Cerca nel blog

lunedì 25 giugno 2012

Luci e ombre del giornalismo italiano. Intervista a Mauro Forno.



di  A.  Lalomia      
Mauro Forno, titolare delle cattedre di Storia dei media e del giornalismo  e di Storia del giornalismo e della comunicazione politica  presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, ha appena pubblicato, per i tipi della Casa Editrice Laterza, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano 1 , un prezioso volume su un tema a cui lo stesso A. in passato ha già dedicato importanti contributi 2 .


Nell’intervista, Forno chiarisce che le caratteristiche del volume, rispetto ad altre sue opere precedenti o a testi di altri autori sullo stesso argomento, sono essenzialmente tre:  “[…]  connotarsi per un taglio non semplicemente manualistico; garantire uno stile – anche narrativo - omogeneo; essere facilmente fruibile sia dagli specialisti del settore (storici o giornalisti), sia dagli studenti o da altri soggetti interessati al tema.” .


Ebbene, io credo che l’A. sia riuscito pienamente nel suo scopo, consegnandoci un lavoro magnifico, che si qualifica per originalità dell’approccio, rigore metodologico, ricchezza e novità di contenuti, documentazione inedita, equilibrio delle parti, leggibilità.  Con questi ed altri meriti, il libro è destinato a trasformarsi in un punto di riferimento ineludibile per quanti vorranno interessarsi della materia, come del resto risulta già dal favore che ha incontrato presso la critica e il pubblico.


Spero che le biblioteche scolastiche se ne rendano conto e provvedano al più presto a dotarsene, per riavvicinare gli studenti ad un mondo, quello appunto del giornalismo, che rappresenta uno dei pilastri su cui dovrebbe fondarsi il processo educativo e di crescita dei giovanitroppo spesso lasciati da soli  -e quindi indifesi-   di fronte alla complessità, agli inganni e agli orrori della vita. 


Naturalmente, ça va san dire, ci sarà sempre qualcuno che, a fronte delle tesi  ‘scomode’  che guidano il percorso dell’A., arriccerà il naso, considerandosi immune da realtà storicamente fondate, e magari si sentirà pure offeso, perché, farà notare, ‘lui non si fa corrompere’. 


Ringrazio l’A. per la disponibilità a concedermi l’intervista che propongo ai lettori del blog.

------------------------------


Note
1  Cfr. la video-intervista sul libro dell’11-05-12 da parte di Gianni Scipione Rossi e l'intervista a Radio 24 del 17-06-12 da parte di Salvatore Carrubba. 
Per le recensioni, cfr.: Angelo d’Orsi, “Stampa, un secolo di servitù”, un titolo su cui, forse, si potrebbe discutere.

2  V. ad esempio, limitatamente alle opere in volume: 


La stampa del Ventennio. Strutture e trasformazioni nello stato totalitario, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 16-304. (Premio Luigi Salvatorelli 2006 per la sezione ‘Storia del giornalismo e della comunicazione’);


- A duello con la politica. La stampa parlamentare in Italia dalle origini al primo «Ventaglio» (1848-1893) , Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. XV – 168. (Premio Ettore Tito 2008 del Senato della Repubblica e dell’Associazione Stampa Parlamentare).


Tra i libri dedicati ad altri temi (oltre al mondo della stampa), si possono citare:

Rinnovamento cattolico e stabilità sociale. Chiesa e organizzazioni cattoliche astigiane tra le due guerre, Edizioni Gruppo Abele, 1997, pp. 152. (Premio Maria Clotilde Daviso di Charvensod della Deputazione subalpina di storia patria);

Tra sviluppo e marginalità. L’Astigiano dall’Unità agli anni Ottanta del Novecento (con R. Bordone, N. Fasano, D. Gnetti, M. Renosio) Israt, Asti 2006, 3 voll. ;


1945: l'Italia tra fascismo e democrazia , Carocci, Roma 2008, pp.152;  



Tra Africa e Occidente. Il cardinal Massaja e la missione cattolica in Etiopia nella coscienza e nella politica europee, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 431 (Premio internazionale «Desiderio Pirovano» 2010 dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma).

Per un elenco più dettagliato della sua attività di studioso (aggiornato al giugno 2010) , v. qui .

Per quanto riguarda gli incarichi, a parte l’attività universitaria sopra citata, Mauro Forno è anche:

- socio della SISSCO;


- coordinatore del Comitato di redazione della rivista «Asti contemporanea» ;

- dal 2009 membro del Comitato della Regione Piemonte per l'affermazione dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana;

- dal 2009 rappresentante del Dipartimento di Storia dell’Università di Torino presso il Centro Interdisciplinare di Ricerca sui Disturbi dell'Apprendimento;

- dal 2010 membro del Collegio dei referee della rivista di Storia contemporanea «Storia e politica» - Annali della Fondazione Ugo La Malfa;

- dal 2012 membro del Collegio dei tutors del Dottorato di ricerca in Studi storici della Scuola di dottorato in Studi umanistici dell'Università di Torino.

È stato inoltre:

* membro dal 2008 al 2010 del Programma di ricerca di rilevante interesse nazionale (Prin) I cattolici e il confronto con il socialismo e il comunismo;


* membro dal 2010 al 2012 del Programma di ricerca di rilevante interesse nazionale (Prin) Religioni, modernizzazione e culture nella storia contemporanea;


* membro dal 2008 al 2010 del team di ricerca del Progetto Benedetto XV e i vescovi piemontesi tra dopoguerra, biennio rosso e avvento del fascismo (1918-1922), Fondazione Crt – Progetto «Alfieri»;


* membro dal 2008 al 2010 del Comitato nazionale ministeriale per la celebrazione del secondo Centenario della nascita del cardinale Guglielmo Massaja (1809-2009);


* consulente storico-scientifico nel 2005 per la progettazione e l’allestimento del Museo Marelliano di Asti;


* consulente storico-scientifico nel 2008 per la produzione del film-documentario Guglielmo Massaja. Un illustre conosciuto, Nova-T Produzioni televisive e multimediali (regia di P. Damosso).


* Ha ricevuto nel dicembre 2010 dal comune di Piovà la cittadinanza onoraria, per gli alti meriti nel campo della ricerca storica, con particolare riferimento alla figura del cardinale Guglielmo Massaja.

