizzo dai compagni
che giocavano a soldi) ho ricevuto una valanga di insulti da sconosciuti, che
mi accusavano di infangare la memoria dei martiri. Ho risposto a tutti, e con
alcuni ho avviato un dialogo. A questo punto mi sono reso conto che, per quanto
improbabile mi potesse sembrare la storia dello sterminio di Fenestrelle, in
realtà non sapevo nulla di cos'era davvero accaduto; non potevo quindi
discuterne nel merito. Allora ho deciso di fare il mio mestiere, cioè di
studiare l'argomento sulle fonti, e di accertare cos'era successo davvero. Il
fatto che questo comportasse uno sforamento, diciamo così, dal mio terreno di
competenza istituzionale, che è la storia medievale, non mi ha preoccupato:
credo che quasi tutti i miei colleghi siano d'accordo che le grandi partizioni
della storia sono del tutto artificiali, e che se ciascuno di noi è obbligato
per ragioni istituzionali (di concorsi, cattedre e carriere) a specializzarsi
in un periodo, questo non significa affatto che non possa costruirsi una
competenza sufficiente per esplorare anche periodi diversi. In questo caso,
poi, si trattava di studiare comunque un tema di storia militare, un ambito in
cui lavoro da molto tempo anche al di fuori del periodo medievale.
2. Ha
incontrato difficoltà nel reperimento del materiale, in particolare per
quanto riguarda l’accesso a documentazione ancora non catalogata ? E inoltre: ritiene che il funzionamento degli archivi storici italiani (almeno di quelli a cui lei si è
rivolto per le sue ricerche) corrisponda
alle aspettative degli studiosi (per
esempio: orari di apertura delle sedi; riproducibilità dei documenti; organizzazione e assistenza da parte di
personale qualificato) o non abbia bisogno di qualche ritocco, in particolare sotto il
profilo del
potenziamento dell’organico ?
3. Nel corso delle ricerche per la realizzazione del libro, si è imbattuto in
documenti falsi e comunque non sufficientemente attendibili ?
Documenti
in senso stretto, no. La documentazione d'archivio che ho utilizzato è composta
sostanzialmente da corrispondenza interna, specchi e relazioni e circolari e
prospetti ministeriali, tutta roba prodotta dalla burocrazia militare a fini di
funzionamento ordinario e dove è improbabile che s'infilino documenti falsi.
Chiaro, poi, che se il furiere dichiara di aver distribuito cento paia di
scarpe, e invece ne ha imboscate una parte, be', questo è sempre capitato e
bisogna tenerne conto: in tutto ciò che riguarda il rancio, il vestiario e
altre forniture militari bisogna essere molto prudenti prima di credere che la
realtà corrisponda ai documenti, non solo nel 1860 ma, temo, anche oggi! Se
parliamo invece di fonti in senso più ampio, io ho utilizzato la stampa
dell'epoca, e quando si usa una fonte come quella, è chiaro che bisogna essere
preparati all'inattendibilità: gli articoli di giornale possono essere usati
solo in modo limitato per ricostruire i fatti, sono invece interessantissimi
per studiare le opinioni e la propaganda (una lezione non sempre ricordata dai
neoborbonici che hanno basato la leggenda dei maltrattamenti a Fenestrelle
esclusivamente su uno o due articoli di giornali di parte, oggi ripetuti
all'infinito in innumerevoli siti).
4. Qual è stata la recensione che considera
più pertinente rispetto al contenuto del libro, e quale,
invece, quella che giudica meno appropriata ?
(Mi riferisco ovviamente a recensioni che rispettano, quantomeno, le più
elementari regole del vivere civile, senza ricorrere a insulti, a ingiurie e a falsità.)
Non
ho ancora veduto recensioni accademiche, le uniche veramente importanti. Le
recensioni sui giornali sono gratificanti sul momento, ma lasciano il tempo che
trovano e si dimenticano subito. Andando a rivederle, ne trovo comunque una
particolarmente buona di Valerio Castronovo sul Sole 24 Ore, e una invece molto discutibile di Gigi Di Fiore sul Mattino; Di Fiore è persona civile e
simpatica con cui ho poi avuto un piacevole dibattito pubblico a Torino, ma la
recensione era sgradevole, basata sul partito preso e non su quello che ho
scritto e dimostrato nel libro, e conteneva accuse false e fuorvianti (cosa che
posso dimostrare citando testualmente i passi in questione, se a qualcuno mai
dovesse interessare).
5. Qual è stata la presentazione del volume
che ritiene più gratificante, soprattutto per l’attenzione mostrata dal
pubblico e per la qualità delle
domande che le sono state rivolte ?
Quella
che ho fatto in una scuola superiore pugliese, in un'aula magna strapiena di
studenti, seguita da una raffica di domande serie e appassionate; ricorderò
sempre quella di una studentessa che ha preso il microfono e molto civilmente
mi ha chiesto: "Perché dovremmo crederle?". Ho visto qualche insegnante
trasalire, come se fosse stata una scortesia; invece era una domanda
bellissima, la più giusta in quelle circostanze, e risponderle è stato
estremamente costruttivo anche per me.
6. Ci sono state presentazioni nelle scuole superiori ? E inoltre: le risulta che il libro sia stato già acquistato da alcune biblioteche scolastiche ?
Vedi sopra; degli acquisti non so.
7. In
alcuni ambienti di nostalgici, la sua opera ha suscitato un vespaio di polemiche -talvolta strumentali e capziose e in parte
ingigantite dai media-, polemiche che
non accennano a placarsi. Basti pensare
ai numerosissimi interventi apparsi sul portale della Laterza. Si aspettava una reazione così
“furibonda”, come la definisce giustamente lei,
al suo libro ? Alcune
di queste critiche sono scomposte e rabbiose: offese e attacchi personali di
una virulenza inaudita, con metodi francamente deplorevoli, come quello di
usare immagini di deportati ebrei nei lager nazisti (salvo poi negare la Shoah),
spacciandoli per prigionieri di Fenestrelle. Le critiche indecorose sono state compensate
però da giudizi lusinghieri degli storici neutrali e comunque non di parte. Possiamo
ricostruire i punti principali di questa discordia e cercare di chiarire per quale motivo si
tratta di polemiche che, a ben vedere, non hanno ragion d’essere e sembrano
condizionate da forti sentimenti regionalistici ? E preliminarmente: possiamo chiarire il significato di
quel termine “congiura” , che compare
nel sottotitolo ?
Sì,
mi aspettavo una reazione furibonda, non perché il libro volesse essere
provocatorio, ma perché so per esperienza diretta che basta sfiorare questi
argomenti dissociandosi anche solo un poco dal coro neoborbonico per attirarsi
violentissimi insulti; è capitato a me come ad altri studiosi, ad esempio la
ricercatrice napoletana Antonella Orefice.
La
"congiura di Fenestrelle" del titolo in realtà è un episodio storico.
E' l'idea bislacca di un gruppo di soldati del Regio esercito italiano, di
origine meridionale, in parte ex-soldati dell'esercito delle Due Sicilie, che erano
stati trasferiti per punizione disciplinare al reparto dei Cacciatori Franchi
di stanza a Fenestrelle. Costoro chiacchierando fra loro formularono l'ipotesi
di impadronirsi del forte coll'aiuto dei nuovi coscritti meridionali, ex
briganti ed ex sbandati, che erano appena arrivati a Fenestrelle (siamo
nell'agosto 1861) per ricevere la prima istruzione. La scoperta del "complotto"
fece molto rumore sui giornali, per qualche giorno; dieci fra sottufficiali e soldati
vennero processati colla gravissima imputazione di attentato alla sicurezza
dello stato, e pochi mesi dopo furono tutti assolti perché il fatto non
sussisteva. Su numerosi siti internet la congiura è ricordata con aggiunta di
particolari fantastici,
punizioni tremende, fucilazioni e palle al piede, tutti dettagli totalmente inventati.
8. Il
suo libro è uscito pochi mesi dopo quello di Bossuto-Costanzo, Le catene dei Savoia, che peraltro reca
una sua prefazione. Quali sono le differenze più rilevanti tra questo testo
e la sua opera ? Vogliamo disegnare una breve scheda sui reclusi di
Fenestrelle, in gran parte prigionieri borbonici dopo la presa di Gaeta, di
Capua, di Messina e di Civitella del Tronto ? Quanti erano esattamente ? Quanti di loro erano napoletani e quanti, invece, appartenevano ad altre regioni del
Sud ?
Qual era l’età media ? Erano
tutti di leva, o si trovavano anche dei volontari ? Quanti di loro accettarono di entrare nel nuovo esercito italiano e quanti, invece, si rifiutarono ? Quanti non uscirono vivi da quella fortezza
? Bossuto-Costanzo indicano una cifra attorno ai 40. Lei è più ottimista,
abbassando di molto il numero.
