Cerca nel blog

domenica 14 gennaio 2018

"J'Accuse...!" : 120 anni fa.


Dunque erano in sette. C’era una signora delle pulizie, un colpevole, un innocente, un indagatore, un sabotatore, un dilettante e un romanziere. Poi un inverno gelido, i malanni di due vecchi che si rivelarono decisivi e un paio di determinanti cadute da cavallo: la prima rivelatoria, la seconda definitiva. Ma anche una parata di graduati, dove però sarebbe stato l’ultimo della fila, un solerte tirapiedi, a rivelarsi risolutivo. E perfino un cronista, chiamato il Tigre, che si sarebbe fatto Primo Ministro. Con un universo intero dietro di loro, composto da politici, falsari, spie, nobili, eroi e vittime. Una umanità divorata dalle apparenze, dal potere, dalla verità, dall’orgoglio, dallo zelo o dalla coscienza. Un mondo che, dopo questa storia, il più incredibile giallo dei tempi moderni, sarebbe cambiato per sempre. Senza cambiare nulla.

Capitolo uno. L’affare della Section de statistiques
Tutto iniziò in una mattina come tante altre. Era il 25 di un settembre parigino del 1894 (alcuni però dicono che fosse il 26), nella Francia della Terza Repubblica, quella che si era lasciata alle spalle la sconfitta contro i prussiani e la caduta della Comune. Anni instabili ma prosperi, nonostante tutto. Quel giorno Madame Bastian, addetta alle pulizie dell’ambasciata tedesca spolverò come sempre la scrivania e svuotò il cestino della carta straccia dell’attaché militare Maximilian von Schwartzkoppen. Ma anziché gettare il suo contenuto nella pattumiera, lo esaminò con cura. C’era un foglio strappato in piccoli pezzi. E si accorse che su questi era stato scritto qualcosa. Parole che probabilmente non dovevano essere lette. Cosa c’era su quel foglio? E perché era stato strappato? La risposta per lei non era importante. Bastavano le domande a farle subito capire che, stavolta, il bottino era stato ghiotto. Così lo consegnò al maggiore Henry. Marie Bastian, infatti, non era solo una addetta all’ordine degli ambienti, ma anche a quello di stato: il suo secondo (o forse primo) stipendio rispondeva alla voce: servizi segreti per la causa nazionale. E quel lavoro doveva svolgerlo con una certa solerzia visti i duecentocinquanta franchi che il controspionaggio francese le passava solo per ottenere dei pezzi di carta finiti nel cestino. Il maggiore Hubert-Joseph Henry, era l’addetto alla vice-direzione del bureau di controspionaggio del Ministero della Guerra francese, chiamato, per salvare le apparenze, “Section de statistiques” (un po’ come l’“American Literary Historical Society” de “I tre giorni del Condor”). A quei tempi lo spionaggio era all’ordine del giorno, confidenti e informatori venivano retribuiti lautamente al punto da ricorrere a invenzioni di fantasia pur di mantenere il “posto” e giustificare così il proprio ruolo. Quella pesca però era stata autentica, ricostruendo i pezzi Henry scoprì che si trattava di un bordereau, una nota nella quale si elencava una lista di cinque documenti segreti (relativi all’organizzazione dell’esercito francese) che il misterioso autore si offriva di vendere ai tedeschi.
Il foglio trovato da Madame Bastian, anonimo e senza data, era indirizzato proprio a Schwartzkoppen, il titolare della scrivania.

“Pur in assenza di notizie che mi indichino se Lei desidera vedermi, Le invio intanto qualche informazione interessante:
  • una nota sul freno idraulico 120;
  • una nota sulle truppe di copertura;
  • una nota su una modifica alle formazioni di artiglieria;
  • na nota relativa al Madagascar;
  • il Progetto del manuale di tiro dell’artiglieria da campagna (è del 14 marzo 1894).
Il documento di cui al punto 5 è molto difficile da ottenere e io posso averlo a disposizione solo per pochi giorni. Il ministero della Guerra infatti ne ha inviato un numero stabilito ai reggimenti, ciascuno dei quali è responsabile della copia ricevuta. Ogni ufficiale che lo ha in consegna dovrà restituirlo dopo le manovre. Se Lei vuol ricavarne la parte che le interessa e poi farmelo riavere, me lo farò dare. A meno che Lei non preferisca che io lo faccia ricopiare integralmente e che io Le invii la copia. Sto per partire per le manovre”.
Henry pensò che solo un ufficiale di Stato Maggiore avrebbe potuto aver accesso a quei documenti. Gli alti ufficiali, però, appartenevano a una casta rigidamente selezionata di origine prevalentemente nobiliare. Pertanto li escluse subito. Restavano i giovani ufficiali, quelli che stavano svolgevano il tirocinio. I suoi sospetti, dunque, caddero su questi. Ne individuò cinque e tra di loro la sua attenzione fu calamitata da un solo nome: quello di un ufficiale di artiglieria, ebreo e alsaziano. Intanto il Vice-Capo di Stato Maggiore aveva informato il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il quale aveva trasmesso l’informazione al Ministro della Guerra, che l’aveva girata al Presidente, il quale l’aveva riferita al premier. Tutte le alte sfere dell’arma erano a conoscenza del fatto.
Capitolo due. L’accolita dei grafologi
Per trasformare quel nome in un colpevole c’era bisogno di conferme. E per trovarle servivano grafologi. Il primo uomo a essere coinvolto nelle indagini fu il maggiore Armand Mercier du Paty de Clam. Era un grafologo dilettante. Divoratore di letture poliziesche, esperto di parapsicologia, appassionato di occultismo e spiritismo, un talento nel far ballare i tavoli e far cantare i defunti. Forse per questo si reputava anche un fine psicologo. Quando il 7 ottobre 1894 fu incaricato di valutare la scrittura del documento ritrovato dichiarò subito, senza esitazioni, che tra la grafia del sospettato e quella del bordereauesisteva “una somiglianza sufficiente da giustificare una perizia legale”. Il responso incoraggiò il Ministro della Guerra, il Generale Auguste Mercier, a coinvolgere un esperto grafologo della Banca di Francia, Alfred Golbert. Costui accertò che nel bordereau c’ erano punti di contatto con la grafia del sospettato (nei caratteri generali), ma anche determinanti diversità (nei particolari). Le valutazioni incerte di Golbert spinsero il Ministro a salire di livello indirizzandosi verso Alphonse Bertillon. Figlio di un medico e nipote di Achille Guillard (lo statistico che aveva inventato la parola “demografia”), Bertillon era entrato come protocollista in Prefettura e si era interessato all’identificazione dei criminali (allora semplicistica e piuttosto grossolana). Nominato capofotografo alla questura di Parigi, nel 1882, ebbe l’intuizione di applicare dei criteri esatti all’identificazione dei criminali. Quando venne contattato da Mercier era il massimo specialista di fotografia giudiziaria. Il criminologo dirigeva il primo laboratorio di identificazione criminale (da lui fondato nel 1870) e la sua notorietà era legata all’invenzione dell’antropometria giudiziaria, un sistema di riconoscimento biometrico, adottato in Europa e negli Stati Uniti, che, sulla base della misura di una decina di parti del corpo umano, consentiva alle forze dell’ordine di verificare con un certo grado di certezza la singolarità di ciascuno. Bertillon, non era un perito grafico ma accettò l’incarico e, suggestionato anche dalle “prove schiaccianti” anticipategli dallo Stato Maggiore, arrivò alla conclusione che il sospettato era sicuramente l’autore del bordereau. Furono poi coinvolti i signori Pelletier, redattore al Ministero delle Belle Arti, Charavay, commerciante di autografi e Theyssonieres, incisore. Gli ultimi due, che avevano scelto di farsi supportare da Bertillon, avvalendosi di tesi approssimative (la perizia di Charavay, per esempio, era basata sul concetto di volontaria dissimulazione da parte dello scrivente), optarono per la colpevolezza del sospettato. Il parere dei tre (di cinque) calligrafi colpevolisti si rivelarono sufficienti per portare l’uomo individuato dal maggiore Henry davanti al Consiglio di Guerra con l’accusa di alto tradimento. Il 5 ottobre 1894 il bordereau venne così attribuito ufficialmente al sospettato: il capitano d’artiglieria dell’esercito francese Alfred Dreyfus.