Sarebbe troppo lungo elencare tutti i riconoscimenti che lo storico piemontese ha ottenuto per la sua ricerca scientifica, per cui mi limiterò a ricordare i più importanti:

a. Premio Provincia e cultura dell’Amministrazione provinciale di Asti, per la tesi di laurea I cattolici astigiani nel primo dopoguerra. 1919-1926, Università di Torino, a.a. 1992-1993;

b. Premio Maria Clotilde Daviso di Charvensod della Deputazione subalpina di storia patria, per il volume Rinnovamento cattolico e stabilità sociale, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1997;

c. Premio Luigi Salvatorelli 2006 (Sezione Storia del giornalismo e della comunicazione), per l’opera  La stampa del ventennio. Strutture e trasformazioni nello stato totalitario, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005;

d. Premio Ettore Tito 2008 del Senato della Repubblica e dell’Associazione stampa parlamentare, per il testo A duello con la politica. La stampa parlamentare in Italia dalle origini al primo «Ventaglio» (1848-1893), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008;

e. Premio internazionale «Desiderio Pirovano» 2010 dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma, per il saggio  Tra Africa e Occidente. Il cardinal Massaja e la missione cattolica in Etiopia nella coscienza e nella politica europee, Bologna, il Mulino, 2009.

---------------------------

1.  Questo è il quarto libro che lei dedica al giornalismo e all’informazione in Italia.  In che cosa, il volume di cui stiamo parlando, si differenzia dalle sue opere precedenti e da altre storie del giornalismo (a partire da quelle di Murialdi, una delle quali ha inserito nel programma di esame di Storia dei media e del giornalismo)  e di Castronovo ?  In particolare, quali obiettivi si proponeva di raggiungere e quali ha effettivamente conseguito?

L’impressione che avevo maturato prima di pubblicare il volume era che l'offerta relativa alla Storia del giornalismo in Italia - nonostante il peso non trascurabile rivestito dalla disciplina nei corsi di studio universitari – fosse piuttosto carente, soprattutto per quanto concerneva le analisi di insieme. I due migliori volumi esistenti erano infatti in un caso (la Storia del giornalismo italiano di Paolo Murialdi) di taglio piuttosto generale, nell'altro (la Storia del giornalismo italiano di G. Farinelli, E. Paccagnini, G. Santambrogio, A.I. Villa) frutto del lavoro di ben quattro – pur autorevoli – studiosi (con tutto ciò che ne conseguiva, in termini di omogeneità dell'elaborato).
Il volume intendeva dunque confrontarsi proprio con questo contesto, rispondendo ad almeno tre esigenze fondamentali: connotarsi per un taglio non semplicemente manualistico; garantire uno stile – anche narrativo - omogeneo; essere facilmente fruibile sia dagli specialisti del settore (storici o giornalisti), sia dagli studenti o da altri soggetti interessati al tema.
Sulla falsariga dell’impostazione di un mio precedente volume (La stampa del ventennio, Rubbettino, 2005), era inoltre mia intenzione approfondirvi – con il sostegno di una notevole  base documentaria - alcuni fondamentali aspetti del modello giornalistico nazionale (a partire dai suoi stretti rapporti di dipendenza dal potere politico, economico e finanziario), estendendo anche agli anni dell'Italia repubblicana alcune verifiche sul campo da me compiute in riferimento all’Italia liberale e fascista (verifiche che ritenevo decisive anche alla luce delle ricorrenti statistiche sulla libertà e sull'indipendenza dell'informazione in Italia, che collocano il nostro paese in una posizione di retroguardia a livello mondiale).


2.  La tesi di fondo del volume è che l’informazione, in Italia, negli ultimi 150 anni, non è stata mai (o quasi mai)  svincolata dal potere, inteso sia in senso politico che economico.  È un trend che risale addirittura all’indomani dello Statuto Albertino , grazie anche ai sistemi spregiudicati di Cavour, il quale, come precisa lei in un’intervista, “ci sapeva abbastanza fare con la stampa”, e sfruttando anche una certa genericità dello Statuto stesso, che lasciava spazio ad interpretazioni ed iniziative di vario tipo.  In effetti, l’art. 28 di questa Carta  octroyée   -promulgata nel 1848 e rimasta in vigore, sia pure formalmente  (ma senza dimenticare il ruolo fondamentale che assunse  nella seduta del  Gran Consiglio  25 luglio 1943),  per circa un secolo, quando venne poi sostituita dall’ attuale Costituzione-, stabilisce che “La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi.  Tuttavia le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiere non potranno essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo.”.  Una formula piuttosto elastica e un po’ vaga, che comunque ha assicurato nel periodo dell’Italia liberale  (fino all’avvento del fascismo)  una libertà di stampa non indifferente, soprattutto sotto Giolitti, che pure si è dimostrato un maestro in tema di finanziamenti segreti alla stampa (in particolare a favore di quella parlamentare).
 Camille Barrère
D’altronde, la stampa italiana è stata oggetto di speciale attenzione anche da parte degli stranieri.  Basti pensare al ruolo svolto dall'ambasciatore francese a Roma Camille Barrère  (1851-1940), che nei manuali scolastici viene ricordato  (quando viene ricordato)  soltanto per l'accordo del 1902 con Giulio Prinetti, ministro degli Esteri per buona parte del governo Zanardelli  (15-02-01/03-11-03), accordo comunque molto importante, perché segnava un ulteriore superamento dei motivi di contrasto che in passato avevano condizionato i rapporti tra Francia e Italia.  In realtà, durante il periodo della sua missione a Roma  (1897-1924, un  record  di permanenza a tutt’oggi insuperato), lo studio di Barrère a Palazzo Farnese  -il  'Salone bianco'-  si era trasformato in un dorato ritrovo in cui i giornalisti disposti a sostenere la Francia ricevevano sollecito ascolto e munifica prova della liberalità di  
 Il  'Salone bianco'  di Palazzo Farnese a Roma.
Parigi  formalmente
nostra nemica militare fino all'aprile 1915, visto che facevamo parte della Triplice Alleanza).
I cadeaux di Barrère oggi sarebbero considerati da qualcuno imbarazzanti  (se non riprovevoli), ma allora rientravano quasi nella consuetudine.  Esprimevano, si potrebbe dire, lo spirito del tempo, con una diversa sensibilità nei confronti della corruzione e pochi se ne meravigliavano  (inutile precisare che la scarsa percezione della corruzione, soprattutto in alcuni specifici ambiti, continua ancora oggi).  Purtroppo, l'abile e intraprendente ambasciatore francese non sempre puntava sui cavalli moralmente più qualificati.  Sembra ormai certo che il Popolo d’Italiafondato e diretto per anni da un esagitato interventista il quale, sin dai primi numeri del giornale  -che vide la luce il 14 novembre 1914-,  sostenne l’obbligo per l’Italia di entrare in guerra a favore della Francia, mentre fino a pochissimo tempo prima era stato un alfiere del più sguaiato antimilitarismo  -cioè Mussolini, espulso qualche giorno dopo dal PSI-, sia riuscito ad affermarsi grazie anche ai soldi del governo francese, su indicazione di Barrère.  Si dice spesso che la Storia non si fa con i ‘se’, ma a volte mi chiedo che cosa sarebbe accaduto, in Italia e non solo, se Mussolini non avesse trovato  (sia pure grazie all’intermediazione  di Marie Rygier, una fanatica anarchica antimilitarista che dopo lo scoppio della Grande Guerra diventò un’ agente reclutatore dei Francesi)  un mecenate di tal fatta.  Per non parlare  -proiettandoci ai giorni nostri-  dei finanziamenti da parte di paesi  (arabi e non)  a quei giornali pronti ad affiancarli nelle loro campagne anti-israeliane.
Relativamente al passato, la mia chiave di lettura è adeguata o ha bisogno di correzioni ?