Il
libro di Bossuto e Costanzo è una ricerca, tratta da una tesi di laurea, sul
sistema penale dello stato sabaudo nel Sette-Ottocento, che contiene anche un
capitolo, molto interessante, sul ruolo di Fenestrelle come luogo di reclusione,
bagno penale e caserma. Il mio è un lavoro diverso, interamente dedicato al
trattamento dei prigionieri di guerra napoletani durante la guerra del 1860-61,
e alla successiva incorporazione nell'esercito italiano degli ex-soldati del
regno delle Due Sicilie.
I
meridionali detenuti come prigionieri di guerra a Fenestrelle sono stati
esattamente 1186, e vi sono rimasti circa tre settimane nel novembre 1860 (va
sottolineato che Fenestrelle era solo uno dei luoghi di detenzione: circa 8000
prigionieri di guerra vennero trasferiti al Nord e distribuiti fra Genova,
Milano, Bergamo e Alessandria; almeno altrettanti vennero detenuti in campi
allestiti al Sud). Erano soldati e sottufficiali, non ufficiali; non ho fatto
analisi statistiche sulla loro origine e sull'età, ma erano militari di leva e
provenivano da tutte le province del Regno delle Due Sicilie (con l'eccezione
della Sicilia che era esente dalla coscrizione obbligatoria e da cui
provenivano quindi soltanto pochi volontari). In media erano giovani, in
maggioranza provenienti dalle classi reclutate negli ultimi anni, anche se
c'era qualche sottufficiale di carriera più anziano. Durante la prigionia quasi
nessuno accettò di arruolarsi volontario nell'esercito italiano; dopo l'annessione delle Due Sicilie, invece, nel
dicembre 1860, cessarono di essere prigionieri di guerra e divennero sudditi
italiani, e a quel punto quelli delle
classi più anziane vennero rimandati a casa in congedo, mentre quelli delle
classi più giovani vennero obbligati a continuare la ferma nell'esercito
italiano. Essendo obbligati dalla forza dello stato, quasi tutti si
rassegnarono, anche se il tasso di diserzioni fu poi piuttosto alto; pochissimi
i casi noti di "duri" che rifiutarono il servizio e finirono in galera,
poi amnistiati dopo circa un anno.
Quanto
ai soldati meridionali morti a Fenestrelle, solo la confusione che regna
sull'argomento e che i siti neoborbonici intrattengono volutamente può far credere
che esistano tesi divergenti; in realtà i dati sono lì e sono chiarissimi,
basta essere chiari nello spiegarli. Dei 1186 prigionieri di guerra transitati
nel novembre 1860, cinque in tutto morirono all'ospedale di Fenestrelle, e sono
registrati dal parroco come "prigionieri di guerra napoletani". Dopo
la partenza di questo contingente, a Fenestrelle non ci sono più stati
prigionieri di guerra. Ci sono però passati moltissimi altri ex soldati
napoletani: gli ex briganti ed ex sbandati di cui parlavo prima, che si sono
consegnati volontariamente o sono stati rastrellati nell'estate 1861, per
obbligarli a terminare nell'esercito italiano il loro servizio militare, e di
cui un certo numero, a contingenti di circa 250 per volta, ha trascorso a
Fenestrelle le prime settimane, per ricevervi il primo addestramento e, senza
dubbio, anche abituarsi a una dura disciplina. Questo è un fenomeno della sola
estate 1861; ma anche in seguito continuiamo a trovare soldati meridionali a
Fenestrelle, come in qualunque caserma dell'esercito italiano. Il forte era
sede del reparto di punizione dell'esercito, i Cacciatori Franchi; lì si
trovavano, trasferiti in via disciplinare, molte centinaia di soldati,
ovviamente sia meridionali sia settentrionali. Ecco perché anche nel 1861, nel
1862, nel 1863 e così via capitava che nell'ospedale di Fenestrelle morissero
dei soldati, regolarmente registrati dal parroco come "soldati dei
cacciatori franchi" e non più, ovviamente, come "prigionieri di
guerra". L'operazione compiuta dai "ricercatori" neoborbonici
che hanno visto il libro delle sepolture della parrocchia di Fenestrelle è
consistita nell'estrapolare i nomi meridionali (o quelli che sembravano
meridionali, con buffi errori che ho segnalato nel mio libro) e nel presentarli
tutti come prigionieri vittime dei piemontesi (i nomi di quei disgraziati
soldati piemontesi, lombardi o toscani che finivano in punizione a Fenestrelle
e magari vi morivano di malattia, invece, non sono stati degnati di nessuna attenzione).
Ecco perché sono vere entrambe le stime:
cinque prigionieri di guerra napoletani sono morti a Fenestrelle nel 1860,
mentre sommando tutti i soldati italiani, di origine meridionale, che sono
morti lì negli anni seguenti si arriva a quaranta o cinquanta. Va da sé che
quest'ultima operazione è storiograficamente assurda: in qualunque ospedale
militare italiano si potrebbero trovare dei nomi di soldati meridionali morti
lì, nel 1865 come nel 1975 (anche se nell'Ottocento si moriva molto di più, in
caserma come in ospedale !), e distinguerli dai loro compagni non meridionali è
un'operazione che non si capisce bene che senso possa avere.
A
questa domanda ho già risposto in gran parte nella risposta precedente. Il
numero esatto di prigionieri di guerra napoletani morti in prigionia (e dunque
fra l'ottobre 1860, quando l'esercito sabaudo invase il regno delle Due
Sicilie, e il febbraio-marzo 1861, quando con la resa di Gaeta e la
proclamazione del regno d'Italia nessuno degli ex-soldati napoletani fu più
considerato prigioniero di guerra) è noto finora solo per il contingente
transitato a Fenestrelle; il totale potrebbe essere calcolato con ulteriori
ricerche, in particolare per quanto riguarda quelli detenuti al Sud, di cui
esistono moltissimi registri, che io non ho sottoposto ad analisi statistica. Non
c'è dubbio che ne morirono parecchi, in particolare fra gli uomini della guarnigione
di Gaeta che al momento della resa erano già in preda a un'epidemia di tifo. Quello
che va chiarito è che il trattamento riservato dai comandi dell'esercito
italiano a questi prigionieri fu lo stesso che le convenzioni internazionali
prevedevano ovunque per i prigionieri di guerra; che i prigionieri ricevevano
un soldo, lo stesso rancio e le stesse cure dei soldati italiani (e cioè, va da
sé, soldo misero, rancio scadente e cure mediche approssimative), che non c'era
la minima intenzione di sterminarli e che la mortalità fu, per quanto si può
giudicare, la stessa che sempre si aveva all'epoca (e anche dopo) nei campi di
prigionia. Si tenga presente in proposito che i campi allestiti al sud erano
interamente sotto il comando e l'amministrazione di ufficiali dell'esercito
delle Due Sicilie, anch'essi prigionieri di guerra.
9. A
costo di sembrare ripetitivi, torniamo sulle cifre, perché giocano un ruolo centrale in questa vicenda. Soprattutto: quanti furono i soldati
borbonici catturati dai ‘piemontesi’
? Quanti di loro accettarono di entrare a far parte del nuovo esercito italiano ? E quanti, invece, si rifiutarono di aderire ? E inoltre: nei confronti di questi ultimi, a
parte Fenestrelle, furono adottati provvedimenti detentivi particolarmente
severi ? Infine: è possibile calcolare
il numero di prigionieri borbonici deceduti durante la detenzione nelle carceri
o nelle fortezze sabaude quantomeno nel periodo 1861-5 ? Il portale “Cronologia” sostiene che le vittime della repressione
piemontese furono addirittura un milione.
D’altra parte, sul sito www.duesicilie.org si fornisce un elenco
di deceduti napoletani a Fenestrelle dal 1860 al 1865, per un totale di 51
nomi. È vero che si chiarisce che la lista non è definitiva, però mi sembra che tra
una cinquantina di vittime e un milione di massacrati ci sia una bella
differenza.
Quanto
al milione di morti che certi siti attribuiscono alla repressione (ma s'intende
ovviamente l'intera vicenda della lotta al brigantaggio, durata un decennio),
la cosa sconvolgente è la facilità con cui qualcuno inventa fregnacce e con cui
altri ci credono e le ripetono. Basta pensare che l'intero regno delle Due
Sicilie aveva nel 1860 circa 9 milioni di abitanti, di cui 6.500.000 nel
continente (la Sicilia non conobbe il fenomeno del brigantaggio politico e la
conseguente sanguinosa repressione), per cui un milione di morti
significherebbe una percentuale peggiore di quella della Polonia nella seconda
guerra mondiale ! Ad ogni modo, se qualcuno volesse interessarsi seriamente a
questi problemi anziché fare propaganda, basterebbe andare a vedere i
censimenti del 1861 e del 1871, in cui è indicata la popolazione residente in
ogni singolo comune, e fare i conti; ma qui la verità, è chiaro, non interessa
a nessuno. Io ho fatto un primo controllo: L'Italia meridionale senza la Sicilia
ha 6.614.000 abitanti nel 1861, saliti a 6.983.000 nel 1871, con una crescita
del +5,4%: e questo sarebbe il decennio del milione di morti...