Capitolo tre. Il sospetto
Dreyfus era un predestinato ad essere sospettato. Aveva trentacinque anni, era ricco, aveva una bella moglie, due bambini, una bella casa e molti amici. Un uomo invidiato ma irreprensibile, silenzioso, concentrato sul suo lavoro, che si teneva lontano dai pettegolezzi con i colleghi. Questo lo faceva apparire altezzoso. In realtà era solo discreto e un po’ introverso. Era originario di Mulhouse, in Alsazia. Dopo la sconfitta della Francia con la Prussia, nel 1870, e la conseguente cessione dell’Alsazia ai tedeschi l’anno successivo, aveva scelto senza indugi la nazionalità francese. Sull’accusa che gli stava per piombare addosso la sua origine alsaziana e il suo essere ebreo erano stati determinanti. In realtà il suo attaccamento alla Francia era sincero al punto da indurlo a decidere di lasciare l’industria di famiglia per dedicarsi al mestiere delle armi. Sognava la revanche contro i tedeschi, aveva da poco terminato la Scuola di Guerra (classificandosi tra i primi dieci su ottantuno partecipanti al corso) e da pochi giorni stava effettuando uno stage presso il ministero della Guerra con altri giovani ufficiali. Le sue condizioni economiche erano più che floride: la sua famiglia poteva contare sul suo stipendio, su una rendita di circa quattrocentomila franchi e sulla cospicua dote della moglie, Lucie Hadamard, ebrea anch’essa, figlia di un facoltoso commerciante di diamanti. Un tradimento per simpatie tedesche o per lucro era a dir poco improbabile. Così come era inverosimile che un ufficiale come Dreyfus, uscito così brillantemente dal Politecnico potesse avere commesso quegli errori così grossolani che comparivano nella nota (avrebbe scritto ad esempio “dont s’est comportée” anziché “dont se conduite” o usato “partir aux” al posto di “partir en”).
Dunque, riassumendo: Madame Bastian trovò la lettera nel cestino dell’addetto militare tedesco von Schwartzkoppen, la consegnò al maggiore Henry che ingaggiò i 5 grafologi. I pareri non furono unanimi ma l’arma doveva essere preservata e il sospetto cadde sull’ufficiale di artiglieria ebreo e alsaziano Dreyfus. Cominciò così.
Capitolo quattro. Scoppia l’affaire
Sabato 13 ottobre, un sergente di servizio al Ministero della Guerra si presentò all’abitazione del capitano al 6 di Avenue du Trocadero per consegnare un ordine di servizio relativo a un’ispezione generale: “Il capitano dovrà presentarsi lunedì 15, alle ore 9, al Ministero della Guerra dal Generale Auguste Mercier”. Due giorni dopo Dreyfus arrivò in anticipo, ma non trovò nessuno dei suoi colleghi. Ad attenderlo c’era il maggiore Georges Picquart, dello Stato Maggiore, che lo fece accomodare nel suo ufficio. Parlarono per qualche minuto di cose banali, non sapevano ancora che i loro destini da quel momento in poi si sarebbero indissolubilmente legati per tutta la vita. Poi Picquart lo scortò negli uffici del capo di Stato Maggiore. Qui li aspettava il maggiore du Paty de Clam, il quale saltò protocolli e convenevoli e invitò bruscamente Dreyfus a scrivere una lettera. Il fine psicologo che era in lui gli fece scegliere di dettargli proprio i riferimenti al freno idraulico del cannone della nota, per fargli paura. Ma Dreyfus non capì. Du Paty, allora, si adirò e cercò di farlo cadere: “Cosa ha capitano? Sta tremando!”. Dreyfus non gli diede soddisfazione, da buon militare si limitò a obbedire e, per quanto sorpreso, proseguì a scrivere. Finché du Paty si sentì fiero di esclamare: “In nome della legge, la arresto. Lei è accusato di alto tradimento”. Tre uomini in borghese si precipitarono su Dreyfus, lo afferrarono per le braccia e lo perquisirono. Dreyfus rimase inebetito. Se solo Kafka fosse vissuto prima, il capitano avrebbe trovato nel suo “Processo” la traduzione catartica della sua angosciosa sensazione. Spaventato, inizialmente proferì parole senza senso, fino a quando, indignato, reagì: “Ecco, prendete le chiavi, frugate tutta la mia casa, sono innocente! Mostratemi le prove dell’infamia che avrei commesso! Du Paty, sfogliando nervosamente il Codice Penale, lo accontentò: “Articolo 76: chiunque intrattenga rapporti di spionaggio con potenze straniere sarà punito con la pena di morte!”. Dreyfus era ancora più sconvolto. Il capo della Sureté di Parigi gli mostrò allora, non senza una certa discrezione, una pistola poggiata fra un mucchio di carte. Era l’estremo invito al traditore perché si facesse giustizia da solo. Du Paty de Clam uscì dalla stanza. Tutti aspettavano il colpo di pistola. Ma lo sparo non arrivò. Du Paty rientrò, stavolta scortato dal maggiore Henry che, nascosto dietro una tenda, aveva assistito a tutta la scena. Il vice comandante dell’Ufficio di Statistica mormorò sdegnato: “Vigliacco!”. Dreyfus lo sentì e replicò: “Non mi uccido perché sono innocente e per dimostrarlo dovrò vivere!”. Il capitano alsaziano venne rinchiuso in una cella di segregazione (con il divieto assoluto di comunicare con l’esterno, famiglia compresa) nella quale venne interrogato a oltranza dal comandante del carcere, il maggiore Ferdinand Forzinetti. Costui, dopo due settimane, arrivò a pensare che l’uomo fosse innocente.
Capitolo cinque. Sbatti il mostro in prima pagina
Intanto la stampa annusò qualcosa. Il 29 ottobre ci arrivò La libre parole (in un trafiletto di sei righe si domandava: “Se è vero che recentemente è stato operato un arresto molto importante per spionaggio, perché l’autorità militare serba un silenzio assoluto?”). Il 31 ottobre l’agenzia ufficiale Havas citava “l’arresto provvisorio di un ufficiale sospettato di aver comunicato a uno straniero alcuni documenti di scarsa importanza ma di natura confidenziale”. La sera stessa, lo scoop. Lo fece Le Soir rivelando il nome del traditore: “L’ufficiale in questione si chiama Dreyfus”. Il giorno dopo La libre parole riprendeva le redini (“L’indegno ufficiale è il capitano Dreyfus”. Henry inviò ai giornali un comunicato anonimo: “L’affare sarà soffocato perché l’ufficiale è israelita. Arrestato da quindici giorni, ha fatto una confessione completa e si ha la prova assoluta che ha venduto i nostri segreti alla Germania”. Il giorno successivo tutti i quotidiani sbatterono il mostro in prima pagina, sbizzarrendosi con tesi personali: per Le petit journal, Dreyfus era sospettato da tempo ed è stato colto in una trappola tesagli dal controspionaggio, secondo Le Matin la condotta del capitano era stata ispirata da un desiderio di “rivalsa personale”, La Verité suggeriva al Presidente della Repubblica di “vietare subito agli ebrei la carriera militare”. Il più agguerrito era Edouard Drumont, figlio di un decoratore di porcellane, fondatore, nel 1889, della Lega Antisemitica di Francia ed editore del giornale La Libre Parole, principale organo dell’antisemitismo e dell’anticapitalismo parigino. Sul suo giornale attaccò: “Gli ebrei come Dreyfus sono probabilmente solo spie in sottordine, che lavorano per i grandi finanziari israeliti. Sono i meccanismi del grande complotto ebraico che ci consegnerebbe al nemico”.
Il 7 ottobre 1894, il generale Félix Gustave Saussier, vicepresidente del Consiglio supremo per la difesa nazionale e governatore militare di Parigi, si presentò all’ufficio del Ministro degli Esteri Gabriel Hanotaux, per chiedergli di interrompere qualsiasi indagine. Quest’ultimo concordava: “Oltretutto se andassimo avanti si scoprirebbe come siamo venuti in possesso del bordereau”. Ma l’affaireormai era pubblico e il Governo si decise ad andare avanti. Il 3 novembre Saussier fu costretto a dare corso alla giustizia autorizzando l’apertura dell’istruttoria, che venne affidata al Comandante Alexandre Bexon d’Ormescheville, durò quasi un mese (dal 7 novembre al 3 dicembre), nulla aggiunse a quanto si fosse già appurato e sfociò in un atto d’accusa. Il processo venne fissato per il giorno 19 dicembre, in una sala della prigione di Cherche-Midi.