Mi pare che la sua lettura sia corretta. Non è per nulla vero che nell'Italia unita – se si esclude il ventennio fascista – non sia mai esistita libertà di stampa. Ciò che tuttavia fu evidente sin dall'indomani della promulgazione dello Statuto Albertino (poi esteso, dopo l'unificazione, a tutto il territorio nazionale) fu il costante timore, da parte dei governi, per le possibili conseguenze che un «abuso» della libertà di stampa avrebbe potuto riverberare sull'opinione pubblica e – di riflesso – sulla stabilità dello stato e delle istituzioni. Fu un timore in una certa misura sproporzionato, in rapporto al debole mercato editoriale dell'epoca, ma che a uno studioso di oggi non può sfuggire in tutta la sua rilevanza.


3.  I legami molto stretti tra poteri economico e politico da una parte e la stampa dall’altra, con sovvenzioni al mondo dell’editoria per il controllo dell’opinione pubblica, per combattere gli avversari, per il sostegno elettorale, per la creazione del consenso; l’uso dei media, insomma, come strumento di dominio delle coscienze, sarebbe il frutto -sembra di capire- della struttura oligarchica del sistema di potere in Italia, con una distribuzione della ricchezza che ha visto  -e che continua a vedere-  un ristretto gruppo di famiglie detenere una quota rilevante dei beni nazionali.  Ma in altri paesi, limitatamente almeno al periodo da lei preso in esame, le cose sono andate diversamente ?  È vero che, per esempio in Francia, la distribuzione della ricchezza era più equa, grazie ad un tessuto sociale più variegato, con una discreta presenza dei ceti medi e l’importante ruolo svolto dalla classe di piccoli proprietari terrieri, ma l’ Affaire Dreyfus  (“una guerra civile borghese”, come la definì Guesde), con la virulenta campagna antisemita condotta dall’Action Française e da quotidiani come La Croix e La Libre Parole  (oltre che dalla stessa rivista Action française), non è stato forse un esempio eclatante di quanto fossero forti i legami tra i circoli finanziari, politici e militari da una parte e quelli di rilevanti settori del giornalismo dall’altra ? 

Il caso francese è uno di quelli che – per molti versi – più si avvicina al nostro. Ma non è il solo. Altri paesi – soprattutto dell'Europa meridionale – hanno condiviso una condizione simile a quella italiana. Si tratta in gran parte di stati che si sono storicamente connotati per una bassa percentuale di lettori di quotidiani e per uno scarso radicamento della stampa popolare (caratteristica, questa, solo in parte compensata – a partire dagli inizi del XX secolo - dalla significativa diffusione della stampa sportiva). In questi stati raramente gli organi di informazione hanno inoltre goduto di un’ampia autonomia finanziaria, circostanza che li ha resi in genere molto dipendenti dai contributi di grandi gruppi capitalistici o dello stato. 


4.  Vorrei riprendere un concetto già introdotto  sopra, e cioè che i condizionamenti da parte dei poteri economico e politico, nell’Italia liberale, non hanno impedito all’opposizione di esprimere in piena libertà le sue idee e di condurre campagne giornalistiche aspramente bellicose contro l’esecutivo.  In passato, ho avuto modo di studiare la stampa socialista dagli inizi del Novecento fino all’avvento del fascismo.  Quello che mi ha colpito, soprattutto riguardo al periodo giolittiano, è l’enorme libertà di espressione che veniva assicurata, anche quando si promuovevano campagne micidiali contro le istituzioni  (una libertà peraltro sancita giuridicamente, con la Legge 278/1906).  Sull’Avanti! e su altri giornali socialisti del tempo esistevano addirittura delle rubriche in cui si mettevano alla berlina i militari, li si additava al ludibrio dell’opinione pubblica, si magnificavano le iniziative antimilitariste più estreme, come quelle di Gustave Hervé (1871-1944)l’A. del delirante slogan  “la bandiera nel fango”  (da bravo rivoluzionario, allo scoppio della prima guerra mondiale cambiò  nettamente opinione, diventando sciovinista  -grazie forse ai finanziamenti occulti-, applaudì  alla ‘marcia su Roma’ e finì i suoi giorni come sostenitore del maresciallo Pétain e dell’alleanza con la Germania, anche se poi ebbe dei ripensamenti). Credo che oggi sarebbe difficile dar conto di iniziative del genere senza timore quantomeno di ricevere un avviso di garanzia.  È vero che, per esempio durante i due Ministeri Fortis (1905-6), l’ Avanti ! venne sequestrato per alcuni servizi che riguardavano le manovre militari del 1905  (criticate comunque anche da alcuni giornali moderati)  e per i veementi  attacchi contro il ministro della Guerra durante il primo governo Fortis (28-03/24-12-1905), Ettore Pedotti  (sommerso da una valanga di epiteti ben poco lusinghieri), ma nel complesso la libertà di parola era, secondo me, forse superiore a quella odierna (escludendo evidentemente il periodo della prima guerra mondiale, quando la censura infierì duramente sulla stampa di opposizione, provocando danni economici non indifferenti).  I giornali socialisti  -a partire, ripeto, dall’Avanti !-  usavano talvolta un linguaggio altamente ‘esplosivo’ (basti pensare al periodo in cui venne diretto da Mussolini, 1912-4). Per dire: durante la guerra italo-turca, la stampa di opposizione (con in prima fila L’avanguardia socialista) invitava apertamente i soldati in partenza per la Libia a disertare e addirittura a sparare contro i loro superiori, con sporadiche iniziative dei giudici. 
Condivide questa mia tesi  ?