10. Sempre sulle cifre, per il motivo che ho esposto sopra. I suoi avversari, se ho capito bene, sostengono che furono almeno 50.000 i soldati borbonici catturati dai ‘piemontesi’ a seguito delle battaglie tra i due eserciti; che molti di questi militari si rifiutarono di aderire al nuovo esercito italiano e perciò vennero considerati traditori, con tutte le conseguenze che ne derivarono, prima fra tutte la deportazione al Nord, per eliminarli e comunque per ridurli in condizioni di servaggio. A questo punto, però, senza nulla togliere alla buona fede dei revisionisti, vorrei osservare quanto segue:
a.
la maggior parte degli scontri che i borbonici sostennero nel 1860 non furono con l’esercito o la marina dei Savoia ma con i
garibaldini (valga, per tutte, la battaglia del Volturno, che comunque, secondo
alcuni storici, rappresentò l’unico, vero scontro di una certa entità sostenuto dai
Mille) . I piemontesi si limitarono per lo più alla
presa di Capua, Gaeta,
Messina, Civitella, a qualche conflitto con gruppi di irriducibili lealisti e soprattutto a
rastrellare gli sbandati e i prigionieri che
Garibaldi aveva fatto (parecchie migliaia). Incidentalmente, il contributo piemontese potrebbe riscontrarsi anche nell’aver messo a disposizione (ovviamente in gran segreto) il denaro per corrompere alcuni alti
gradi delle Forze Armate borboniche, tradimento che permise a Garibaldi di
riuscire in un’impresa (la liberazione
del Sud, ma con dei
limiti, visto che subito dopo si intensificò il brigantaggio, che però esisteva
già) che sarebbe stata altrimenti impossibile.
b.
L’affermazione secondo cui molte uniformi turchine si
rifiutarono di entrare nel nuovo
esercito per tener fede al giuramento di fedeltà verso i Borboni, stona
decisamente con quanto lo stesso Garibaldi ebbe a dichiarare più
volte (è diventato famoso un suo duro
“J’accuse !” pronunciato in Parlamento)
circa il fatto che, mentre ai soldati di Francesco II si erano
spalancate le porte del nuovo esercito italiano, dove erano confluiti in massa, ai suoi
garibaldini era stato opposto un netto rifiuto (anche
se poi ai garibaldini venne assicurato un vitalizio, sia pure modesto). Inoltre, è in contraddizione
con un’altra realtà: e cioè che, secondo diversi storici, il grosso dei soldati
impiegati per reprimere il brigantaggio al Sud era costituito proprio da meridionali, cioè,
ex militari borbonici. Infine,
sembrerebbe smentita anche dal fatto che alcuni dei carcerieri di Fenestrelle
erano, pure
loro, ex soldati borbonici. Cosa
può dire, al riguardo ?
Anche
qui, in gran parte ho già risposto, ma vediamo di riassumere e precisare.
Calcolare il numero dei prigionieri di guerra catturati e trattenuti in
prigionia dai piemontesi è il compito che mi sono dato in apertura del mio
libro; non è facile essere precisi perché la documentazione è dispersa e
conservata irregolarmente, soprattutto tenendo conto che il periodo di
prigionia durò poche settimane o al massimo pochi mesi, ma si può dire approssimativamente
che entro la fine del 1860 c'erano circa 8000 prigionieri portati al Nord e
altrettanti trattenuti al Sud. A questo vanno aggiunti circa 11.000 capitolati
a Gaeta nel febbraio 1861 e 4000 capitolati a Messina nel marzo 1861, per i
quali la prigionia durò appena pochi giorni. In tutto, insomma, direi che a
cadere prigionieri di guerra furono oltre 30.000 uomini dell'esercito delle Due
Sicilie, un terzo del totale.
Quanto
all'arruolamento di tutta questa gente (relativamente alle quattro classi più
giovani: le quattro classi più anziane, ripetiamolo, vennero rimandate a casa
in congedo) nell'esercito italiano, non è che ci sia bisogno di cercare le
conferme chissà dove. L'Archivio di Stato di Torino contiene i libri
matricolari di tutti i reparti del Regio esercito, centinaia di volumoni dove è
registrato ogni singolo soldato, con tutti i dati anagrafici e le notizie sulla
carriera; e lì a partire dalla fine del 1860 sono registrati, a centinaia per
ogni reggimento, i nuovi soldati originari del Sud, all'inizio ex-soldati
dell'esercito borbonico, e poi, via via, coscritti di leva regolarmente
reclutati. Quindi non c'è nessun mistero e nessuna scoperta da fare: l'esercito
italiano a partire dal 1861 è composto da gente reclutata in tutta Italia
(cosa, del resto, così ovvia che stupisce doverlo precisare !), e lo stesso vale
per i reparti impegnati nella lotta al brigantaggio.
11. Un’accusa
abbastanza ricorrente da parte dei revisionisti è quella secondo cui migliaia
di prigionieri meridionali -anche di
Fenestrelle- sarebbero stati squagliati
nella calce viva. È possibile chiarire
questa storia (che in realtà rientra in
un protocollo igienico-sanitario dell’epoca) ?
Al di là del fatto che tranne i pochi disgraziati morti all'ospedale e regolarmente registrati non ci sono stati altri morti a Fenestrelle, le guide del luogo raccontano che una certa vasca di pietra all'interno del forte serviva, in caso d'assedio, per ricoprire di calce viva i cadaveri dei morti, che per via appunto dell'assedio non era possibile seppellire nel cimitero del paese; li si ricopriva di calce viva non per scioglierli (qui c'è stata un'inconscia contaminazione con la pratica mafiosa di sciogliere i cadaveri nell'acido, ben nota all'odierno immaginario italiano: la calce viva non scioglie proprio niente) ma per evitare che la decomposizione provocasse un contagio. Vale la pena di sottolineare che questa storia, raccontata dalle guide ai turisti desiderosi di sensazioni forti, non è nemmeno davvero provata, e che in ogni caso si trattava di una predisposizione puramente teorica, perché il forte non è mai stato assediato; le dimensioni della vasca, infine, sono tali da poter accogliere al massimo qualche cadavere.
12. I suoi avversari hanno sostenuto più volte la
tesi secondo cui il Regno delle Due Sicilie,
alla vigilia dell’Unità, era più avanzato economicamente, finanziariamente
(ingenti riserve auree), tecnologicamente (viene citata sempre la prima ferrovia
italiana, quella Napoli-Portici, per la
verità di lunghezza assai modesta) e militarmente di quello sabaudo. Ora, a parte la marina militare borbonica,
che effettivamente era considerata non solo la più forte della
Penisola, ma più potente di tutte le altre marine militari italiane messe
insieme, non mi sembra che l’esercito borbonico potesse vantare particolari
meriti, tranne qualche unità speciale. In definitiva, la vulnerabilità
delle Forze Armate napoletane (e
soprattutto dell’esercito) secondo alcuni, era determinata dal fatto che i suoi
vertici erano nelle mani di
una casta gerontocratica, incapace di tenere il passo con i tempi e di prendere decisioni rapide ed incisive. Inoltre,
gli armamenti non erano certo gli ultimi modelli appena usciti dalle
fabbriche. La fortezza di Gaeta, ad esempio, disponeva di batterie
risalenti al XVIII secolo. Per non parlare poi della
corruzione (che si manifestò in tutta la sua virulenza
con l’impresa di Garibaldi). Cosa si può
dire, in proposito ?
Posso
dire poco. Valutare la qualità militare dell'esercito borbonico non rientra fra
gli scopi della mia ricerca. In generale è forse il caso di dire che visti
dagli altri paesi europei, dove la guerra si faceva in modo veramente
professionale, gli eserciti italiani di allora (e l'esercito italiano poi) sono
sempre stati visti come piuttosto scadenti, e probabilmente non a torto. Quello
piemontese era forse un po' meno peggio degli altri, per via di un più forte
spirito di corpo fra gli ufficiali aristocratici, ma la cosa finisce lì.
Vittorio Emanuele II affermò una volta che l'artiglieria napoletana era
migliore di quella piemontese, e certamente i battaglioni di cacciatori che
costituivano l'élite dell'esercito napoletano erano eccellenti; del resto i
loro soldati vennero poi riversati in massa nei bersaglieri. Aggiungerei anzi
che proprio la presenza in organico di così tanti battaglioni di cacciatori,
cioè di fanteria leggera addestrata a forme di combattimento più individuali,
indica una certa modernità dell'esercito napoletano: nell'esercito piemontese i
bersaglieri, che sono l'esatto equivalente, erano stati introdotti da poco.
