“Se pratico il lusso, non posso predicare il risparmio. È una questione di buona leadership”. Un imperativo categorico che aveva la consistenza di un biglietto da visita. Su di esso c’era il nome di un uomo battezzato Ingvar Kamprad, cresciuto nella fattoria Elmtaryd, all’interno del villaggio di Agunard, in Svezia. Mettete insieme le iniziali dei quattro nomi ed ecco venir fuori la sua creatura: IKEA.
Per il magazine Veckans Affarer era l’uomo più ricco del mondo. Forbes lo aveva piazzato al quarto posto. Tuttavia la primavera del 2005, con la perdita di valuta del dollaro americano, consegnò a Kamprad la testa indiscussa della classifica dei plurimiliardari planetari stimando la sua fortuna intorno ai ventotto miliardi di dollari americani (anche se per il provider tedesco T-Online i miliardi erano cinquantatré).
In ogni caso il suo vero record fu quello di miliardario più frugale. Era lui, infatti, l’uomo che meglio impersonava il concetto di low cost style con un rigore e una coerenza da far spavento. Negli spostamenti: volava in economy (“perché buttare i soldi in business, per un bicchiere di champagne?”), disdegnava grandi hotel e le automobili di lusso (aveva una Volvo vecchia di quindici anni ma andava in ufficio in metropolitana); nel mangiare (faceva la spesa quando il mercato sotto casa era in chiusura, evitava i ristoranti noti e pranzava spesso al self service del suo magazzino) o nei consumi: nel 2008 si lamentò per aver pagato ventidue euro un taglio di capelli nei Paesi Bassi, da quel momento ci pensò la moglie o se li faceva tagliare quando si trovava in paesi in via di sviluppo, come il Vietnam. E poi niente sprechi (ai dipendenti raccomandava di scrivere su entrambi i lati di ciascun foglio di carta, prima di buttarlo via); niente negozi (non indossava nulla che non fosse stato acquistato nei mercatini); niente extra (quando dal frigo bar di una camera d’albergo prendeva una bevanda, la rimpiazzava immediatamente con una comprata al supermercato).
Qualcuno diceva fosse tirchio, altri insinuavano che questo atteggiamento fosse parte integrante di una strategia di comunicazione. Lui diceva semplicemente: “Voglio dare il buon esempio”. In ogni caso la sua parsimonia entrò presto nella leggenda.
L’attività imprenditoriale di IK cominciò a cinque anni. Sempre con il legno. Già a quell’età aveva le idee chiare su ingrosso e dettaglio. Si recava da Agunnaryd a Malmoe in bicicletta, comprava pacchi di fiammiferi e li rivendeva, sciolti (quindi al dettaglio), ai suoi vicini. Poco dopo andò oltre: scoprì che poteva acquistare gli stessi fiammiferi a un prezzo molto più basso presso un fornitore di Stoccolma. In questo modo ottenne due vantaggi: il primo fu il maggior profitto, il secondo (legato al primo ma anche alla filosofia che perseguì poi) fu quello di potersi permettere di abbassare, anche se leggermente, i prezzi. A nove pensò bene di eliminare i fornitori: pescava lui stesso salmoni per recapitarli a domicilio. Poco dopo espanse il suo raggio vendendo decorazioni per alberi di natale, semi da giardino e successivamente matite (quelle che in seguito avrebbe regalato a bizzeffe).
Si ritrovò in piena adolescenza a creare una società di vendita per corrispondenza di quegli stessi articoli che venivano poi consegnati dal lattaio. Quando arrivò ai diciassette anni suo padre, per ripagarlo dei buoni risultati negli studi, gli regalò del denaro. Kamprad lo usò per costruire il suo stabilimento. Lo chiamò IKEA (acronimo in omaggio a se stesso e alle sue origini: la fattoria di famiglia dove era cresciuto e il piccolo villaggio nella provincia di Småland). E dieci anni dopo aprì il suo primo vero mobilificio. Partì dal basso: una sedia, una poltrona e un tavolino. Li fece costruire in una falegnameria vicino a casa e li mise in vendita a un prezzo del 30% più basso del mercato. In breve si allargò, acquistò a due soldi delle baracche abbandonate, cambiò le finestre e aprì il primo punto vendita IKEA, dove si poteva toccare e provare. I clienti venivano accolti con un caffè e un panino: “Nessuno compra mobili con la pancia vuota”.