Quanto lei afferma è senz'altro vero. Tenga tuttavia conto del fatto che i governi dell'Italia liberale (e, sotto molti aspetti, anche quelli dell'Italia repubblicana) non accettarono mai di buon grado questa condizione e fecero tutto il possibile per limitarla (rendendo, ad esempio, la vita difficile a giornali e giornalisti «scomodi» o finanziando occultamente quelli più «malleabili»). Soprattutto i prefetti – vale a dire le più dirette emanazioni sul territorio del potere politico - sfruttarono molto bene gli spazi che una certa genericità della legge sembrava poter aprire. Erano quasi sempre loro a chiedere all'autorità giudiziaria di agire.
In genere – questo è vero - le denunzie si risolvevano in proscioglimenti. Ma il fine intimidatorio era ugualmente raggiunto.
Giovanni Giolitti
Anche in riferimento al periodo a cui lei fa cenno, è oggi nota la consuetudine di Giolitti di intercettare le conversazioni fra il direttore del «Corriere della Sera», Luigi Albertini, e la sua redazione romana o quella, sempre adottata da Giolitti, di impartire «ordini» ai giornali tramite il capo Ufficio stampa del ministero dell’Interno e di tentare, con gli stessi canali, di rendere difficile la vita della stampa «nemica».
Alla fine del secolo Luigi Pelloux fece persino ricorso ad agenti provocatori, uno dei quali infiltrato proprio tra gli operai della tipografia del quotidiano socialista l’«Avanti!».
 Monumento a Felice Cavallotti
Insomma, il fatto che molti giornali riuscissero a mantenersi vigili e critici verso i governi non implica che questi ultimi non facessero tutto il possibile – con mezzi più o meno arbitrari - per limitare tale prerogativa. Quanto ai toni utilizzati (che – come dice giustamente lei – oggi sarebbero inaccettabili), essi si legano essenzialmente ai caratteri peculiari della stampa dell'epoca, in cui gli attacchi – anche personali – erano in genere molto più espliciti e taglienti di quelli attuali (in cui il contesto legislativo è più garantista, anche in relazione alla tutela della privacy).
Non dimentichiamo nemmeno che, ancora alla fine dell'Ottocento, a una diffamazione subita a mezzo stampa non era affatto raro che la persona «offesa» reagisse sul terreno cavalleresco, sfidando a duello il giornalista. Tanto per citare un caso molto noto, il focoso Felice Cavallotti perse la vita durante una contesa (una delle tante) contro il giornalista e deputato veneziano Ferruccio Macola, direttore della «Gazzetta di Venezia» e fondatore, nel 1886, del «Secolo XIX» di Genova.


5.  Nell’Italia liberale, come lei ricorda puntualmente, per il controllo dell’informazione esistevano uffici, al Ministero degli Interni, che avevano il compito di premiare i giornalisti favorevoli all’esecutivo e di contrastare i nemici, quelli che non si allineavano. Questa politica, lei prosegue, è stata poi perfezionata dal fascismo, che ha affinato molto i sistemi di ‘foraggiamento’ della stampa, istituzionalizzandoli quasi, e inserendoli in un contesto legislativo illiberale.  La domanda è : ma che bisogno aveva il regime fascista di corrompere i giornalisti, di far cambiare loro idea, di stipendiarli, visto che per esercitare la professione era necessaria la tessera del partito e che comunque non esisteva libertà di stampa e la censura la faceva da padrona ?  Chi voleva scrivere doveva necessariamente essere inquadrato, dimostrarsi in sintonia con il regime, rispettarne gli ordini.  Altrimenti, non solo si rimaneva esclusi dal circolo, ma si rischiava addirittura la vita, come sperimentarono sulla loro pelle Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Giacomo Matteotti e i fratelli Rosselli  (tanto per citare nomi illustri che mi vengono subito in mente).  I premi, forse, dovevano servire ad accrescere l’ardore politico, ad infiammare gli animi più tiepidi  (quelli, per intenderci che, memori dell’insegnamento di Torquato Accetto, cercavano di dissimulare la loro contrarietà con i silenzi o con pezzi asettici e sbiaditi), in un crescendo di esaltazione parossistica che spesso andava ben oltre il ridicolo (soprattutto quando si dava conto delle tante bravate di Mussolini).  In tal senso, si può dire che la creazione dell’Albo (Legge 2307/1925 e r. d. 384/1928; l’Ordine non venne però mai istituito e le sue funzioni furono esercitate dal sindacato nazionale fascista dei giornalisti) -Albo che, come lei ricorda in modo puntuale, rappresentava un’antica richiesta della categoria-, servì al regime per premiare i giornalisti più zelanti e fanatici e ribadire ancora una volta il principio che, per esercitare la professione, bisognava adeguarsi pienamente e attivamente alle direttive del regime, altrimenti si finiva emarginati ?  La politica del bastone e della carota, insomma.  Solo Croce  (grazie al suo prestigio)  poteva scrivere con una certa libertà, ma anche lui alla fine fu costretto ad autocensurarsi.