Quanto
alla leggenda della prosperità economica e industriale del Regno delle Due
Sicilie, è appunto una leggenda consolatoria; quello che stupisce e spaventa è
vedere quanta gente è pronta a credere a frottole senza alcun fondamento, rimanendo
impermeabile a ogni ragionamento e a ogni dimostrazione. Detto questo, sia
chiaro che non bisogna immaginare semplicemente un Nord progredito e un Sud
miserabile: l'Italia del 1861 era tutta povera e arretrata. L'industria
italiana tutta insieme, in settori chiave come il siderurgico e il tessile, non
produceva nemmeno l'1% dell'industria inglese! Le poche fabbriche esistenti,
sia al Centro-Nord sia al Sud, erano isolate in questo panorama di complessiva
arretratezza, erano per lo più sussidiate dallo stato e in mano a imprenditori
stranieri: ecco perchè è fuorviante citare singoli stabilimenti, che sia
Pietrarsa o Castellammare, come prove di uno sviluppo industriale che non
esisteva affatto. Ma, ripeto, questa situazione era comune a tutta Italia e gli
studi più approfonditi sostengono che il divario del PIL e della qualità della
vita fra Nord e Sud era minore rispetto a oggi (il che, sia chiaro, non
significa affatto che il Sud fosse più prospero, come si va favoleggiando: era
nel complesso più povero del Nord, ma solo un poco più povero. E soprattutto,
tanto al Sud quanto al Nord c'erano forti squilibri fra una zona e l'altra: il
Napoletano, dove il governo borbonico aveva concentrato gli investimenti, era
meno povero e stagnante di certe zone del Veneto).
C'era
però un divario crescente da qualche anno in termini di infrastrutture: il
regno delle Due Sicilie aveva costruito la prima ferrovia, ma nel 1860 aveva in
tutto 100 km di ferrovie, il regno di Sardegna ne aveva 850; in Piemonte e
Lombardia sapeva leggere e scrivere il 46% della popolazione, nel regno delle
Due Sicilie appena il 13%; in Piemonte andavano alle elementari 361.000
bambini, in Sicilia 25.000 Sono disparità che dipendono esclusivamente dalle
scelte politiche e dagli investimenti dei governi, e che contribuiscono a
spiegare come mai più tardi il decollo industriale italiano abbia avuto luogo
al Nord.
Anche su questo non so molto e non voglio parlare di cose che non conosco. Farei solo notare che dobbiamo evitare di guardare le cose col solito occhio provinciale e italocentrico. L'Inghilterra governava il mondo, si preoccupava dell'India, della Cina, del rischio di guerra civile negli Stati Uniti, e quello stagno arretrato che era diventato il Mediterraneo era l'ultima delle sue preoccupazioni. Dopodiché, dato che tenevano d'occhio tutto, tenevano d'occhio anche l'Italia; Cavour, come dimostra la sua corrispondenza, viveva nel terrore che il governo inglese decidesse di dare l'altolà al processo di unificazione italiana, il che suggerisce che i giochi non erano ancora fatti. Io aggiungerei che il governo inglese doveva tenere conto di un'opinione pubblica liberale, progressista, che guardava con simpatia a Garibaldi e con avversione ai Borboni, e credo che la necessità di non urtare l'opinione pubblica abbia indotto il governo inglese a non ostacolare, e forse anche a favorire, l'impresa garibaldina, assai più che non la preoccupazione per lo zolfo o il Marsala.
14.
Secondo lei, questa alzata di scudi a difesa di un presunto regno
dell’utopia (quello delle Due
Sicilie) va inquadrata come risposta alle roboanti
e sgangherate campagne leghiste contro il Sud fannullone e parassita
del Nord, oppure ha un’altra origine e soprattutto un altro scopo ?
Io
credo che il successo delle leggende consolatorie veicolate da libri come Terroni di Pino Aprile (con cui peraltro
devo dire che ho avuto di recente uno scambio di vedute inaspettatamente
cordiale) costituisca innanzitutto una reazione, in sé perfettamente
comprensibile e anzi addirittura giustificata, alla cialtroneria e agli insulti
leghisti. Peccato solo che questo scatto d'orgoglio sia stato indirizzato verso
la mistificazione del passato, col risultato di creare una spaventosa ignoranza
e confusione, e soprattutto di produrre rancore, razzismo e odio (non è una
parola grossa: posso produrre certe lettere che ho ricevuto, grondanti odio
razzista da ogni riga). Quanto agli scopi di chi alimenta questo movimento, io
davo per scontato che costoro non potessero non vedere i risultati spaventosi
della loro predicazione, e che quindi sapessero benissimo di lavorare per la
disunità del paese e per accrescere l'ignoranza e la stupidità collettiva,
disabituando alla riflessione critica e al confronto civile e argomentato:
perciò nel mio libro ho parlato di "fini immondi". Risulta che molti,
fra cui lo stesso Pino Aprile, si sono sentiti insultati, e ora non sono più
così sicuro che siano tutti in malafede; in questo caso però la situazione mi
sembra ancora più desolante, perché è spaventoso che si possano produrre danni
così profondi e permanenti alla psicologia collettiva (e alla cultura storica)
di questo paese, in buona fede e credendo di far bene!
È così e non c'è niente da aggiungere. Se mi prendo tanto a cuore questa faccenda
è perchè oltre a propagare l'ignoranza del passato e disabituare alla
discussione argomentata e motivata, la rilettura neoborbonica del Risorgimento
produce razzismo bello e buono.
16. Trovo
piuttosto curioso il fatto che i suoi critici più accaniti, al di là dei deliri (e degli insulti) di cui
parlo sopra (per tacere delle minacce di querela), non
abbiano mai accennato (naturalmente
potrò anche sbagliarmi) al fatto che in molti manuali scolastici, per disegnare
lo scenario post-unitario, si usi spesso il termine “piemontesizzazione”, con
tutto quello che significa: numerazione dinastica
(Vittorio Emanuele che continua a farsi chiamare II, anche quando diventa re
d’Italia -a differenza, per esempio, di quanto aveva fatto Giacomo
VI Steward, re di Scozia, diventato nel
1603, al momento di accettare la corona inglese, Giacomo I Stuart); computo delle legislature (che continua quello dello Stato Sabaudo, a
partire dalla prima del 1848); “Statuto
Albertino”, che diventa sic et
simpliciter, la proto-costituzione dell’intero Paese; capitale a Torino, 'con gran dispitto’ dei milanesi (e non solo);
funzionari di Torino spediti in ogni punto del Paese per organizzare il nuovo stato; assetto centralizzato di questo Stato, sul
modello napoleonico, in spregio alle idee di Cattaneo e di altri pensatori
federalisti. Visto che, a quanto sembra (ma potrò sbagliarmi, ripeto), una domanda
del genere non le è mai stata posta, secondo lei, almeno alcune di queste
forzature (soprattutto la numerazione
dinastica e il conto delle
legislature) si potevano evitare ?
17. Il crollo dell’esercito borbonico fu causato in buona misura dal tradimento (per denaro) di una parte dei suoi vertici -e comunque dalle assicurazioni che avevano avuto da Torino di un ‘segno di gratitudine’ se avessero deciso di rimanere inerti-. Senza questo tradimento e senza queste assicurazioni, forse, Fenestrelle e altri luoghi di detenzione non sarebbero saliti alla ribalta, perché il risultato di ciò fu, tra l’altro, lo sbandamento di gran parte dei gradi ufficiali intermedi e soprattutto dell’enorme massa dei soldati semplici, che caddero facilmente nelle mani del nemico. Possiamo dire qualcosa di più su questo tradimento ?
18. A dispetto di quanto affermano i suoi critici, a me non sembra che il suo punto di vista sul Risorgimento sia apoditticamente elogiativo, visto quanto si legge nell'introduzione, e che lei difetti di compartecipazione emotiva nei confronti dei vinti. A parte il suo giudizio impietoso sulla decisione della Provincia di Torino di proclamare, nel 1999, "con beata incoscienza", proprio Fenestrelle suo monumento simbolo, basterà leggere quanto lei scrive all'inizio del libro; "Questa dunque è la storia di ciò che accadde veramente a Fenestrelle, ma anche a Torino, a Napoli, a Milano, a Gaeta e in altri luoghi d'Italia, fra 1860 e 1861, quando l'esercito delle Due Sicilie venne sconfitto in una guerra non dichiarata, i suoi uomini fatti prigionieri o sbandati, e poi, in gran parte, trasportati al Nord per essere arruolati contro la loro volontà nell'esercito italiano" . [Corsivo mio.] "Guerra non dichiarata" e "uomini...trasportati al nord per essere arruolati contro la loro volontà nell'esercito italiano". Sembra quasi di sentire De Crescenzo. Non solo: ma lei, nell'incontro dello scorso anno presso la libreria Laterza di Bari, ha precisato che se entrerà in possesso di ulteriore documentazione, proseguirà senz'altro lo studio dell'episodio. La considero una dichiarazione molto importane, perché credo che, a parte quei revisionisti che vogliono chiaramente demonizzare il Risorgimento, le tesi di coloro i quali esprimono il loro dissenso verso la ricostruzione ufficiale di quel periodo in modo pacato, composto e rispettoso dell'interlocutore, portando prove a sostegno delle loro tesi, debbano essere prese in considerazione. Non trova ?