Capitolo sei. Il processo
Il 19 dicembre il processo del tribunale militare iniziò a porte chiuse. Dreyfus si sentiva fiducioso (“Sono finalmente giunto al termine del mio martirio”, scriveva dal carcere alla moglie). Non percepiva minimamente come l’atmosfera intorno a lui fosse così furiosamente colpevolista. La stampa antisemita lo aveva già sotterrato, dipingendolo anche come un marito infedele e un giocatore incallito. La prova dell’accusa era nelle mani della perizia calligrafica di Bertillon. Il Pubblico Ministero, naturalmente, assecondò i venti colpevolisti: Dreyfus era l’emblema dell’uomo immorale. I testimoni della difesa giurarono tutti sull’onestà del capitano. Tra quelli a carico du Paty perseverò sulle prove “psicologiche”, mentre Bertillon si addentrò in una tesi nuova di zecca (suggeritagli dalla perizia di Charavay): l’autofalsificazione. Pur di prevenire un eventuale smascheramento, per dimostrare che la grafia era quella dell’imputato, la decrisse come il frutto di un artificio finalizzato ad alterare la propria scrittura. La sua tesi era corredata da tavole fotografiche nelle quali i pezzi del mosaico della nota venivano ingranditi, deformati o rimpiccioliti al servizio della teoria. Dreyfus ne usciva fuori come un genio del crimine, il cui unico desiderio era quello di rovinare una Francia che odiava. Per sentirsi maggiormente al sicuro il maggiore Henry si fece richiamare alla sbarra: “Mi sento in dovere di dirvi che una persona rispettabile, di cui non posso fare il nome, mi aveva avvertito fin da marzo del fatto che un ufficiale del Ministero della Guerra tradiva e questa stessa persona mi aveva precisato in luglio che il traditore apparteneva al Secondo Ufficio e – esclamò indicando platealmente Dreyfus – il traditore è qui, davanti a voi!”. Dreyfus a quel coup de théâtre sobbalzò in piedi invocando il nome del confidente. “Spiacente – rispose laconico Henry – nella testa di un ufficiale ci sono segreti che neppure il suo copricapo può conoscere!”. Il Presidente del tribunale si limitò a far giurare Henry “sul suo onore di militare” che il traditore fosse proprio Dreyfus. Il maggiore giurò.
Capitolo sette. La sentenza
Il processo si chiuse dopo soli tre giorni. Quando i giudici si ritirarono in Camera di Consiglio Dreyfus si rivolse speranzoso Edgar Demange, il suo avvocato: “Sarai assolto – lo rassicurò questi – non sono riusciti a tirare fuori alcuna prova”. La camera di Consiglio però fu più lunga del previsto. “Se è così, perché ci mettono tanto?”, rispose Dreyfus. Demange non seppe cosa dire. E non sapeva nemmeno cosa stesse accadendo nell’altra stanza. A insaputa sua e di tutti gli altri, infatti, in palese violazione delle norme processuali, in quelle ore veniva presentato ai giudici, un dossier segreto contenente tre documenti (i frammenti di una nota di Schwartzkoppen,  ai suoi superiori di Berlino, una lettera dell’addetto militare italiano Alessandro Panizzardi al suo omologo tedesco Schwartzkoppen e una dichiarazione di Henry), corredati da un comento firmato da du Paty nel quale garantiva che i riferimenti delle lettere riguardavano tutte Dreyfus. La lettera di Panizzardi in particolare riferiva “Le accludo 12 piani direttivi di Nizza, che quella canaglia di D. mi ha dato per lei…” (in realtà era stato appurato che “quella canaglia di D.” era un certo agente Dubois, ma dal fascicolo era stato omesso il documento che lo dimostrava).
Il 22 dicembre, all’unanimità, il tribunale condannò Dreyfus alla degradazione con infamia e alla deportazione perpetua ai lavori forzati nella colonia penale all’Isola del Diavolo, al largo delle coste della Caienna (in realtà, secondo la legge 23 marzo 1872, promulgata in occasione della deportazione di coloro che avevano partecipato alla Comune di Parigi l’anno precedente, a Dreyfus spettava la meno amena Nuova Caledonia). La cerimonia della degradazione ebbe luogo alle otto e quarantacinque del 5 gennaio 1895, nel cortile della Scuola Militare. Dreyfus continuò a ripetere che era innocente, che amava la patria, che era un marito fedele e che non aveva bisogno di soldi. “Perché avrei dovuto tradire?”. Ma fu insultato e messo a tacere, gli vennero strappati i gradi e spezzata la spada di ordinanza. Il 21 febbraio 1895, l’ex capitano venne condotto nella famigerata Île du Diable(così battezzata dai francesi quando un secolo prima avevano occupato questo angolo del Nuovo Mondo, la Guyana francese, in Sud America). La colonia penale di Cayenne era piccola e “infinitamente triste”, lunga 1200 metri e larga 400. A quel minuscolo inferno bastavano due guardiani: l’oceano e la giungla. Squali e correnti da un lato, animali e malattie dall’altro. In cielo pipistrelli, nelle acque i piranha. Impossibile uscirne vivi (sì, è quella del romanzo e del film “Papillon”). Ai nazionalisti non bastò, la condanna venne reputata troppo benevola, quel traditore avrebbe meritato la pena di morte.  Fecero poi subito i calcoli: sorvegliare e sfamare quel traditore sarebbe costato allo Stato almeno 40.000 franchi l’anno. Sull’altro fronte, quello più ristretto familiare, la moglie e il fratello di Dreyfus, Mathieu, si mobilitarono immediatamente per cercare di riaprire il caso.


Capitolo otto. L’inverno gelido della stagione 1895-96
Dreyfus iniziò così a vivere fuori dal mondo non sapendo nulla di quanto accadesse in Francia e intorno al suo caso. Si perse la grande proiezione pubblica avvenuta il 28 dicembre, proprio nella sua città, al Salon indien del Grand Café dell’hotel Scribe, al numero 14 del boulevard des Capucines, a mezz’ora di Lungosenna da casa sua, quando Antoine Lumière presentò per la prima volta la sua strabiliante invenzione: il cinema. Appena cinque anni dopo Georges Méliès, l’altro grande pioniere della Settima Arte, usando quella invenzione, farà un film su di lui (il primo di una lunga serie).
L’inverno gelido della stagione 1895-1896 si rivelò però fatale per molti francesi e innescò due eventi che risulteranno cruciali nella vicenda. Si ammalarono gravemente il colonnello Jean Sandherr, capo dell’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore, e la madre del maggiore Henry. Il primo fu indotto a lasciare il posto al tenente colonnello Georges Picquart. Il secondo, costretto a partire per la provincia per assistere la genitrice, fu obbligato a passare l’ultima consegna ricevuta da Madame Bastian direttamente all’ufficio di Picquart. Questo incrocio di costrizioni cambiarono il corso della storia. Tra quelle carte Picquart trovò un telegramma senza timbro postale (scritto, quindi, e non spedito). Ricompose i pezzi e lesse il messaggio. Non gli disse molto, ma vi trovò un indirizzo: “Monsieur le Commandant Esterhazy 27, rue de la Bienfaisance, Paris”.
Picquart era un uomo studioso e appassionato (si dilettava anche con il pianoforte). Aveva frequentato l’Accademia dello Stato Maggior (dove era stato il secondo della sua classe) ed era divenuto docente presso l’ “École supérieure de guerre”. Uno dei suoi studenti era stato Alfred Dreyfus. Di Esterhazy, invece, non ne aveva mai sentito parlare. Fece quindi fotografare il telegramma e prese informazioni su di lui. Scoprì che Ferdinand Walsin Esterhazy discendeva alla lontana da un’illustre casata ungherese (risalente a sua volta, così sosteneva lo stesso maggiore, addirittura a Attila). Figlio di un generale di Napoleone III, del padre aveva ripercorso le tappe, intraprendendo senza voglia né gloria la carriera militare. Sottotenente nella Legione d’Antibes, si arruolò nella Legione straniera francese con la quale partecipò alla guerra franco-prussiana del 1870. Sempre in congedo per malattia, a cinquant’anni, vestiva appena i panni del maggiore di fanteria. Era in compenso un giocatore sfrenato, oberato dai debiti di gioco, che aveva abbandonato la famiglia per andare a vivere con una donna di facili costumi, tale Marie Pays, in arte “Marguerite”. Da tempo Esterhazy chiedeva di essere trasferito al Ministero della Guerra, Picquart trovò il dossier con le sue richieste, lo esaminò e si accorse di un particolare impressionante. La sua calligrafia era esattamente uguale a quella del bordereau.