In realtà, per quanto riguarda il ventennio fascista, il quadro è molto più complesso di quanto si tenda in genere a dipingerlo. 
È senz'altro vero quello che lei afferma: durante il regime i giornalisti furono epurati e inquadrati, fatti oggetto di obblighi, minacce, tempestati di ordini e «veline». Ma va anche considerato che non tutto, per il fascismo, andò secondo le speranze di molti suoi gerarchi e dello stesso Mussolini. Non è ad esempio possibile negare che molti giornali si avvalsero della collaborazione di figure della cultura italiana non organiche al regime. Molti direttori considerarono insomma accettabile la presenza di qualche voce non perfettamente «allineata», laddove il mancato adeguamento alla politica ufficiale non sembrava tale da condizionare l’equilibrio complessivo. L'obiettivo di tali collaborazioni era, tra l'altro, quello di tentare di accattivarsi il favore della borghesia moderata (i cui rappresentanti erano poi anche quelli che, in prevalenza, acquistavano i giornali). Un settore di opinione pubblica, questo, che se da un lato era in parte riuscito ad accettare il regime, continuava a faticare, dall'altro, a tollerare i toni demagogici e virulenti di molti fogli fascisti.
Non ci si sbaglia quando si afferma che la stampa sotto Mussolini fu uno strumento soggiogato ai voleri e alle esigenze del regime. Ma non bisogna dimenticare che – anche durante il fascismo – l'obiettivo non secondario di molti giornali a grande diffusione e tradizione (dal «Corriere della Sera», alla «Stampa», alla «Gazzetta del Popolo», al «Messaggero», al «Mattino») rimase quello di vendere copie (un giornale che vendeva poco era poco utile anche al regime). Pur di non precludersi il favore di quella parte di opinione pubblica meno sensibile al martellamento della propaganda, tali giornali si dimostrarono talvolta anche pronti a svincolarsi – sia pur limitatamente ad alcuni particolari ambiti – dai propositi totalizzanti del regime.
Come ha scritto un autorevole storico del fascismo, Emilio Gentile, anche in campo artistico il fascismo mantenne del resto, nel suo complesso, un atteggiamento piuttosto eclettico, rinunciando di fatto all’imposizione di un’«arte di Stato» (anche per non sovraccaricare un pubblico pesantemente sottoposto alla propaganda politica) e accontentandosi di ottenere dagli stessi artisti e intellettuali una certa acquiescenza, se non proprio una convinta partecipazione, a costo di ricercarla attraverso generosi patrocini, elargizioni e premi.
Durante il fascismo si espresse persino una relativa differenziazione tra giornali, legata in parte – non bisogna dimenticarlo - alle influenze dei particolari contesti ambientali in cui ciascuna testata si trovava a operare e in parte a una certa inefficienza e scarsa coordinazione degli organi periferici preposti al controllo.



6.  Sempre in tema di finanziamenti occulti o segreti alla stampa, viene inoltre da chiedersi come sarebbe possibile, in un Paese in cui gli indici di lettura dei giornali sono stati quasi sempre   -e continuano a mantenersi-  terribilmente depressi (v. oltre), poter fare a meno di questi sostegni, a fronte di mancati introiti pubblicitari e di sovvenzioni pubbliche palesi.  
Proprio di recente abbiamo assistito a due casi particolarmente emblematici, quello del Manifesto e quello del Riformista.  D’altronde, una proposta di legge presentata nel 1918 dal Partito Socialista per rendere pubblici i finanziamenti alla stampa, finì in qualche cassetto della Camera, perché non trovò il consenso di altri gruppi politici, troppo interessati all’aiuto finanziario che il Ministero degli Interni assicurava, con i suoi fondi segreti, alle testate di cui erano espressione.  Inoltre, non bisogna dimenticare che per almeno mezzo secolo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, una parte dei media italiani ha ricevuto ingenti aiuti finanziari, occulti, dall’URSS, un dato riconosciuto, con grande onestà intellettuale, dagli stessi dirigenti del PCI.

Come fa giustamente notare lei, un conto sono i finanziamenti concessi – con regole più o meno eque o condivisibili – alla stampa nel suo complesso, un conto sono quelli elargiti – più o meno occultamente – alle testate e ai giornalisti «amici», per indurli a magnificare l'operato dei governi di turno. I finanziamenti elargiti arbitrariamente e segretamente da soggetti esterni a un giornale ben difficilmente possono essere disinteressati, mentre non è da escludere a priori che possano esistere forme accettabili – se non proprio giustificabili – di sussidio pubblico al settore.
Tutto ciò, di certo, non avvenne negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Nell'Italia dei decenni '50, '60 e '70 – lo posso dire con certezza, perché sto lavorando proprio su questo materiale – i governi a guida democristiana finanziarono quasi esclusivamente le testate (culturali e non) che sembravano meglio in grado di contrapporsi alla propaganda delle opposizioni politiche, soprattutto «social-comuniste».
Certo non va dimenticato che, allo stesso modo, l'Urss finanziò la stampa vicina al Pci (come in vario modo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sostennero quella anticomunista). Ma questa è una storia diversa, che ci imporrebbe di scendere anche sul terreno dei condizionamenti internazionali subiti a partire dall'immediato dopoguerra da un paese come l'Italia.

  
7.  Con riferimento alla domanda n. 5, a parte l’epoca fascista, qual è stato il periodo della storia d’Italia da lei preso in esame che ha visto il maggior impegno finanziario del governo nell’opera di ‘convinzione’ della stampa e quale, invece, quello in cui l’esecutivo ha cercato di non esporsi più di tanto ?

Quello che emerge dalla documentazione consultata è la presenza di un filo rosso che attraversa trasversalmente – pur con alcuni alti e bassi e, talvolta, con diverse accentuazioni – tutta la storia dell'Italia unita. A colpire chi – come me – ha indagato a lungo questo settore, non è tanto l'entità – maggiore o minore – dei finanziamenti elargiti, quanto la sostanziale accettazione – o comunque la non messa in discussione – di questo modo di operare da parte di tutti i rappresentanti dei governi dell'Italia liberale prima, di quella repubblicana poi. Ciò che emerge in maniera chiara è, insomma, una forma mentis diffusa e radicata tra gli operatori delegati al controllo della stampa, secondo i quali era perfettamente normale che – per garantire la  «stabilità dello stato» contro i pericoli di forze avverse - o per altri fini ancora meno professabili – ci si dovesse «tutelare» in ogni maniera possibile. 


8.  Lei ricorda che gran parte del personale del Ministero della Cultura Popolare venne assorbito da altri ministeri e, in una certa misura, anche dal Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria, presso la Presidenza del Consiglio; naturalmente, essendo cambiato il contesto politico, i sistemi di condizionamento della stampa sono stati e sono diversi.  Il legame tra giornali e potere, la permeabilità e più ancora la dipendenza dell’informazione dall’esecutivo, sono continuati quindi anche dopo.  Lei comunque precisa che questi condizionamenti non hanno escluso e non escludono la libertà di stampa, anche se questa libertà va inquadrata in un quadro sostanzialmente debole, in particolare per l’assenza di editori puri, che ha inciso molto sulla qualità dell’informazione.
La domanda è: per quale motivo, in Italia, a differenza di altri paesi, la figura appunto dell’editore puro di giornali ha rappresentato spesso un fenomeno marginale e comunque non significativo nel tessuto produttivo del Paese ?  Si può parlare, anche in questo caso, di arretratezza determinata dai bassi indici di lettura, che a loro volta sono la conseguenza del fatto che l’analfabetismo, in Italia, ha rappresentato per diversi decenni dopo l’Unità un’autentica piaga sociale, piaga che peraltro stenta ad essere sconfitta in modo definitivo, se si pensa al preoccupante dilagare dell’analfabetismo di ritorno ?