Dissento solo in questo: che non esiste nessunissima "ricostruzione ufficiale" del Risorgimento. Fin dall'inizio ci sono stati studi di diverso valore, ora compiacenti, ora molto critici, pubblicazioni puramente celebrative e analisi impietose; ora, poi, è almeno dal 1945 che di pubblicazioni puramente celebrative non se ne fanno più e che la ricerca sul periodo dell'Unificazione è interamente in mano a studiosi che hanno voglia di capire, non certo di celebrare. Parlare di "ricostruzione ufficiale" è fuorviante, rischia di far credere ai tanti ignari che se una ricerca è fatta da un professore universitario debba per forza rispondere a certe direttive: anche qui, una mistificazione che non ha nessun rapporto con la realtà.
19. Ha
ragione. La formula “ricostruzione ufficiale” è impropria. Mi riferivo alla
prospettiva sostenuta da alcuni revisionisti e accettata anche da determinati
politici e certi ambienti istituzionali, poco interessati a conoscere come
si sono realmente svolti i fatti. Ma torniamo alle domande. Vorrei insistere su
un punto, su cui lei per la verità ha già fornito ampie spiegazioni. Ed è questo:
per verificare se le tesi dei revisionisti più civili hanno un
supporto scientifico, bisognerebbe porre a confronto le statistiche
demografiche relative alla popolazione del Regno delle Due Sicilie prima e dopo l’unificazione. Se da questo confronto risulta un netto calo
dopo il 1861 e
fino alla fine degli Anni Sessanta dell’Ottocento (in assenza di altre cause: carestie, epidemie,
emigrazione), allora si possono considerare più attentamente queste tesi. Ma quando parlo di “netto calo", mi riferisco
a cifre dell’ordine di centinaia e centinaia di migliaia di unità, se non addirittura di milioni. Se questa curva demografica non c’è stata,
allora siamo di fronte soltanto a propaganda. Potrei
chiederle di tornare sull’argomento ?
Ribadisco quanto segnalato sopra: al 1861 la popolazione dell'Italia meridionale senza la Sicilia è di 6.614.000 abitanti, nel 1871 è salita a 6.983.000 (aumento del 5,4%). A onor del vero la Sicilia ha avuto una crescita ancor più marcata: da 2.409.000 a 2.590.000 (aumento del 7,3%). Il Piemonte nello stesso decennio aumenta del 6,0%. Va notato che nello stesso Mezzogiorno continentale la crescita varia da una regione all'altra: ben 7,6% in Puglia, solo 2,9% in Basilicata, 4,8% in Campania (certamente penalizzata dalla perdita della capitale). Occorrerebbe un'analisi molto sofisticata dei flussi migratori e della congiuntura economica per spiegare queste differenze, che comunque rientrano in un quadro complessivo di crescita e non sono minimamente compatibili con la fantasia di un forte calo demografico dovuto alla repressione del brigantaggio (che fra l'altro era particolarmente agguerrito proprio in Puglia, la regione del Sud col più alto tasso di crescita demografica nel decennio).
21. In
questa polemica, quelli che si sono sentiti più
‘colpiti’ (gli unici ?) dal suo volume, sono i
napoletani, come se il Regno delle Due Sicilie si fosse
limitato a comprendere la Campania e alcune aree circostanti. A parte i siciliani, che non hanno mai dimostrato particolare simpatia per questo Regno e non mi
sembra che abbiano preso posizione (attesa anche una discreta diffidenza reciproca tra le due
popolazioni che credo duri ancora
oggi), ci sono stati interventi, da
parte di altri uomini di
cultura meridionali non napoletani ? Altrimenti, si ha l’impressione che alcuni circoli intellettuali
della città partenopea, oltre ad averne
fatta una questione
personale (scoprendo un po’ l’acqua
calda, a parte Di Fiore) si siano presentati
come gli unici portavoce del meridionali che sono stati penalizzati dall’unificazione,
i difensori d’ufficio di popolazioni che, forse, potrebbero anche non essere particolarmente
interessate al dibattito. Oltretutto,
con il dovuto rispetto per De Crescenzo, parlare di “nazione napoletana”, come se si trattasse
di un’entità composita, mi sembra un po’ eccessivo. E i siciliani, allora, che cosa dovrebbero
dire ? Quegli stessi siciliani -e questo i nostalgici non lo ricordano
mai- nei confronti dei quali i re
borbonici precedenti a Francesco II hanno usato sistemi di repressione che, al
confronto, Fenestrelle diventa quasi un luogo di cura (d’altronde verosimile, visto che la tisi,
cioè la malattia dell’epoca, si curava con lunghi soggiorni in
località montane, certo, magari più accessibili e ospitali
rispetto al complesso fortificato piemontese). Basti pensare alla strage borbonica
di Porto Empedocle (114 reclusi
trucidati barbaramente) durante la
rivolta siciliana del 1848, o ai civili inermi presi a cannonate nello
stesso periodo, due dei tanti esempi relativi ai sistemi che nel Regno delle
Due Sicilie si usavano per sedare le rivolte.
Per dirla tutta: quello dei siciliani per i Borbone era vero e proprio
odio, come osservò Mack Smith e non per
nulla Garibaldi iniziò la sua avventura proprio dall’isola, sicuro di trovarvi
quel sostegno alla sua impresa che sul continente sarebbe stato più difficile
acquisire.
Ribadisco quanto segnalato sopra: al 1861 la popolazione dell'Italia meridionale senza la Sicilia è di 6.614.000 abitanti, nel 1871 è salita a 6.983.000 (aumento del 5,4%). A onor del vero la Sicilia ha avuto una crescita ancor più marcata: da 2.409.000 a 2.590.000 (aumento del 7,3%). Il Piemonte nello stesso decennio aumenta del 6,0%. Va notato che nello stesso Mezzogiorno continentale la crescita varia da una regione all'altra: ben 7,6% in Puglia, solo 2,9% in Basilicata, 4,8% in Campania (certamente penalizzata dalla perdita della capitale). Occorrerebbe un'analisi molto sofisticata dei flussi migratori e della congiuntura economica per spiegare queste differenze, che comunque rientrano in un quadro complessivo di crescita e non sono minimamente compatibili con la fantasia di un forte calo demografico dovuto alla repressione del brigantaggio (che fra l'altro era particolarmente agguerrito proprio in Puglia, la regione del Sud col più alto tasso di crescita demografica nel decennio).
20. Il
Presidente Napolitano, nel commentare le reazioni dei nostalgici alle
commemorazioni del 2011, il 7-01-11, a Reggio Emilia, affermò che non si chiedeva “un’ adesione acritica del Risorgimento”; “Quel che è giusto
sollecitare, è un approccio non sterilmente
recriminatorio e sostanzialmente
distruttivo”. Condivide questa dichiarazione,
che lascia spazio ad una rivisitazione, anche profonda e metodologicamente
innovativa, del Risorgimento ?
Quel
che ha detto Napolitano va benissimo, anche se, ancora una volta, è desolante l'abisso
fra il mondo degli storici e quello del pubblico e della politica; e non solo,
me lo lasci dire, per colpa degli storici. Gli storici italiani sanno da sempre
che il Risorgimento va studiato in modo critico e non trasformato in un mito, e
lo fanno da sempre; e basterebbe far la fatica di prendere in mano i loro libri
(cioè il mezzo normale con cui gli storici comunicano le loro conoscenze) per
rendersene conto. L'intera operazione "revisionista" si è mossa in un
mondo di fantasia, evocando un nemico immaginario (la "storiografia
ufficiale"). Bisogna però riconoscere che l'interesse per il regno
borbonico preunitario e per le vicende del suo esercito nel 1860-61 era minimo
fino a pochi anni fa ed è stato risvegliato da libri utili come quelli di Gigi
Di Fiore; sotto questo aspetto il "revisionismo" ha prodotto novità
interessanti.