Diversi generali di alto rango avvertirono Picquart di nascondere la sua scoperta, ma il colonnello continuò le indagini. In queste fu ostacolato e sabotato, in particolare dal maggiore Henry. Superò gli ostacoli e si rivolse al generale de Boisdeffre: “Ho scoperto un’altra spia”, fece sapere senza dare altre spiegazioni. “Vada avanti con le indagini”, gli rispose il generale. Sottopose le lettere di Esterhazy a Bertillon, ma senza dirgli chi fosse il vero l’autore. Bertillon non ebbe dubbi: “È la stessa mano del bordereau, sono di Dreyfus”. Picquart andò avanti e riesaminò il dossier che aveva fatto condannare il capitano. Ne comprese così l’assoluta inconsistenza. Inviò un rapporto riservato a de Boisdeffre: “Il bordereau non è stato scritto da Dreyfus, ma da Esterhazy”. Era lui la spia al soldo dei tedeschi. L’uomo che forniva informazioni all’addetto militare a Parigi, von Schwartzkoppen. De Boisdeffre andò su tutte le furie, fece rientrare il suo vice Charles-Arthur Gonse dalle vacanze e gli affidò la patata bollente. Quest’ultimo, di fronte alle obiezioni di Picquart, si limitò a erigere un muro: “Spiacente, ma la colpevolezza di Dreyfus non può essere messa in discussione”.
Capitolo nove. La provvidenziale caduta da cavallo di Picquart
Il 14 settembre dello stesso mese, intanto, il giornale L’Eclair affermava che Dreyfus era stato condannato sulla base di documenti segreti. Due giorni dopo, il 16, la moglie di Dreyfus indirizzava una petizione al Parlamento per chiede la revisione del processo. Intanto gli eventi non si arrestavano. Il 6 novembre, Bernard Lazare, brillante giovane avvocato ebreo, che lavorava d’accordo con la moglie ed il fratello del prigioniero, inviava a duemila personaggi illustri (tra politici e uomini di cultura) un libretto dal titolo “Une erreur judiciaire. La verité sur l’Affaire Dreyfus”, nel quale si dimostrava come il capitano fosse stato condannato in base a prove illegali. Il 10 novembre, finalmente il famoso bordereau di cui tutti avevano sentito parlare, veniva pubblicato da due quotidiani, Le Matin ed il solito L’Eclair.
Assieme al documento incriminato, vennero pubblicati anche alcuni documenti del dossier segreto. Si pensava così di chiudere il caso, eliminando qualsiasi dubbio sulla colpevolezza del capitano. Ma queste rivelazioni produssero in realtà l’effetto opposto, giacché risultava evidente la differenza di calligrafia con quella di Dreyfus. Molti intellettuali presero le sue difese: filosofi, politologi,  sociologi, storici, economisti, scrittori (tra i quali Marcel Proust), attori e pittori. Tra questi ultimi sfilavano gli impressionisti Monet, Pissarro e Toulouse-Lautrec ai quali, tra gli antidreyfusardi, si opose il loro collega Degas.
Qualche giorno dopo, il 16, il generale de Boisdeffre rimosse il colonnello Picquart dalla guida dei servizi segreti (presa da Henry), lo allontanò da Parigi e lo spedì verso est in una zona di guerra. Il 22 Picquart venne raggiunto da un ordine di Gonse: “Prosegua la missione nella zona delle Alpi senza tornare a Parigi”. Sei settimane dopo ricevette un altro ordine: “Si rechi a riorganizzare il Servizio Informazioni nelle zone di guerra di Algeria e in Tunisia”. Qui, nella primavera del 1897, venne disarcionato da un cavallo, infortunandosi. Fu una caduta provvidenziale. Per due motivi. Proprio in quel momento venne fulminato da un pensiero: “Se fossi morto, il segreto di Dreyfus sarebbe morto con me”. L’infortunio, poi, gli permise di essere condotto in congedo a Parigi.
Qui poté rivelare all’amico e avvocato Louis Leblois, sindaco del VII Arrondissement di Parigi, i suoi sospetti su Esterhazy, Leblois ne parlò a Charles Risle, sindaco della città, nonché nipote dell’anziano vice presidente del Senato Auguste Scheurer-Kestner e il 13 luglio dello stesso anno, ritornando in battello da un pranzo di alsaziani, grazie a questi due gradi di separazione, Leblois, riuscì finalmente a raccontare la vicenda a Scheurer-Kestner.  Il vice presidente del Senato rimase sconvolto, la sera annotò nel suo diario poche parole che raccontavano però l’intera storia: “Il ministro ha difeso la condanna di Dreyfus. Dicendo una sola parola Picquard è scoperto, il generale Gonse indovinerebbe la fonte dell’indiscrezione. Il maggiore Henry sa tutto”. Scheurer-Kestner proeguì il circolo virtuoso innescato da Leblois. Senza mai nominare Picquard fece sapere alla moglie di Dreyfus che era certo dell’innocenza del marito. Poi diffuse la stessa versione tra i suoi amici. La voce si sparse, iniziò a camminare da sola, attraversò tutta Parigi, creò imbarazzo tra i militari e arrivò al ministro Billot.
Capitolo dieci. Il clan militare degli antidreyfusardi
Il 16 ottobre a Parigi i capi militari si riunirono per mettere a punto una strategia. C’erano tutti: Gonse, Henry e du Paty. Tre erano anche i punti fermi nell’ordine del giorno: confermare la colpa di Dreyfus, spegnere il tentativo di revisione del processo e salvare Esterhazy. I tre decisero così di rafforzare il dossier Dreyfus, screditare Picquart e mettere in guardia Esterhazy. Il clan militare degli antidreyfusardi si mise all’opera.
Henry si armò di forbici e calamaio, recuperò vecchi documenti, tagliò date, sostituì indirizzi e trasformò P. in D.
Per affossare Picquart, del quale ormai occupava la posizione, ignorando l’esistenza di una fotografia del documento (scattata in via precauzionale da Picquart stesso) cancellò l’indirizzo del telegramma e lo riscrisse sopra, per poter poi sostenere che era un falso costruito a tavolino.
Per salvare Esterhazy si organizzò invece un incontro segreto serale al parco di Montsouris. Si presentò un uomo con occhialoni verdi, avvolto da un pesante mantello. Era du Paty, che, dall’alto del suo intuito psicologico, consigliava al capitano di rivolgere un appello al Presidente della Repubblica Félix Faureaffinché difendesse la sua onorabilità.
Da Faure, pochi giorni dopo, si presentò invece Scheurer-Kestner in cerca di appoggi per la causa dei dreyfusardi. Il giro proseguì con il Presidente del Consiglio, il Ministro della Guerra, il Ministro della Giustizia e tutti gli altri alti vertici.  Le sue appassionate invocazioni però non incontrarono gli entusiasmi sperati. Il 16 novembre Mathieu Dreyfus su sollecitazione dell’avvocato Leblois, inviò una lettera aperta indirizzata al Ministro della Guerra Billot e pubblicata sul quotidiano Temps. “Mio fratello è stato condannato sulla base del solo bordereau che però non era opera sua ma era stato scritto dal maggiore di fanteria conte Walsin-Esterhazy. La calligrafia del maggiore Esterhazy è identica a quella del documento incriminato. Non dubito, signor Ministro, che ella vorrà fare pronta giustizia”.
La lettera provocò il terremoto sperato. Il nome di Esterhazy diventò in questo modo di dominio pubblico, i cronisti di tutti i giornali si precipitarono a cercarlo, lui non si fece trovare, in compenso l’agenzia Havas ricevette una sua comunicazione che i giornali pubblicarono il giorno seguente. Si trattava di una lettera rivolta da Esterhazy al Ministro della Guerra Billot: “Signor Ministro, leggo nei giornali del mattino l’infame accusa diretta contro di me. Le chiedo di fare una inchiesta e sono pronto a rispondere a tutte le accuse”. Esterhazy contava ovviamente sull’appoggio delle sue influenti amicizie nelle alte sfere militari.
Il 5 dicembre due interpellanze fecero arrivare il caso alla Camera dei deputati. Il Primo Ministro Mèline, dichiarò solennemente: “Non esiste alcun affaire Dreyfus”. Tre giorni dopo, al Senato, toccò all’anziano vice Presidente Scheurer-Kestner salire in tribuna per l’ultima volta. Non poteva fare il nome di Picquart ma ci mise tutto il suo ardore per convincere i presenti dell’innocenza di Dreyfus: “L’onore di un esercito si tutela, non perseverando negli errori commessi, ma riparando e ripristinando la giustizia”. Ma l’aula si voltò altrove.
I capi militari si trovarono però costretti a condurre un’inchiesta. Per sbrigare la pratica nel modo più indolore possibile coinvolsero il generale Gabriel de Pellieux, già fermamente convinto della colpevolezza di Dreyfus. L’inchiesta finì così come doveva finire: considerando fuori causa Esterhazy (dal momento che il telegramma con il suo nome non costituiva prova) e additando Picquart come un “agente dei difensori di Deyfus”. Nelle stesse ore l’appartamento di Picquart venne messo a soqquadro e perquisito. Poche settimane dopo, il 10 gennaio 1898, iniziò il processo a Esterhazy nella vecchia corte militare di rue Cherche-Midi (la medesima sede di quello di Dreyfus). La testimonianza di Picquart venne rilasciata a porte chiuse “per proteggere i segreti militari”. Esterhazy espose i fatti garbatamente, ponderando ogni singola parola. Bastò questo. Il giorno dopo la corte si riunì e furono sufficienti tre minuti per deliberare. Esterhazy, sotto gli occhi del pubblico che venne ammesso per assistere all’missione del verdetto, venne assolto con formula piena.