A ventisette anni, età in cui i talenti a volte si spengono definitivamente, Ingvar si accese di intuizioni geniali. Un paio di queste lo avrebbero portato molto lontano. Riciclò gli scarti di lavorazione in nuovi mobili e chiese ai suoi designer di non progettare pezzi interi ma solo componenti: occupando meno spazio, avrebbero ridotto sia le spese di trasporto che quelle di magazzino. Chiese così ai suoi clienti di montarsi i mobili: “Tu fai la tua parte, noi facciamo la nostra”. E insieme risparmiamo.
Battezzò lui stesso ogni pezzo: nomi maschili per le cucine, femminili per le camere da letto. In questo ebbe un ruolo la sua dislessia, Kamprad aveva difficoltà a ricordare numeri di codici. La concorrenza rimase di sasso. Fu spiazzata da questo nuovo marketing e soprattutto fu schiacciata dal suo successo. Si alleò quindi per farlo fuori e arrivò a ricattare i fornitori: “O lui o noi”. Lui si fece consegnare la merce di notte.
Quando rimase inevaso un ordine di quaranta mila sedie si guardò intorno e le fece costruire a Varsavia. In Polonia scoprì, oltre alla delocalizzazione, anche la vodka. Sarebbe stato il peccato con il quale avrebbe convissuto. L’altro riguardò il suo passato: i trascorsi nazisti giovanili infettatigli dalla nonna (Hitler aveva annesso i Sudeti alla Germania). La vicenda venne a galla negli anni Novanta. Per IKEA si annunciò un immenso disastro d’immagine. Ma IK sapeva che il mondo funzionava come il suo magazzino. Così l’abitudine di scrivere lettere di scuse a clienti (per un prodotto malriuscito) e dipendenti (per una decisione sbagliata) lo portò a crearne una destinata al target ebraico: “È stato il più grande errore della mia vita. Perdonatemi”. E pace fu. Senza contare che IKEA si rivelò uno dei pochi rivenditori ad avere un deposito all’interno dello stato di Israele.
Mr. Ikea tenne tutti i suoi tre figli sulla corda. Erano in azienda, ma a sovranità limitata. Si diceva che li avrebbe diseredati, “solo” perché avessero il gusto di creare qualcosa d’altro. Una delle tante decisioni sapeva quasi di torneo: lasciare l’intero patrimonio al figlio che meglio avrebbe gestito Habitat, la catena di mobili nata nel 1992. Poi li responsabilizzò con quello che aveva: a Peter, oggi 54 anni, le redini di Ikano, la società lussemburghese che gestiva gli attivi della famiglia, a Jonas, 52 anni, l’artefice del design e dello sviluppo dei prodotti, l’amministrazione di Ingka Holding, a Mathias, 49 anni, gli affari della Ikea Holding. Quando lasciò, spese per loro finalmente parole smussate, ma per il bene della sua creatura: “In futuro fidatevi dei miei figli, abbiamo imparato insieme a lavorare e a non abbandonare le idee iniziali”.
Con trecentoquarantacinque centri di vendita sparsi in quarantadue paesi, il patrimonio della famiglia-azienda è stimato sui quaranta miliardi di euro. Kamprad possedeva di tutto, addirittura una linea ferroviaria Svezia – Germania. Dal 1973 visse in Svizzera, a Epalinges, cantone di Vaud, sul lago di Losanna. Non solo per amore delle montagne. Però è bello pensare che aveva scelto di farsi abbracciare dalle foreste. Nel 2014 tornò a casa. Con entrate limpide di quasi due milioni di euro ne pagava all’erario svedese seicento mila. Quando morì sua moglie Margaretha disse: “Alla fine mi sono detto che conta più vivere a casa, tra gli amici con cui sono cresciuto da ragazzo”. E visse gli ultimi anni dove tutto era cominciato, nello Smaland, dove erano venuti al mondo lui e la sua immensa creatura.
Voleva fare soldi, voleva farli con il legno. Desideri che aveva nel sangue: suo nonno si era ucciso perché non riusciva a ripagare il prestito con cui aveva comprato la fattoria; suo padre, che la ereditò, era guardaboschi.
Oggi il catalogo IKEA (centosettanta milioni di copie in ventiquattro lingue) è il testo più letto
al mondo. Dopo la Bibbia. Se possiamo credere che Dio creò il mondo, sappiamo con
certezza che Ingvar Kamprad lo arredò.
Piero Trellini, Nessuno compra mobili con la pancia vuota, "Il Post", 29-01-18.