Quello nato dall’unificazione fu, nel suo complesso, un’espressione abbastanza modesta di giornalismo «di informazione». Oltre alla ristrettezza delle risorse finanziarie disponibili, pesò - sul suo non esaltante livello - l'elevato tasso di analfabetismo nel paese (nell’Italia del 1861 ancora prossimo al 75%, con punte elevatissime nel Mezzogiorno), l’alto prezzo di vendita dei quotidiani, la scarsa abitudine alla partecipazione politica dei cittadini (nel 1861 gli aventi diritto al voto erano l’1,9% della popolazione), la debole rete distributiva, gli ampi divari sociali ed economici tra le varie aree. Tali caratteristiche si conservarono sostanzialmente inalterate anche nei decenni successivi, almeno fino a quando, alla fine del primo decennio del Novecento, si assistette all’ingresso nel mondo della stampa di alcuni grandi gruppi industriali. Questi, alle prese con le prime crisi di sovrapproduzione, con le crescenti rivendicazioni – anche salariali – dei lavoratori e con un corpo politico e sociale trasformato dal progressivo allargamento del suffragio, si trovarono a dover intraprendere, con il fondamentale sostegno del settore bancario, nuove iniziative a tutela dei propri interessi.
Proprio in quegli anni si fece in altre parole strada l’esigenza – per i grandi gruppi industriali, finanziari, bancari e assicurativi – di attuare opportune sinergie al fine di ricavarsi degli spazi di condizionamento in uno Stato che, col suffragio universale maschile del 1913 e con la sopraggiunta crisi del sistema giolittiano, stava assistendo all’ingresso sulla scena di nuovi partiti e protagonisti politici e all’introduzione di più complessi criteri di gestione del potere.
In un certo senso, se da quel momento scesero in campo nuovi protagonisti, non cambiarono le regole generali del settore. Anche dopo quel passaggio in Italia in pochi casi i giornali si affermarono come aziende attente a fare profitti, grazie alla qualità della propria offerta. Essi rimasero piuttosto degli strumenti a disposizione di chi li individuò come mezzi per il raggiungimento di fini diversi dalla pura informazione.


9.  Un paragrafo del capitolo sesto del libro è riservato a temi di grande rilevanza e attualità, quali l’oligopolio e la concentrazione dell’informazione.  Sono trend che, mi sembra, riguardino anche altri paesi, dove tra l’altro si sono manifestati con notevole anticipo rispetto all’Italia. Basti pensare alla campagna di stampa dei giornali di William Randolph Hearst a sostegno della guerra 
 William Randolph Hearst
 Orson Welles in Citizen Kane
ispano-americana del 1898, e ai violentissimi attacchi del suo impero mediatico contro Citizen Kane, del 1941, trasposizione cinematografica fin troppo esplicita della sua vita  (attacchi che rischiarono di compromettere il futuro artistico del protagonista e regista della pellicola, Orson Welles).  Per non parlare di quella che viene considerata forse la più grossa concentrazione di media esistente oggi  al mondo, ossia News Corporation, di Rudolph Murdoch, con posizioni di assoluto monopolio in alcuni paesi.  Di specifico, da noi, forse, c’è stato, fino a qualche tempo fa, il conflitto d’interessi, che comunque ha assicurato ugualmente un’ampia libertà di espressione.  Qual è la sua opinione in proposito ?

L'inizio degli anni Novanta e l'ingresso in politica dell'imprenditore Silvio Berlusconi ha coinciso con l'affermazione di una particolare tendenza – non solo italiana – del mondo dell'informazione, in conseguenza della quale gli interessi dei giornalisti iniziarono a spostarsi dall'universo dei partiti a quello dei maggiori leader politici, con uno stile drammatizzato e popolare (in parte mutuato dai modelli giornalistici americani), tipico dei regimi di tipo presidenziale.
Fu questo anche il frutto di una vasta trasformazione sociale e politica, in cui i partiti di massa ideologicamente connotati e storicamente radicati in specifici contesti sociali furono sostituiti da soggetti capaci di raccogliere un consenso trasversale (sintomatica la quasi scomparsa dei giornali di partito) e molto interessati all’acquisizione di quote di mercato elettorale attraverso le prospettive aperte dai vecchi e nuovi media (in questo senso, non appare forse troppo azzardato ipotizzare che, soprattutto a partire dagli anni Novanta, a livello informativo si sia andata realizzando una maggiore uniformazione dei modelli comunicativi dei vari paesi dell'Occidente industrializzato).
Anche le rapide innovazioni tecnologiche, a iniziare da quelle collegate allo sviluppo di internet (capace di porre per la prima volta simultaneamente in collegamento i giornalisti di tutto il mondo, permettendo di condividere un unico patrimonio di informazioni) produssero una certa omogeneizzazione nell’impostazione professionale dei giornalisti, specie di quelli appartenenti alle nuove generazioni, mentre la crescente internazionalizzazione dei processi comunicativi spinse i governi ad attrezzarsi per sfruttare a proprio vantaggio il potenziale di questi nuovi strumenti. Soprattutto in occasione di passaggi di particolare tensione, come ad esempio le guerre, essi - attraverso il controllo delle immagini e delle notizie circolanti su scala mondiale – si attivarono per influenzare non solo i pubblici nazionali, ma anche quelli internazionali, ormai integrati in audiences allargate.
Limitatamente ai fenomeni a cui accenna lei (soprattutto in riferimento alla posizione assunta da Silvio Berlusconi), ciò che ha reso piuttosto atipico il caso italiano non è stata solo l'elevata concentrazione degli strumenti informativi nelle mani di un unico imprenditore, ma anche il loro controllo da parte di un soggetto che aveva pure la responsabilità di governare il paese. Se insomma in Italia le normative antitrust presentavano al momento dell'ascesa dell'onorevole Berlusconi vari aspetti di debolezza, quelle sul cosiddetto «conflitto di interessi» ne presentavano di ancora maggiori. In nessun paese democratico dell'Occidente un capo del governo poteva esercitare un analogo potere di controllo anche su tutti i principali network televisivi nazionali.
Occorre per giunta osservare che, al di là delle ottimistiche previsioni di chi tende a esaltare il potenziale «democratico» dei nuovi strumenti di informazione, nati con l'avvento di internet (e devo dire che - con le dovute riserve - anche io tendo a collocarmi in questo fronte), la televisione continua a mantenere in Italia un ruolo prevalente nel campo dell'informazione e della costruzione di una personale «immagine del mondo», soprattutto tra quelle fasce di popolazione – si tratta di milioni di persone - tradizionalmente meno attrezzate a fronteggiare i rischi della propaganda.