Capitolo undici. L’incredibile débâcle dei dreyfusardi
L’assoluzione scatenò manifestazioni di euforia in tutta Parigi. Era come se la Francia avesse vinto una guerra.  Migliaia di persone si affollavano all’uscita per abbracciare quello che consideravano un martire. Esterhazy era diventato un simbolo, rappresentava l’eroe dell’orgoglio nazionalista e la sua immagine non l’avrebbero scalfita nemmeno le dichiarazioni rese pubbliche provenienti dalle sue lettere inviate a Madame Boulancy (“Non farei male neppure a un cane, ma lascerei uccidere tranquillamente centomila francesi con piacere”). Il mattino seguente, 12 gennaio, un gendarme si recò a casa di Picquart per arrestarlo. Venne rinchiuso nella fortezza di Mont Valérien. Nell’isola di Dreyfus invece vennero aumentate le guardie, costruita una torre di avvistamento sulla quale cima venne collocata una mitragliatrice.  Dreyfus non riusciva a comprendere, non sapeva nulla, da tre mesi non riceveva neanche una cartolina e le guardie avevano l’ordine di non rivolgergli la parola. Per i francesi i traditori erano stati definitivamente smascherati dall’acume delle alte gerarchie militari. Potevano esultare per aver ritrovato la fede nei loro capi, tornare a sentirsi orgogliosi e dormire finalmente sonni tranquilli.
Sembrò la fine. Invece accadde qualcosa di assolutamente inaspettato. Un colpo di scena che avrebbe cambiato tutto. Per sempre.
Capitolo dodici. Il risveglio di Zola e la mossa del Tigre
Tra gli uomini di cultura convinti dell’innocenza di Dreyfus, c’era stato un giovane scrittore (il cui viso avrebbe avuto una incredibile somiglianza con il futuro Cancelliere del Reich), Marcel Prévost. Scriveva di faccende amorose nell’alta borghesia e aveva molte conoscenze nei salotti parigini. Era anche un amico di Emile Zola, in quel momento lo scrittore francese più tradotto all’estero. I suoi libri scintillavano in bella mostra in tutte le case della classe sociale ritratta da Prévost: da “Thérèse Raquin” a “La bestia umana”, passando per “Germinal” e “Nanà”. Lo scrittore era già uno dei leader culturali della sinistra francese (anche se poco prima, in contrasto con la sua attività sociale, si era rifiutato di aderire con la sua firma ad una petizione del 1896 per chiedere la grazia per Oscar Wilde, lo scrittore che aveva definito il suo “Thérèse Raquin” un “capolavoro dell’orrido”), ma per molto tempo non sembrò interessarsi del capitano Dreyfus. Fu proprio Prévost a parlargliene e a metterlo in contatto con l’avvocato Leblois. Gradualmente la coscienza di Zola si risvegliò.  Il 25 novembre 1897 scrisse su Le Figaro un pezzo a favore di Dreyfus che terminava con la frase “La verità è in marcia”. Sarebbe stato l’ultimo articolo dreyfusardo pubblicato dal giornale. Zola non si fermò e progettò di scrivere un romanzo sulla vicenda. Stava lavorando su questo quando giunse la notizia dell’assoluzione di Esterhazy. A quel punto in lui tutto cambiò. Doveva fare qualcosa. Subito.
La linea editoriale di Le Figaro aveva subito una brusca virata antidreyfusarda perciò lo scrittore si rivolse a L’Aurore, un giornale ancora combattivo al cui interno lavorava il più grintoso dei capiredattori: Georges Clemenceau, per tutti “il Tigre”.
Clemenceau veniva da una famiglia solidamente anticlericale e repubblicana (suo padre Benjamin aveva preso parte ai moti del 1848), da studente aveva pubblicato due giornali di orientamento radicale (e aveva per questo scontato qualche settimana in carcere), si era laureato in medicina, aveva vissuto per quattro anni negli Stati Uniti d’America, aveva sposato una sua allieva, Mary Plummer, dalla quale si era poi separato. Per gran parte della sua vita Clemenceau aveva vissuto solo e il suo unico rifugio passionale si era chiamato politica. Ritornato in Francia, prima era diventato  sindaco di Montmartre nel 1870, poi nell’Assemblea Nazionale nel 1870 si era opposto con forza alle condizioni di pace imposte dalla Germania al termine della guerra franco-prussiana. Era stata questa sua decisione a fargli guadagnare il soprannome di Tigre. Dieci anni dopo aveva fondato il giornale La Justice e aveva iniziato la sua campagna contro l’antisemitismo.
Zola, lavorò per un giorno e due notti. La mattina del secondo giorno, il 12 gennaio 1898, consegnò dunque a Clemenceau cinque cartelle di testo fitto e furioso. Su quei fogli, chiamando in causa il presidente della Repubblica Faure, Zola descrisse i fatti, passò all’affondo contro Esterhazy e il collegio militare giudicante, elogiò Scheurer-Kestner e Picquart ed infine, consapevole del rischio che andava a correre (lui stesso, nel suo discorso all’Assemblea generale degli studenti di Parigi del 1893, aveva detto “La questione è sapere se con la verità si farà mai la felicità”), muoveva il suo puntuale attacco: “Accuso” il colonnello du Paty de Clam, il generale Mercier, il generale Billot, il generale Pellieux, il maggiore Ravary, i tre periti grafologi, signori Belhomme, Varinard e Couard, il ministero della Guerra e il primo consiglio di guerra. Il titolo non aveva nulla di giornalistico: “Lettera al signor Félix Faure, presidente della Repubblica”. Clemenceau, capì immediatamente che non poteva funionare. Prese una grossa matita, lo cancellò e poi, prelevando l’intimazione dalla stessa lettera, scrisse con grafia sicura: “J’accuse”. E con quel titolo il pezzo sarebbe entrato nella storia.
Capitolo tredici. J’accuse


Signor Presidente, (…) per ordine di un Consiglio di Guerra è stato scagionato Esterhazy, ignorando la verità e qualsiasi giustizia. È finita, la Francia ha sulla guancia questa macchia, la storia scriverà che sotto la Vostra Presidenza è stato possibile commettere questo crimine sociale. E poiché è stato osato, oserò anche io. La verità, la dirò io, poiché ho promesso di dirla, se la giustizia, regolarmente osservata non la proclamasse interamente. Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell’uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso. Ed è a Voi signor Presidente, che io griderò questa verità, con tutta la forza della mia rivolta di uomo onesto. In nome del Vostro onore, sono convinto che la ignoriate. E a chi dunque denuncerò se non a Voi, primo magistrato del paese? Per prima cosa, la verità sul processo e sulla condanna di Dreyfus. Un uomo cattivo, ha condotto e fatto tutto: è il Luogotenente Colonnello du Paty de Clam, allora semplice Comandante. La verità sull’affare Dreyfus la saprà soltanto quando un’inchiesta legale avrà chiarito i suoi atti e le sue responsabilità. Appare come lo spirito più fumoso, più complicato, ricco di intrighi romantici compiacendosi al modo dei romanzi feuilletons, carte sparite, lettere anonime, appuntamenti in luoghi deserti, donne misteriose che accaparrano prove durante gli appuntamenti. È lui che immaginò di dettare l’elenco a Dreyfus, è lui che sognò di studiarlo in una parte rivestita di ghiaccio, è lui che il Comandante Forzinetti ci rappresenta armato di una lanterna, volendo farsi introdurre vicino l’accusato addormentato, per proiettare sul suo viso un brusco raggio di luce e sorprendere così il suo crimine nel momento del risveglio. Ed io non ho da dire altro che se si cerca si troverà. Dichiaro semplicemente che il Comandante du Paty de Clam incaricato di istruire la causa Dreyfus, come ufficiale giudiziario nel seguire l’ordine delle date e delle responsabilità, è il primo colpevole del terribile errore giudiziario che è stato commesso. L’elenco era già da tempo nelle mani del Colonnello Sandherr direttore dell’ufficio delle informazioni, morto dopo di paralisi generale. Ebbero luogo delle fughe, carte sparivano come ne spariscono oggi e l’autore dell’elenco era ricercato quando a priori si decise poco a poco che l’autore non poteva essere che un ufficiale di stato maggiore e un ufficiale dell’artiglieria: doppio errore evidente che mostra con quale spirito superficiale si era studiato questo elenco, perché un esame ragionato dimostra che non poteva agire soltanto un ufficiale di truppa. Si cercava dunque nella casa, si esaminavano gli scritti come un affare di famiglia, un traditore da sorprendere dagli uffici stessi per espellerlo. E senza che voglia rifare qui una storia conosciuta solo in parte, entra in scena il comandante du Paty de Clam da quando il primo sospetto cade su Dreyfus.