22. In
realtà, si ha l’impressione che i nostalgici
(con tutto il rispetto per le
opinioni di quelli, tra di loro, che conoscono le regole di un dibattito civile),
facciano un unico fascio di situazioni e
di episodi che meriterebbero ben altra collocazione. Per dire:
non si possono mettere sullo stesso piano i soldati borbonici ‘refrattari’
(coloro i quali, cioè, non volevano rinnegare il giuramento di fedeltà a Francesco
II); i briganti (bande di delinquenti
agguerriti e pericolosi esistevano già prima dell’Unità); i renitenti alla leva (e il servizio militare
obbligatorio allora durava almeno sette anni); i disertori (soldati del
nuovo esercito che per un motivo o per
un altro avevano deciso di abbandonare le armi); e magari inserire in
quest’elenco anche le centinaia di migliaia di emigranti che dalla fine
dell’Ottocento fino agli Anni Sessanta del XX secolo si sono trasferiti dal Sud
verso altri paesi o altri continenti. Si
ha l’impressione, insomma, che i suoi critici
‘forsennati’ abbiano messo in uno stesso
calderone elementi ben diversi tra loro: prigionieri di guerra tout court, soldati che non accettano di entrare nel nuovo esercito
italiano, renitenti, insubordinati, briganti, criminali di vario genere,
espatriati.
Certo
che è così, non ho nulla da aggiungere. Se non il fatto che anche per quanto
riguarda l'emigrazione i neoborbonici vedono solo quello che vogliono vedere: a
partire dall'Unità e soprattutto dagli anni '70 e '80 del XIX secolo,
caratterizzati da una grave crisi economica internazionale, gli emigranti sono
partiti da tutta Italia e non certo solo dal Sud. L'emigrazione piemontese, per
esempio, è forse oggi meno conosciuta dal grande pubblico perché non si è
diretta verso gli Stati Uniti e le loro pittoresche Little Italies, ma verso paesi poco di moda come l'Argentina e il
Brasile: ma sta di fatto che gli emigranti dal Piemonte fra Otto e Novecento
sono stati numerosi quanto quelli dalla Sicilia...
23. E
direi che un’ illustre conferma viene proprio dai giorni nostri: l’attuale Pontefice, Bergoglio, oltre ad
avere un cognome italiano, non ha forse origini astigiane ? Anzi: i suoi parenti, che egli ha intenzione
di andare a visitare
nuovamente (c’era
già stato nel 2005), vivono ancora in quei luoghi. D’altronde, il Papa è sempre stato orgoglioso
delle sue origini piemontesi, ricordandole per esempio nel libro-intervista del 2010.
Ma torniamo al dibattito sul sito della Laterza. A un certo punto (20-10-12), lei scrive:
“Dopodichè, ripeto, non si tratta qui di rincorrere
miti consolatori, nè da una parte nè dall'altra: il Risorgimento è stata
un'epoca estremamente complessa e traumatica nella storia di un paese di per sé
fazioso e arretrato com'è la nostra
Italia, e di pagine nere non ne sono certo
mancate. [Corsivo mio.] È nostro interesse di tutti, al Nord come al Sud,
ragionarci su...” . Resta comunque un
fatto: e cioè che, a differenza di quanto lei stesso ha ricordato nel confronto
alla libreria Laterza con De Gennaro lo scorso anno, mentre negli Stati Uniti,
dopo una lunga e
terribile guerra civile negli stessi anni in cui l’ Italia fu dilaniata da un analogo
conflitto fratricida -il brigantaggio-, ma con un numero di vittime ben più alto
di questo (almeno 600.000), esiste comunque un sentimento
di memoria nazionale collettiva e condivisa, pur con tutte le differenze geopolitiche
possibili (e lei fa l’esempio della
bandiera di alcuni stati del Sud esposta accanto a quella a stelle e strisce); esiste,
vorrei aggiungere, l’orgoglio, di appartenere tutti ad un’unica, grande nazione; a differenza di quanto
è accaduto con la guerra civile del 1943-5, su cui ormai gli animi sembrano
essersi ricomposti (è diventata celebre
la frase pronunciata qualche anno fa da L. Violante, il quale, riferendosi ai
repubblichini, li definì “fratelli che
hanno sbagliato”); quando si parla della ‘conquista del Sud’, questo
comune sentire troppe volte sembra assente e ancora difficile da
raggiungere. I particolarismi locali, i
campanilismi, gli
interessi settoriali continuano a
rappresentare un ostacolo per una riconciliazione, anche se forse il fenomeno è
ingigantito dai media, per motivi meramente commerciali. In definitiva: come mai, secondo lei, esiste ancora tanta acredine nel dibattito sul
Risorgimento, tanto desiderio di screditarlo e di considerarlo una delle pagine più buie della storia
nazionale, una guerra di sterminio sistematico ai danni di un intero popolo
? Non mi pare che ci sia storico,
ormai, il quale non riconosca che il percorso dell’unificazione è
costellato di errori, di intrighi, di demagogia, di opportunismi, di interessi dinastici,
di fallimenti, di retorica che ha creato dei miti che andrebbero quantomeno ridimensionati,
anche di abusi e di atti di brutalità commessi da certi
reparti con la bandiera dei Savoia, atti che però non assumono certo le proporzioni apocalittiche che vorrebbero
far credere i revisionisti e non rientrano in alcun
disegno di sterminio sistematico, in alcun folle
progetto di olocausto. E d’altronde, le guerre civili sono infinitamente più
tragiche delle guerre tradizionali, e le testimonianze arrivano non solo
dall’Italia, ma anche da altre parti del mondo (oltre che dagli Stati Uniti, appunto, per esempio dalla Spagna,
dalla Russia, dalla Cina).
Ho paura che la risposta sul perché in Italia siamo ancora a questo punto (e non solo per quanto riguarda il Risorgimento: anche sul fascismo e la Resistenza gli animi sono molto meno pacificati di quanto non sembri) richiederebbe un lungo e deprimente discorso sull'arretratezza culturale e la faziosità intrinseca di noi italiani, e francamente non ho tanta voglia di farlo...
Parenti piemontesi di Papa Francesco. |
Ho paura che la risposta sul perché in Italia siamo ancora a questo punto (e non solo per quanto riguarda il Risorgimento: anche sul fascismo e la Resistenza gli animi sono molto meno pacificati di quanto non sembri) richiederebbe un lungo e deprimente discorso sull'arretratezza culturale e la faziosità intrinseca di noi italiani, e francamente non ho tanta voglia di farlo...
24. Come
risultato della valanga di polemiche che hanno accompagnato il
libro, lo stesso è arrivato comunque alla terza edizione in poche
settimane (per non parlare del fatto che è stato incluso nell'elenco dei finalisti della 46° edizione del Premio Acqui Storia). Si aspettava un successo così
clamoroso ? E inoltre: è in preparazione una quarta edizione,
magari con le sue risposte alle critiche dei revisionisti ?
Be', andiamoci piano, i successi clamorosi si
misurano con ben altre cifre. Diciamo che il libro è andato meglio di quel che
avrei creduto, dato che si tratta pur sempre di un libro specialistico, irto di
note e non sempre di piacevole lettura. Quanto alle risposte ai revisionisti,
il livello delle argomentazioni a cui mi è toccato rispondere è così basso che
le risposte stanno bene su internet, non è il caso di stamparle...
Su
questo non aggiungerei altro.
26. Fenestrelle è una località con meno di 600 abitanti, ma
è famosa, oltre che per l’imponente complesso fortificato, per essere uno degli
ultimi lembi del nostro Paese in cui si parla la lingua occitana. Tra le altre particolarità, ha anche quella di avere un’amministrazione
locale guidata da un giovanissimo sindaco, Ilario Manfredini, ricercatore di Storia presso
l’Università di Pisa, particolarmente attento alle vicende del territorio
tra medioevo ed età moderna. Ha avuto
modo di
parlare con lui del libro e del ruolo che la fortezza avrebbe svolto dopo
l’Unità ?
Purtroppo no !
27. C’è un aspetto, della storia del Risorgimento, che secondo me non è stato valutato
con la dovuta attenzione. Mi riferisco
al contributo che le truppe
francesi diedero alla lotta contro gli austriaci. È lecito affermare che senza i francesi gli
italiani non avrebbero mai potuto vincere Radetzky ? È lecito affermare che le vittime francesi
furono superiori a
quelle italiane ? È lecito affermare che
senza questo enorme contributo,
l’unificazione dell’Italia sarebbe rimasta un sogno chissà per quanti anni
ancora ? Certo, i francesi presentarono
un conto abbastanza salato, ma in
definitiva, senza di loro, gli
austriaci (e non solo) sarebbero rimasti a lungo nel
nostro Paese. Sono affermazioni estemporanee
o presentano un minimo di verità ?
28.