10.  Il conflitto di interessi, meriterebbe, esso solo, un’intera intervista.  Cerchiamo comunque di dire qualcosa di più, senza andare troppo fuori tema.  Non c’è dubbio che tale conflitto abbia condizionato pesantemente l’immagine e l’attività del passato esecutivo, offuscando addirittura il buon nome del Paese a livello internazionale.  Secondo alcuni, però, ad avere conflitti di interesse, in realtà, sono stati tutti i componenti dei governi  (a parte quelli ‘tecnici’), che si sono succeduti in Italia dall’introduzione dell’attuale carta costituzionale, vale a dire dal 1948, posto che, come si fa saggiamente notare, erano formati quasi sempre da parlamentari, ossia da rappresentanti di un altro potere, quello legislativo, svilendo così il principio sacrosanto della divisione dei poteri  -che prevede evidentemente un controllo reciproco-  su cui dovrebbe fondarsi una vera democrazia  (ancorché non partecipata).  Nella sostanza, non si può essere ad un tempo ministro o sottosegretario e rimanere deputato o senatore.  Il  ‘controllato’ non può essere ‘controllore’ di se stesso.  È senz’altro motivo di grande stupore  il fatto che una verità così elementare emerga solo molto raramente nel dibattito politico.  La Costituzione va difesa, non c’è dubbio  (anche se, bisognerebbe aggiungere, meriterebbe qualche ulteriore aggiornamento, visto che in 64 anni il mondo è cambiato, e parecchio, direi).  Ma andrebbe anche applicata in modo corretto, e ho ragione di ritenere che questo della divisione dei poteri rappresenti un punto che richiederebbe una maggiore attenzione.  Per non parlare del fatto che ancora oggi, sia pure in misura leggermente più ridotta rispetto al passato, non sono rari i casi di esponenti politici i quali, oltre ad essere parlamentari nazionali, ricoprono incarichi a livello locale  (consigliere, assessore e talvolta anche sindaco o presidente di provincia).  In questo modo si viene a creare un cumulo delle cariche che fa quantomeno dubitare sull’effettiva capacità del soggetto di gestire con un minimo di risultati tutto questo fardello di impegni.  Oppure, ancora, che risulta imbarazzante  (per non aggiungere altro)  la posizione di quei ministri e sottosegretari i quali hanno partecipato a manifestazioni pubbliche promosse dal loro partito dove, con toni aggressivi e minacciando addirittura il ricorso alle armi, si è chiesta apertamente la secessione di intere regioni dal resto dell'Italia.

Sono sostanzialmente d'accordo con quanto lei afferma. Come avrà potuto verificare da molti miei lavori, sono d'altra parte io stesso un convinto sostenitore della tesi della «continuità», in rapporto a molti dei caratteri (e delle «anomalie») che hanno connotato la storia nazionale unitaria.
Non vorrei banalizzare troppo il discorso, ma le dico sinceramente che non ho nemmeno mai ritenuto il   «conflitto di interessi» berlusconiano il principale problema per il paese. Credo che ve ne siano altri di più gravi. Una nazione è del resto un soggetto estremamente articolato e complesso, i cui destini dipendono da fattori difficilmente riconducibili al semplice volere o agli interessi di una persona. Detto questo, mi pare altrettanto incontestabile che solo con i governi guidati dall'onorevole Berlusconi si sia raggiunto un livello elevatissimo di concentrazione di potere in capo a un unico soggetto. Dopo la sua ascesa all'esecutivo, l'imprenditore milanese non divenne solo un individuo in grado di influenzare – direttamente o indirettamente – la linea editoriale di buona parte dei network televisivi nazionali. Egli era anche uno degli uomini più ricchi del paese; in campo editoriale controllava varie case editrici (tra cui Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer) e la maggiore d'Italia, la Mondadori; alcuni settimanali molto diffusi (come «Sorrisi e Canzoni Tv» e «Panorama»); periodici come «Donna Moderna», «Grazia» e «Cosmopolitan», Pagine Italia, la catena Blockbuster, la Medusa Film. Era inoltre presente – e in misura non marginale – in vari settori di rilievo, tra cui quelli commerciale, bancario, assicurativo, sportivo. Insomma – al di là di ogni altra considerazione sul suo operato - appare difficile pensare che la sua attività di governo non potesse prima o poi andarsi a intrecciare con quella delle aziende da lui controllate (in prima o per interposta persona).


11.  Nel libro lei ricorda molto opportunamente che l’Italia, oltre a continuare a detenere il record negativo di lettori di quotidiani  (112,4 copie ogni mille abitanti adulti, contro le 624 copie del Giappone, le 580 della Norvegia, le 491 della Finlandia, le 499 della Svezia, le 398 del Regno Unito, e le 290 della Germania), presenta un elevato deficit anche sotto il profilo degli abbonamenti, appena il 9 % delle copie vendute, mentre nei paesi ricordati sopra si supera il 50 %, con picchi vicini all’80 % nel Nord Europa.  Quali sono le cause di questa arretratezza ?  Il deplorevole funzionamento del servizio postale ?  O che altro ?  D’altra parte, se è vero che la stampa quotidiana ‘laica’ soffre, è anche vero che quella confessionale  (quasi sempre distribuita tramite abbonamento), con testate peraltro di buona qualità, continua ad essere molto seguita  (e in questo non vedo nulla di scandaloso).