A partire da questo momento, è lui che ha inventato il caso Dreyfus, l’affare è diventato il suo affare, si fa forte nel confondere le tracce, di condurlo all’inevitabile completamento. C’è il Ministro della guerra, il Generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre; c’è il Capo dello Stato Maggiore, il Generale de Boisdeffre che sembra aver ceduto alla sua passione clericale ed il sottocapo dello Stato Maggiore, il Generale Gonse la cui coscienza si è adattata a molti. Ma in fondo non c’è che il Comandante du Paty de Clam che li conduce tutti perché si occupa anche di spiritismo, di occultismo, conversa con gli spiriti. Non si potrebbero concepire le esperienze alle quali egli ha sottomesso l’infelice Dreyfus, le trappole nelle quali ha voluto farlo cadere, le indagini pazze, le enormi immaginazioni, tutta una torturante demenza. Ah! Questo primo affare è un incubo per chi lo conosce nei suoi veri dettagli! Il Comandante du Paty de Clam, arresta Dreyfus e lo mette nella segreta. Corre dalla signora Dreyfus, la terrorizza dicendole che se parla il marito è perduto. Durante questo tempo, l’infelice si strappava la carne, gridava la sua innocenza. E la vicenda è stata progettata così come in una cronaca del XV secolo, in mezzo al mistero, con la complicazione di selvaggi espedienti, tutto ciò basato su una sola prova superficiale, questo elenco sciocco, che era soltanto una tresca volgare, che era anche più impudente delle frodi poiché i ”famosi segreti” consegnati erano tutti senza valore. Se insisto è perché il nodo è qui da dove usciva più tardi il vero crimine, il rifiuto spaventoso di giustizia di cui la Francia è malata. […]
Ma questa lettera è lunga signor presidente, ed è tempo di concludere.
 Accuso il Luogotenente Colonnello du Paty de Clam di essere stato l’operaio diabolico dell’errore giudiziario, in incoscienza, io lo voglio credere, e di aver in seguito difeso la sua opera nociva, da tre anni, con le macchinazioni più irragionevoli e più colpevoli.
 Accuso il Generale Mercier di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo.
 Accuso il Generale Billot di aver avuto tra le mani le prove certe dell’innocenza di Deyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole di questo crimine di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso.
 Accuso il Generale de Boisdeffre ed il Generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine, uno certamente per passione clericale, l’altro forse con questo spirito di corpo che fa degli uffici della guerra l’arcata santa, inattaccabile.
 Accuso il Generale de Pellieux ed il Comandante Ravary di avere fatto un’indagine scellerata, intendendo con ciò un’indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia.
 Accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere pesentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio.
 Accuso gli Uffici della Guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell’ Eclair e nell’ Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l’opinione pubblica e coprire il loro difetto.
 Accuso infine il primo Consiglio di Guerra di aver violato il diritto, condannando un accusato su una parte rimasta segreta, ed io accuso il secondo Consiglio di Guerra di aver coperto quest’illegalità per ordine, commettendo a sua volta il crimine giuridico di liberare consapevolmente un colpevole.
 Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo. Quanto alla gente che accuso, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità, spiriti di malcostume sociale. E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto. Io aspetto. Vogliate gradire, signor Presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto. 
Fu un colpo meraviglioso. Quel numero deL’Aurore vendette più di trecentomila copie. Era il 13 gennaio 1898 (esattamente 120 anni fa).
Capitolo quattordici. La nascita dell’intellettuale impegnato
L’appello di Zola fu salutato da migliaia di lettere provenienti da ogni parte del mondo. L’Europa, che credeva fermamente nell’innocenza di Dreyfus, lo accolse con immenso sollievo: la Francia dei lumi aveva ritrovato la sua ragione. E c’era speranza che potesse uscire dal suo declino morale. Anche l’America si appassionò al dramma di Dreyfus. Mark Twain dichiarò sul New York Herald: “Codardi, ipocriti e adulatori come i membri delle corti militari ed ecclesiastiche il mondo ne produce a milioni ogni anno. Ma ci vogliono cinque secoli per produrre una Giovanna d’Arco o uno Zola”. A lui rispose Tolstoj che scrisse: “Non ammiro Zola come scrittore: quindi posso ancora meglio esprimere la mia ammirazione per l’uomo”.
Il giorno seguente L’Aurore pubblicò il testo di una petizione indirizzata alla Camera dei deputati per chiedere la revisione del processo. Venne firmata dai più illustri intellettuali francesi. Si schierarono anche l’Institut Pasteur, la Sorbona e la Scuola Normale. A loro si aggiunsero le lettere di solidarietà firmate da Monet, Proust, Verdi e tanti altri filosofi, scrittori, musicisti, pittori.  Anche in questo contesto un colpo di matita di Georges Clemenceau lasciò il segno. Sopra la pubblicazione di quel documento sottoscritto dai sostenitori di Dreyfus scrisse “Il Manifesto degli intellettuali”. Fu l’atto ufficiale di nascita del termine con il significato che ancora oggi gli attribuiamo. La petizione accese un dibattito politico sulla funzione dei letterati nella società. Così nacque l’intellettuale impegnato.
Tre giorni dopo la tensione sfociò nella violenza. A Parigi gli studenti, arginati a fatica dalla polizia, tentarono di assaltare la casa di Zola e si produssero in lanci di pietre contro l’abitazione. A Bordeaux, Le Havre, Montpellier, Nantes, Orléans e Toulouse la folla saccheggiò i negozi degli ebrei, picchiando i proprietari e dando alle fiamme l’articolo di Zola. Ad Algeri francesi e arabi si coalizzarono contro gli ebrei.
Capitolo quindici. L’ennesima revisione del dossier Dreyfus
L’annunciato processo a Zola ebbe inizio il 7 febbraio. La giuria fu composta da dodici persone estratte a sorte (c’erano un ortolano, un macellaio, un artigiano, alcuni mercanti, qualche professionista e un paio di uomini di cultura). Le due fazioni avevano consegne opposte. L’interesse dei militari era di circoscrivere il dibattuto, quello di Zola di allargarlo. Ancora una volta ebbero la meglio i primi. Il generale de Pellieux giurò di aver visto con i suoi occhi la prova sicura della colpevolezza di Dreyfus: un biglietto da visita, con appuntato sul retro il luogo di un appuntamento. Il generale de Boisdeffre confermò la deposizione di de Pellieux. Picquart sostenne che quel documento era un falso.La sentenza del 23 febbraio colpì spietatamente tuti i revisionisti. Zola venne condannato alla pena massima prevista per il reato di diffamazione: un anno di carcere e tremila franchi di multa, il tenente colonnello Picquart venne messo immediatamente a riposo, l’avvocato Leblois venne sospeso per sei mesi dalla professione ed esonerato dalle sue funzioni di vice sindaco.

Al Ministero della Guerra, in vista del nuovo procedimento giudiziario, ricominciò l’ennesima revisione del dossier Dreyfus, appositamente valorizzato da una serie di rapporti falsi, tesi a evidenziare nuove accuse per atti di spionaggi anteriori ai fatti. In quegli stessi giorni, il 3 marzo, venne rinvenuto il corpo impiccato del noto falsario Lemercier-Picard (che in realtà si chiamava Moise Lehmann), al quale più volte Henry aveva fatto ricorso per esigenze di servizio. Per la polizia si trattava di suicidio. Ma la corda attaccata alla maniglia di una finestra, le gambe flesse e i piedi di Picard poggiati decisamente a terra lasciavano molti dubbi. Le elezioni del 18-22 maggio confermarono che i venti soffiavano contro la causa revisionista. Drumont venne eletto a furor di popolo mentre i deputati dreyfusardi Jaurès e Reinach non furono riconfermati. Il governo di Jules Mélinevenne sostituito da quello del radicale Henry Brisson. Come Ministro della Guerra venne designato il barone Godefroy Cavaignac, repubblicano e acceso antirevisionista.