Lei si è cimentato di recente anche nella produzione di un manuale
scolastico, La nostra storia raccontata da Alessandro Barbero e Sandro Carocci, (Laterza 2013, voll. 2), ad un prezzo
leggermente inferiore rispetto a quelli medi di mercato per questo
comparto (ancora più conveniente, è
chiaro, la versione scaricabile). Che
cosa l’ha
spinta ad avventurarsi in un territorio così suggestivo, ma anche così
insidioso (perché rivolto ad un pubblico
particolare) come quello della manualistica scolastica ? In un
manuale scolastico bisogna semplificare, proporre ricostruzioni in modo spesso sintetico
e schematico, evitare di prolungarsi troppo su particolari che invece meriterebbero
di essere affrontati con intere pagine: insomma,
uno storico accademico, abituato a dividere in quattro il capello (perché è il suo mestiere), in un manuale
scolastico deve fare esattamente il contrario. Senza contare la questione dei giudizi storiografici. E inoltre: come valuta la proposta (che in realtà
dovrebbe diventare legge a partire dall’a.s. 2014-15) di sostituire il manuale cartaceo o il libro
misto soltanto con un testo consultabile attraverso un tablet ?
Scrivere
un manuale è certamente un lavoro molto diverso rispetto alla ricerca. Non è
però così diverso rispetto alla divulgazione, anzi, direi che è una delle forme
principali della divulgazione. Oggi allo storico si offre la possibilità di
comunicare col pubblico dei non specialisti in molte forme: i giornali, la
televisione, le conferenze, e la manualistica, e ognuno di questi ambiti
rappresenta una sfida diversa e molto interessante; anche se bisogna stare
attenti a non dimenticare che la ricerca, e la sua comunicazione agli
specialisti in forme e linguaggi anche ostici per il grande pubblico, rimangono
comunque il nostro compito principale.
Quanto
al proposito ministeriale di sostituire integralmente il libro di testo con
materiale consultabile online, è un tipico prodotto della fretta e
dell'ignoranza governativa, una di quelle fughe in avanti con cui un mondo
politico di analfabeti –causa non ultima dell'arretratezza del nostro paese–
crede di poter aggirare i problemi della scuola e far bella figura a buon
mercato. Il ministero evidentemente ha deciso di ignorare una serie di
problemi: intanto, non è affatto ovvio che tutti gli studenti delle scuole
italiane possano munirsi di un tablet personale; in ogni caso si tratterà di un
costo considerevole per le famiglie e/o per lo stato; ed è comunque probabile
che si crei una fascia sfavorita per la quale l'uso del tablet rappresenterà un
problema. In secondo luogo,
pare che il ministero non abbia la minima idea di che cos'è un libro di testo,
e di che uso ne fanno i ragazzi. Il libro di testo attuale è in realtà un
prodotto che integra testo, immagini, didascalie, cartine in un modo
sofisticato che si è andato evolvendo negli anni, e che attualmente non è
riproducibile tale e quale sul tablet: il libro di testo informatico sarà
quindi un oggetto strutturalmente diverso, e anche se questo non è affatto un
male in sé, anzi!, sarà comunque necessaria una certa riflessione per produrlo
– non ci si può illudere, in altre parole, di trasferire semplicemente su
tablet quello che attualmente sta sulla carta. E poi c'è il modo di studiare
dei ragazzi, che lavorano sottolineando e annotando il libro e riempiendolo di
segnalibri, tutte cose che sul tablet in realtà non si possono fare, per quanto
esistano funzioni che tentano di riprodurle. Senza contare che un lavoro non
puramente passivo implica il tenere sott'occhio diversi libri aperti
contemporaneamente, e confrontare al volo una pagina coll'altra, tutte cose,
anche queste, che col tablet non si possono fare, se non in modo profondamente
diverso. In altre parole il passaggio a un supporto puramente informatico
implica una rivoluzione antropologica, che non si capisce come possa avvenire
in un anno o due e per decreto amministrativo. Speriamo in bene...
29. A parte un ricca e prestigiosa produzione storiografica,
lei è famoso anche per le sue ‘incursioni’ in campo letterario, con ben sei
titoli, che
denotano una raffinatezza di scrittura difficilmente riscontrabile anche negli
scrittori professionisti: la sua prima
opera in questo territorio, Bella vita e guerre
altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, ha
vinto il Premio Strega 1996, mentre il suo quinto romanzo, Gli
occhi di Venezia, nel 2011 si è aggiudicato il Premio Alessandro Manzoni della città di Lecco.
Ma a parte questo, quando ha progettato e realizzato questi romanzi, ha dovuto confrontarsi con il testo che Manzoni compose a proposito appunto del romanzo storico (Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione) ? Oppure -perdoni la formula- la sua è stata una specie di ‘rivincita’ nei confronti dell’A. dei Promessi Sposi, un modo garbato, ma deciso, per dire a Manzoni: “No, guarda, su questo punto non siamo d’accordo. Il romanzo storico, checché tu ne dica, riveste un suo preciso valore, e cercherò di dimostrartelo.” ?
A. Barbero riceve il Premio Manzoni 2011 per Gli occhi di Venezia. |
Ma a parte questo, quando ha progettato e realizzato questi romanzi, ha dovuto confrontarsi con il testo che Manzoni compose a proposito appunto del romanzo storico (Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione) ? Oppure -perdoni la formula- la sua è stata una specie di ‘rivincita’ nei confronti dell’A. dei Promessi Sposi, un modo garbato, ma deciso, per dire a Manzoni: “No, guarda, su questo punto non siamo d’accordo. Il romanzo storico, checché tu ne dica, riveste un suo preciso valore, e cercherò di dimostrartelo.” ?
Temo
di dover confessare la mia allergia per ogni forma di teorizzazione
metodologica. Quando, intorno ai venticinque anni, ho cominciato a scrivere i
miei due primi romanzi, Bella vita...
e Romanzo russo, a cui ho lavorato
contemporaneamente per una decina d'anni, l'ultima cosa che poteva venirmi in
mente era di preoccuparmi della teoria del romanzo. Che Manzoni abbia scritto
sull'argomento lo avrò anche studiato a scuola, ma me lo ricordo per la prima
volta ora che lo leggo nella domanda. Del resto la grande libertà del romanzo è
che si può scrivere tutto quello che si vuole e in qualunque modo, con un solo
obbligo – scrivere bene. Ci mancherebbe che uno dovesse rinunciare a questa
libertà per seguire delle regole, e perdere tempo con riflessioni teoriche invece
di lavorare sulla propria scrittura !
Franco Cardini |
A
questa domanda ho già in parte risposto. Puntualizzerei che queste molteplici forme di
coinvolgimento oggi sono molto più numerose che in passato. L'intero ambito dei
festival culturali, come quello di Mantova, o quello di Sarzana a cui mi onoro
di partecipare ogni anno ormai dal 2007, una volta non esisteva. Dunque chi fa
il mio mestiere riceve molteplici sollecitazioni, continue richieste di
partecipazione e collaborazione; a me piace accettare proposte di questo
genere, ho scoperto che non mi riesce male, e insomma è diventata una parte
integrante e vitale della mia attività professionale (senza nascondere che si
tratta appunto di attività professionale: e dunque, remunerata).
31. Da
alcune sue osservazioni (soprattutto
video) mi è sembrato di capire che, a
fronte della relativa scarsità della documentazione riguardante l’età medievale
(visti i secoli che ci separano da quel
periodo), quella
moderna offre una tale mole di materiale da lasciare quasi storditi. Il problema è quello di verificare quanta di
questa documentazione sia veramente importante ai fini di una particolare
ricerca e forse anche, vorrei aggiungere, individuare e smascherare eventuali
falsi. La mia è un’interpretazione ragionevole o va corretta ? Di fronte
alla poderosa quantità del materiale a disposizione, quali percorsi deve seguire
la ricerca storiografica, per evitare di disperdere le sue energie e di
rimanere impantanata ?
Il
problema dei falsi è un problema minore. Certo, ogni tanto si presenta qualche
caso clamoroso, come quello dei falsi diari di Hitler, a cui anche Trevor-Roper
credette, o quello dei falsi diari di Mussolini (a cui invece hanno creduto, o
fatto finta di credere, solo giornali di partito e servi di palazzo); ma se è
per questo il problema dei documenti falsi è molto più rilevante in ambito
medievale, perché ne sono stati prodotti moltissismi, e non solo da eruditi
falsari moderni (e quelli sono i più facili da smascherare) ma anche all'epoca.
Dopodichè, sì, è verissimo che per il Medioevo, come per l'Antichità, il
problema di solito è la scarsità o l'assenza di documenti, mentre per l'età
moderna e contemporanea è l'esatto contrario. Ma sapersi orientare nella
documentazione e ottimizzare i tempi di ricerca è una delle principali capacità
richieste allo storico professionista, sta in quello il mestiere. Aggiungerei
che proprio la diversità delle fonti, della loro collocazione, e delle tecniche
che bisogna possedere per utilizzarle è l'unico motivo che giustifica, in
parte, la suddivisione accademica fra antichisti, medievisti, modernisti e
contemporaneisti, che altrimenti non ha senso ed è più dannosa che utile.