Cavaignac era deciso a fare piazza pulita, più che ad insabbiare. Il 7 luglio, approfittando di una interrogazione parlamentare, comparve in aula, esordì dichiarando subito che non ci sarebbe stata alcuna revisione e per porre fine una volta per tutte alle agitazioni revisionistiche, declamò alla Camera il contenuto dei documenti falsificati, giurando sulla loro autenticità: la lettera di Panizzardi che citava un certo D. (la P., poi corretta da Henry), il documento dove veniva citata “quella canaglia di D.” (intendendosi Debois) e la lettera di Panizzardi nella quale Dreyfus veniva citato per esteso.
Due giorni dopo Picquart scrisse al presidente del Consiglio Brisson di essere in grado di provare davanti a qualsiasi giurisdizione che le prove citate alla Camera da Cavaignac erano false. Cavaignac andò su tutte le furie. E sporse denuncia contro Picquart. Cinque giorni dopo lo fece arrestare. Picquart venne incarcerato alla Santé. Ci trovò Esterhazy e la sua amante Madame Pays, finiti lì, nel suo stesso giorno, per aver spedito proprio a Picquart due telegrammi che sarebbero serviti come base d’accusa contro di lui (vennero rintracciati solo grazie all’aiuto di un cugino di Esterhazy, Christian, a sua volta truffato da Esterhazy, ma un mese dopo la procura li avrebbe prosciolti). Quattro giorni dopo Zola, che era ricorso in Cassazione, si vedeva confermata la condanna. La sera stessa del 18 luglio lo scrittore fuggiva per l’Inghilterra.
Ogni speranza sembrava perduta. Il coraggio di Picquart, il lavoro virtuoso di Scheurer-Kestner, la lettera di Zola, la rivolta degli intellettuali, la solidarietà degli altri paesi europei, il conforto degli Stati Uniti. Tutto si era rivelato vano. Dreyfus avrebbe finito i suoi giorni alla Cayenne, la verità sarebbe rimasta nascosta – sarebbe morta con i suoi detentori, come aveva temuto Picquart cadendo da cavallo – e il mondo non l’avrebbe mai conosciuta. Il barlume di una misera lampada però riuscì a fare luce sulla verità.
Capitolo sedici. L’incredibile scoperta del solerte tirapiedi
Nel maggio 1898 il generale Gonse aveva chiamato il capitano Louis Cuignet per aiutare Adolphe Wattinne, genero del generale Billot a mettere in ordine il dossier del caso Dreyfus. Mantenuto il ruolo dopo l’avvento di Cavaignac ne era divenuto il più fidato tra i suoi tirapiedi. Era un lavoratore preciso, pignolo, rispettoso e instancabile. E nella sera del 13 agosto 1898 il suo zelo lo fece entrare nella storia. Alle dieci di sera il capitano era ancora chino come un corvo sul suo tavolo. E la luce compassionevole di una lampada a petrolio gli mostrò quello tutti si rifiutavano di vedere: la lettera nella quale il nome Dreyfus veniva citato per esteso (diretta dall’addetto militare dell’Ambasciata italiana Panizzardi al suo omologo tedesco Schwartzkoppen) risultava scritta su due fogli di carta diversi: uno con le quadrettature in filigrana di colore viola, l’altro con le quadrettature grigie, leggermente più piccole delle prime. Questo significava solo una cosa. La lettera era stata costruita attaccando grossolanamente due parti distinte. Quella era la lettera che inchiodava Dreyfus, la prova delle prove, l’unica che riportava il suo nome per esteso, quella che il feroce Cavaignac aveva declamato in aula ordinandone la sua riprodurre in 36.000 copie affinché ogni singolo comune della Francia potesse vedere con i suoi occhi di quale infamia si era macchiato il traditore Dreyfus. E quella lettera era falsa. Cuignet era convinto della colpevolezza di Dreyfus. Già un mese prima aveva stilato un promemoria per consolidare le sue colpe. Ma aveva l’abitudine di non credere alle apparenze. E quell’occasione gli rivelò un coraggio che forse non sapeva di possedere. La sua coscienza lo spinse ad essere onesto e a denunciare la scoperta al Ministro. Il terribile Cavaignac fu altrettanto onesto e ammise l’errore.
Per due settimane Cavaignac conservò per sé il segreto. Attese il rinvio a giudizio di Picquart, che avvenne il 25 dello stesso mese. Finché quattro giorni dopo, mandò al diavolo il suo orgoglio e informò gli stupefatti generali de Boidefffre e Gonse. I suoi ordini furono stringati: “Portatemi Henry, ma nascondetegli la scoperta del falso”. Il giorno seguente i due generali tornarono con il principale accusatore di Dreyfus,. Si difese strenuamente, negando con tutte le sue forze. Ma alla fine Henry crollò: ammise di essere l’autore della lettera falsificata e di aver contraffatto anche i documenti del dossier. “L’ho fatto per rassicurare voi! L’ho fatto per il Paese”. In quel momento il Ministro ordinò l’arresto immediato di Henry. L’indomani il suo corpo venne ritrovato nella sua cella nel carcere di Mont Valerien con la gola tagliata da un rasoio. Suicidio. Proprio lui che voleva spingere Dreyfus, un innocente, a togliersi la vita. Il destino in quel caso era stato circolare.
Un universo intero crollò. Quello dei militari, dei politici, dei falsari, delle spie e dei nobili. Ormai gli eventi sembravano destinati ad accelerare. Lo capì subito Esterhazy, l’uomo che aveva dato inizio a questa storia. Il 18 luglio 1899 confessò di aver scritto di suo pugno il famoso bordereau. Disse di aver eseguito ordini superiori, quelli del colonnello Jean Sandherr, allora capo dell’Ufficio Informazioni e ormai defunto. Venne congedato dall’esercito per aver, fra l’altro, sottratto trentacinquemila franchi. In seguito, sotto il falso nome di Bécourt, attraversò la frontiera con il Belgio, raggiunse l’Olanda e, infine, l’Inghilterra. Lì (nella città di Harpenden) con il nome di conte Jean di Voilemont, visse sino alla morte, avvenuta nel 1923. Senza aver mai ricevuto una condanna.
Capitolo diciassette. L’estate del 1899. La revisione e la grazia
Il 27 ottobre la Corte di Cassazione, il massimo organo giudiziario, accolse finalmente la richiesta di revisione del processo. Nel giugno 1899 annullò la sentenza del 1894. Dreyfus lasciò l’Isola del diavolo e poté fare ritorno in Francia.
Il nuovo processo militare si aprì a Rennes il 7 agosto e si protrasse per due mesi. Venne ampiamente dimostrata l’infondatezza delle accuse ma la Corte Militare subì forti pressioni dallo Stato Maggiore e Dreyfus fu condannato a dieci anni per tradimento. Il secondo giudizio di colpevolezza suscitò un tale sdegno da cambiare il corso delle elezioni del Parlamento nazionale.  Il Presidente del Consiglio neoeletto, Pierre Waldeck-Rousseau, propose a Dreyfus di presentare la domanda di grazia. Questa sarebbe stata accolta, ma al tempo stesso avrebbe implicato il riconoscimento di una colpa mai commessa. L’onore smisurato di Dreyfus lo portò a rifiutare l’offerta, ma il fratello Mathieu alla fine lo convinse: “A cosa serve un innocente morto?”. Dreyfus era stremato dagli eventi e aveva desiderio di non perdersi altri anni della vita dei suoi figli. Così accettò. Dieci giorni dopo il verdetto di condanna, Dreyfus fu graziato dal Presidente della Repubblica Émile Loubet.
Nel maggio del 1900, in una Parigi felicemente travolta dalle euforie dell’Esposizione Universale (che le avevano consegnato in un colpo solo la Gare de Lyon, la Gare d’Orsay, la prima linea della Metropolitana, i Giochi della seconda Olimpiade e il trionfo del cinematografo dei fratelli Lumière), la Camera dei deputati votò contro qualsiasi ulteriore revisione del caso. Prima che l’anno si concludesse tutte le cause connesse con l’affaire furono condonate da un’amnistia generale. Ma solo dopo che Clemenceau (quel Tigre al quale Zola aveva consegnato le sue cinque cartelle) divenne Primo Ministro, fu pienamente riabilitato con la cancellazione della condanna e la riammissione nell’esercito col grado di maggiore. Era il 1906. Dodici anni dopo l’inizio dell’affaire.
Il 12 giugno di quello stesso anno, a mezzogiorno, il presidente della Corte di Cassazione Alexis Ballot-Beaupré lesse la sentenza che annullava definitivamente il verdetto di Rennes. Il giorno seguente Dreyfus fu reintegrato nell’esercito e gli viene accordata l’onorificenza della Legion d’Onore. La cerimonia ufficiale si tenne nella corte piccola (quella di degradazione si era svolta nel grande cortile della Scuola di Guerra) alla presenza dei familiari, di qualche amico e del generale Picquart, al quale Dreyfus doveva tutto. L’affaire era finito.
Il 26 giugno 1907 Dreyfus chiese di essere messo a riposo. Il periodo trascorso alla Cayenne, togliendogli cinque anni di carriera, gli avrebbe impedito l’accesso ai gradi di Generale. La sua riabilitazione assolse anche Picquart, la cui carriera era stata brutalmente interrotta da Cavaignac. L’affaire aveva penalizzato in maniera determinante il percorso di entrambi. Picquart entrò come Ministro della Guerra nel governo di Clemenceau, terminato l’incarico tornò nell’esercito per il quale morì nel 1914 a causa di una seconda, stavolta implacabile, caduta da cavallo. Quello stesso anno lo scoppio della Grande Guerra richiamò in servizio Dreyfus che si distinse nella battaglia di Verdun, mentre suo figlio Pierre si trovava a capo di una batteria di cannoni. Erano quelli da 75. Gli stessi al quale si riferiva il bordereau che aveva dato inizio all’affaire.
Cuignet, l’uomo che, scoprendo e denunciando il falso documento aveva riaperto il caso, continuò a credere nella colpa di Dreyfus, divenendo così una delle figure emblematiche dell’antidreyfusismo (per la cui compagine rappresentò, come disse qualcuno, “il nostro Picquart”). L’addetto militare tedesco a Parigi, Schwartzkoppen, ammalatosi sul fronte russo, morì l’8 gennaio 1917 nell’ospedale militare di Berlino. Poco prima di esalare l’ultimo respiro, raccontò la moglie, si alzò sul letto e delirando gridò: “Francesi, ascoltatemi! Ve lo giuro, Dreyfus è innocente”.
Capitolo diciotto. L’attentato del 1908
Émile Zola, l’autore del “J’accuse”, morì in modo sospetto nel 1902, soffocato nel sonno dalle esalazioni di una stufa. Cinquant’anni dopo Pierre Hacquin, un farmacista, rivelò di aver raccolto la confessione di Henri Buronfosse, uno spazzacamino (membro, come Hacquin, di un gruppo nazionalista) che gli aveva raccontato di aver ostruito appositamente il camino dello scrittore per vendicare l’affronto di Dreyfus. Zola venne sepolto nel cimitero di Montmartre, ma le sue spoglie furono poi traslate nel Pantheon. Alla solenne cerimonia, che si tenne il 4 giugno 1908 e alla quale era stato invitato anche Dreyfus, accorse Louis Grégori, un giornalista nazionalista di estrema destra (figlio di un maestro di pianoforte di origine italiana, ammiratore di Victor Hugo, laureato in lettere, prima insegnante poi giornalista, collaboratore a Le Figaro, qualche problema giudiziario) con una tessera che gli dava accesso ai gradini del Pantheon e una rivoltella calibro 8 carica con cinque proiettili. Ne esplose due contro Dreyfus, ferendolo al braccio e all’avambraccio. Accusato di tentato omicidio premeditato, Grégori, nel processo che si tenne tre mesi dopo si difese dicendo che non aveva voluto colpire la persona ma quello che rappresentava, paragonando il suo a un crimine di passione. La tesi convinse la giuria, venne assolto (in quanto non responsabile dei suoi atti), ma morì due anni dopo per una operazione chirurgica.
Capitolo diciannove. La morte dei Dreyfus
Schwartzkoppen, l’addetto dell’Impero germanico a Parigi che aveva ricevuto e poi gettato nel cestino il bordereau, confermò l’innocenza di Dreyfus nelle sue memorie, pubblicate postume nel 1930.
La vita di Dreyfus terminò, poco dopo, il 12 luglio 1935, per una crisi cardiaca. Sua moglie Lucie gli sopravvisse per un decennio patendo per intero, però, il dramma dell’occupazione nazista. Riuscì a morire nella sua Parigi alla fine della guerra, il 14 dicembre 1945, dopo aver vissuto in un convento di suore a Tolosa sotto il falso nome di Madame Duteil (il nome da sposata di sua sorella). Destino che non riuscì a condividere con la nipote Madeleine Lévi: arrestata e torturata, morì nel campo di concentramento di Auschwitz, vittima dello medesimo odio razziale che aveva travolto suo nonno.
Capitolo venti. Oggi
L’incredibile vicenda di Dreyfus sembra venire ricalcata in ogni fase storica. Le sue dinamiche e i suoi aspetti più grotteschi (compresi quelli più marginali: dalle proteste degli studenti ai conti in tasca fatti allo stato per la prigionia di Dreyfus, passando per la caccia al mostro della stampa) sembrano appartenere alla cronaca del nostro presente.  E solo pochi anni dopo eventi ancora più gravi  avrebbero amplificato quelle stesse dinamiche. Ricordò Indro Montanelli (“Una storia ancora esemplare”, in La Voce, 16 ottobre 1994, p. 21):

Essa non fu soltanto il più appassionante “giallo” di fine secolo. Fu anche l’anticipo di quelle “deviazioni dei servizi segreti che noi riteniamo – sbagliando – una esclusiva dell’Italia contemporanea. Ma fu soprattutto il prodromo di Auschwitz perché portò alla superficie quei rigurgiti razzisti e antisemiti di cui tutta l’Europa, e non soltanto la Germania, era inquinata”.
Ma quell’affare – destinato a passare alla Storia come l’Affaire per antonomasia – segnò una svolta epocale anche per un altro motivo: per gli effetti che provocò nella coscienza di un piccolo giornalista ebreo della «Neue Freie Presse» di Vienna, Theodor Herzl, destinato a diventare l’apostolo e il fondatore spirituale dello Stato d’Israele (autore de “Lo stato ebraico”, 1896). Herzl aveva fino a quel momento negato l’esistenza di un problema ebraico, o meglio aveva sostenuto che per gli ebrei c’era solo un modo di risolverlo: integrandosi e radicandosi nelle società in cui si erano accasati, ponendo fine al loro eterno vagabondare, cioè cessando di essere ebrei. Egli era convinto ch’essi avessero già pagato uno scotto troppo alto all’impegno di restare se stessi e che fosse venuto il momento di rinunziarvi. (…) Fu questo episodio che aprì gli occhi ad Herzl e lo convinse che, per sottrarsi alle persecuzioni, non bastava agli ebrei dimenticarsi di esserlo. E fu allora che con passione missionaria si dedicò a propagandare nel mondo l’idea della ricostruzione di un «focolare» ebraico in Palestina. Non fece nemmeno in tempo a vederne nemmeno i prodromi perché morì all’inizio dell’affaire. Ma fu grazie a lui – e grazie a Dreyfus – che l’idea si diffuse – non senza suscitarvi diffidenze e ostilità – nel mondo ebraico, e si tradusse in progetto.
Secondo la storica premio Pulitzer Barbara W. Tuchman, il J’accuse fu una delle grandi rivoluzioni della storia e portò alla nascita del moderno intellettuale.
Nel 1998, in occasione del centenario del J’accuse, il filosofo francese Jacques Derrida (poi scomparso nel 2004), raggiunto telefonicamente da Fabio Gambaro de la Repubblica, rapportando al presente il caso Dreyfus, parlò di cambiamento degli intellettuali e della funzione della parola in uno spazio pubblico dominato ormai dalla comunicazione: “Gli intellettuali oggi sono dappertutto ma con meno potere”. D’accordo con lui si trovava lo storico Michel Winock, autore tra l’altro di “Le siècle des intellectuels”: “Oggi gli intellettuali sono più numerosi che ai tempi di Zola, la funzione intellettuale si è democratizzata ma si è pure banalizzata. E gli intellettuali non contano più come una volta”. La causa per Winock era la televisione: “Oggi il sistema dei media è dominato dalla tv al cui interno gli intellettuali non godono una posizione privilegiata”. Diversamente da lui, però, Derrida era consapevole di un altro potere: quello della rete, a quei tempi agli inizi: “Internet consente di costruire nuove reti di contatti. Gli intellettuali di oggi prendono posizione in gruppo: per Dreyfus Zola si è mosso da solo; per Sofri (la cui vicenda è stata più volte accostata a quella di Dreyfus), si sono mossi in molti. E ciò è senz’altro positivo”. Il filosofo, che aveva aderito alla petizione in difesa di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, aveva preso pubblicamente posizione in difesa degli intellettuali perseguitati. Per Derrida bisognava ancora guardare a Zola come a un esempio, senza però illudersi di replicarlo: “Tenere conto dei cambiamenti è proprio la prima responsabilità degli intellettuali”.

Ancora oggi Dreyfus resta il simbolo dell’errore giudiziario.

Piero Trellini, Tutti gli uomini dell’Affaire Dreyfus, "Il Post", 13-01-18.