32. Come trova gli studenti che sostengono l’esame (o gli esami)
nella sua disciplina e che le chiedono la tesi ? Abbastanza preparati e in grado di esprimere
giudizi motivati ? Crede che la scuola superiore abbia fornito
loro le necessarie conoscenze e competenze, oppure si sente di avanzare delle
critiche, e magari dei suggerimenti ? E
inoltre: ritiene che l’attuale ordinamento universitario (tre più due)
sia migliore rispetto a quello del passato, oppure
sarebbe meglio ripristinare quest’ultimo ?
Sugli
studenti non esprimerei un giudizio. A me paiono volenterosi ma per lo più
sprovvisti di cultura, poco abituati al giudizio critico e poco padroni della
lingua e della scrittura; però credo a) che già al tempo di Socrate i docenti
tendessero ad avere questa impressione degli allievi, e b) che questi difetti
non siano solo degli studenti, o dei "giovani", ma di tutta la
società (con forse una particolare accentuazione nella classe politica).
Sulla
scuola è evidente che c'è un solo suggerimento da dare, così ovvio che ci si
vergogna quasi a dirlo: bisogna spenderci molti più soldi, come fanno tutti gli
altri paesi, ma molti di più (parlo
della scuola pubblica, non della scuola privata a cui, vergognosamente e in
aperta violazione della Costituzione, i governi di destra – e non solo –
continuano a regalare denaro pubblico), e ridare motivazione e prestigio agli
insegnanti. Bisognerebbe anche, a dire il vero, ridurre la burocrazia, gli
impegni extrascolastici, le riunioni, i moduli da compilare, le procedure di
valutazione, tutte buffonate che invece, com'è evidente e come accade purtroppo
anche negli altri paesi, pesano e peseranno sempre di più sull'attività dei
docenti (ma qui parlo anche della ricerca e dell'Università) riducendo
l'efficienza e la produttività e producendo un costo crescente per la
collettività.
Sull'attuale
ordinamento universitario, posso parlare solo dal punto di vista dei
dipartimenti letterari, storici, filosofici, insomma le materie umanistiche,
quelle che una volta si chiamavano senza tante complicazioni le facoltà di
Lettere. In quell'ambito il 3+2 si è rivelato fallimentare e sta provocando
gravi danni. In primo luogo, data la spendibilità relativamente scarsa di una
laurea umanistica sul mercato del lavoro, e comunque la forte concorrenza per i
pochi lavori veramente appetibili in quest'ambito, nessuno studente di materie
umanistiche si accontenta della laurea triennale; tutti fanno anche la
cosiddetta magistrale, col risultato che il corso di studi si è allungato e
l'età in cui si comincia a cercare lavoro si è elevata: l'esatto contrario,
cioè, di quel che si credeva di ottenere con il nuovo sistema. In secondo
luogo, nelle materie umanistiche non è così facile separare formazione
universitaria di base e specializzazione, tanto più in un paese che ha ancora
dei buoni licei e dove ancora ai miei tempi la formazione universitaria era
tutta "specialistica" (pur essendo già rivolta a un pubblico
studentesco di massa). Da quando ogni università deve affiancare dei corsi
triennali e dei corsi magistrali, la spinta è a rendere sempre più elementari,
scolastici, gli insegnamenti triennali; quanto al contenuto dei corsi
magistrali, ogni università, anzi ogni docente ha dovuto inventarselo a modo
suo, in totale assenza di una riflessione
collettiva e di indicazioni utili da parte ministeriale, col risultato che
questi corsi spesso sono specialistici solo sulla carta. Aggiungiamo che molte
università italiane, tutte quelle piccole, non hanno le forze per creare
un'ampia offerta di corsi magistrali (o meglio, le forze le avrebbero anche, ma
il ministero glielo impedisce, vincolando rigidamente il numero dei corsi di
laurea offerti da una facoltà al numero dei docenti di ruolo) e quindi
diventano per forza università di serie B, da cui gli studenti tendono a
fuggire dopo la laurea triennale. Può darsi che il deliberato smantellamento
delle piccole università sia voluto dalla politica, ma sarebbe stato più onesto
affrontare la questione a viso aperto anziché arrivarci in questo modo.
L'Italia era uno dei pochi paesi a disporre di un sistema universitario in cui
tutte le università, grandi e piccole, offrivano un insegnamento egualmente
qualificato, anziché dividersi fra grandi atenei prestigiosi e università di
provincia per i poveri; con il 3+2 stiamo realizzando il capolavoro di
trasformare anche il nostro sistema in questa direzione.-----------------------------------------------
Alessandro Barbero
È praticamente impossibile ricordare tutti
i libri che Barbero ha pubblicato o citare la miriade di manifestazioni a cui
ha preso parte.
Vorrei indicare almeno la sua ultima opera, appena uscita presso i tipi della Laterza: Donne, madonne, mercanti e cavalieri, un testo che ritengo molto utile anche sotto il profilo strettamente didattico.
Per il resto, mi limiterò a segnalare le pagine
in cui sono elencati i suoi lavori, con inevitabili lacune.
Qui la pagina del sito della Laterza con i libri di Barbero e le presentazioni degli stessi.
Qui la pagina, sempre sul sito
della Laterza, con i commenti sul volume oggetto dell'intervista. Qui alcune recensioni sempre sulla stessa opera.
Qui la pagina di Google con tutti i rimandi ai suoi testi.
In questo blog, si trovano alcuni post
dedicati a Barbero.
Per quanto riguarda i video dell'A. e sull’A., vorrei
segnalare almeno quelli che si riferiscono in modo diretto all’argomento dell’intervista. Ciò che colpisce maggiormente, in Barbero, a parte la sua straordinaria
capacità di divulgazione, è la grande sincerità con cui racconta in modo magistrale la Storia,
citando fatti
ed esprimendo giudizi talvolta impietosi, anche sul Piemonte (la nobiltà piemontese, per esempio, considerata tra le più chiuse e conservatrici), su figure prestigiose della regione (a partire da Cavour),
sul Risorgimento. Di seguito, quindi, un elenco (anche qui incompleto) di filmati che lo riguardano:
a.
dibattiti alla libreria Laterza con Gennaro De Crescenzo (5-12-12)
e alla libreria “Torre di Babele” di Torino con Gigi Di Fiore (11-12-12) ;
b.
dibattito al Festival èstoria, Gorizia, maggio 2013;
c. su Cavour ;
f. su Garibaldi ;
g. ancora suGaribaldi ;h. Battaglie di Solferino e San Martino (la prima è vinta dai francesi, mentre la seconda rappresenta comunque una sconfitta dell’esercito sardo) ;
i. intervista sulla sua attività di narratore ;
Tutti video in cui Barbero esprime al
meglio le sue grandi doti di comunicatore e di divulgatore
di prim’ordine.
Doti che emergono anche nelle prestigiose lezioni su Radio 2, per esempio quella su Federico Il Grande (in venti puntate).
Doti che emergono anche nelle prestigiose lezioni su Radio 2, per esempio quella su Federico Il Grande (in venti puntate).
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Come per molti piemontesi, anche per Barbero il
francese rappresenta quasi una seconda lingua madre. Cfr.
ad esempio questo video in cui presenta la traduzione francese del suo Lepanto : La bataille des trois empires, Lépante, 1571, Éditions Flammarion, 2012.
Qui la presentazione in italiano dello stesso volume.
Qui la presentazione in italiano dello stesso volume.
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Di seguito, invece, alcuni articoli a favore di Barbero e di Bossuto-Costanzo:
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Fenestrelle,
la “Grande Muraglia” piemontese.
Creato per resistere ad eventuali attacchi
francesi, in tutta la sua storia non sparò neanche
un colpo. Aveva una guarnigione che poteva arrivare anche a 3.000
uomini.
In questo video, si accenna anche al
fatto che l’imponente complesso fortificato si trova in un’oasi
di lingua occitana (la lingua d’oc dei
trovatori, del sud della Francia).
“Forte in armi”. Associazione S. Carlo.
Rievocazione storica attraverso una cavalcata attraverso i secoli (dal
1600 alla seconda guerra mondiale) di uniformi, di armi e di cimeli di vario tipo. Sfilata nel paese di Fenestrelle, trasformato
in un luogo variopinto e senza tempo. Video intenso, suggestivo e didatticamente utile, perché valorizza usi e costumi del
passato. Componenti dei gruppi storici
preparati e motivati. Un modo
per riscoprire la memoria storica e le radici proprie e della terra in cui i partecipanti vivono.
Partecipanti che, per inciso, sono tutti volontari, animati
dalla passione di uniformi (a volte
autentiche e comunque fedelissime) e di armi (autentiche) del passato.