Non ho mai studiato in maniera specifica il fenomeno. Mi limito a osservare che il debole assetto distributivo nel paese, incapace di offrire sbocchi commerciali e sistemi di consegna a domicilio efficaci (al contrario ad esempio della Francia, dove sono state attuate politiche di differimento degli aumenti delle tariffe postali e sono stati reperiti fondi da destinare al sostegno della distribuzione a domicilio), il non sempre efficiente funzionamento del sistema postale, la debole rete di collegamento tra varie aree del paese hanno sfavorito – nel corso dei decenni post-unitari - il radicarsi di una tradizione di consegna a domicilio dei giornali, come del resto (fino almeno all'introduzione di sistemi come la teletrasmissione e la fotocomposizione - che consentirono di azzerare le distanze tra il luogo in cui si componevano i giornali e quello in cui si stampavano e si distribuivano) di un sistema efficiente di distribuzione dei giornali, specie in alcune aree del paese.
Trovo anche molto interessante l'accenno che lei dedica al mondo della stampa cattolica, la cui diffusione fu, sin dal suo apparire (ricordiamo le novecentesche battaglie dell'Azione cattolica e delle gerarchie ecclesiastiche per la diffusione della cosiddetta «buona stampa»), agevolata dai riti domenicali e dalla propaganda dei sacerdoti. A me pare che, proprio in questo contesto (oltre al caso rilevante di «Famiglia Cristiana»), un fenomeno di un certo rilievo sia rappresentato dalla persistenza in vita di molti settimanali cattolici diocesani, attraverso cui le chiese locali si sono dimostrate capaci di modellare il proprio messaggio attorno ai bisogni e alle esigenze dei singoli contesti territoriali.


12.  Lei è titolare di Storia dei media e del giornalismo e di Storia del giornalismo e della comunicazione politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Quali differenze esistono tra queste due materie, all’apparenza molto simili ? In particolare, in che cosa consiste la ‘specificità’ della comunicazione politica ?  Si può parlare di  vere differenze tra giornalismo politico in senso lato e giornalismo parlamentare dall’altro, un mondo a cui ha dedicato un intero libro (A duello con la politica. La stampa parlamentare in Italia dalle origini al primo «Ventaglio». 1848-1893, Rubbettino 2008, pp. XV – 168) ? 

Si tratta di differenze di non sempre agevole classificazione, perché spesso rispondenti a logiche puramente accademiche e di organizzazione della didattica. Tanto per fornire un'indicazione approssimativa, i corsi di Storia dei media e del giornalismo tendono in genere ad affrontare le questioni legate allo sviluppo del sistema dell'informazione e agli strumenti – i media, appunto – necessari a veicolare i flussi informativi; quelli di Storia del giornalismo e della comunicazione politica (un settore sotto molti aspetti più nuovo e meno battuto dalla ricerca) tendono a privilegiare l'analisi dei meccanismi di relazione tra una dimensione «pubblica» dell'informazione e della comunicazione (rappresentata dallo stato, da altre istituzioni, dai partiti) e una sfera privata (rappresentata dalla cosiddetta società civile). Si tratta di una dimensione che in Italia si affermò sin dall'unificazione, quando nel paese si manifestò in maniera stringente l'esigenza di far digerire all'opinione pubblica stessa i «fatti compiuti», forgiando una nuova identità condivisa, in cui tutti potessero riconoscersi.


13.  Secondo lei ha ancora un senso mantenere l’OdG ?  Ricordo che per la sua soppressione si è espresso uno schieramento politico  (ma non solo)  bipartisan piuttosto ampio.

È molto difficile rispondere a questa domanda in poche parole. Essa tocca infatti un problema che da anni anima la polemica tra il fronte dei detrattori e quello dei sostenitori e che bisognerebbe evitare di banalizzare troppo. In generale, la riflessione non dovrebbe a mio parere andare totalmente avulsa da una seria indagine sui modi, i tempi e gli obiettivi per cui l'albo fu introdotto in Italia. Esso nacque – occorre ricordarlo - durante il fascismo, essenzialmente per garantire l'epurazione dei giornalisti non disponibili ad allinearsi ai diktat del fascismo e per attuare uno strettissimo controllo sulla categoria.
Dopo il crollo del fascismo e la fine della guerra, con la legge n. 69 del 3 febbraio 1963, che istitutiva formalmente l'ordine dei giornalisti (mentre sino ad allora, sulla base di quanto disposto dal decreto legislativo 23 ottobre 1944 n. 302, la tenuta degli albi professionali – introdotti dalla legge 31 dicembre 1925 - fu affidata a una Commissione unica, nominata dal ministro di Grazia e Giustizia), fu mantenuto l’obbligo di iscrizione all'albo per l’esercizio della professione, nonostante le resistenze manifestate dagli stessi Alleati e i malumori – mai sopiti - di chi riteneva l'esistenza dell'albo stesso in aperto contrasto con l’articolo 21 della nuova Costituzione. Nei decenni successivi i giudici della Corte costituzionale confermarono in varie occasioni l’efficacia di tali norme, specificando che l’istituto dell’albo sarebbe stato lesivo dei diritti costituzionali solo nel caso in cui non avesse consentito a soggetti diversi dagli iscritti di manifestare liberamente il pensiero a mezzo stampa; cosa di fatto non vera, visto che l’articolo 35 della legge 69 permetteva a chiunque di scrivere su un giornale – senza obbligo di iscrizione – per un periodo fino a due anni.
Non sono in grado di giudicare in maniera fondata i metodi con cui gli albi sono stati effettivamente gestiti dopo la loro introduzione e il ruolo effettivo che l'ordine ha svolto nell'ultimo cinquantennio unitario. Certo se l'ordine fosse realmente riuscito, in questi anni, a svolgere al meglio il proprio ruolo di garanzia della qualità delle prestazioni svolte dai professionisti, tutelando la dignità della categoria e di chi ad essa si rivolge, allora io credo che sarebbe difficile pensare di poter contestare il diritto alla sua esistenza. Il problema è che una parte delle persone che critica oggi questo soggetto non è affatto convinta di questo. 


14.  Nei manuali scolastici di storia si parla poco di giornalismo, a parte i cenni sulla nascita del Corriere, sul ruolo dei quotidiani nel periodo dell’impresa libica e in quello della neutralità  (le ‘radiose giornate di maggio’),  su Mussolini.  A che cosa attribuisce questi silenzi ?

Sinceramente non saprei darle una risposta fondata. L'impressione che talvolta ricavo dalla lettura dei manuali di storia contemporanea per le scuole superiori è che essi, nel corso degli ultimi decenni, si siano impoveriti in misura notevole, in termini di temi e contenuti, offrendo sempre meno spazi agli studenti per approfondire le loro conoscenze.
Oggi, ad esempio, mi capita molto più che in passato di vedere studenti del primo o secondo anno di Università cadere letteralmente dalle nuvole di fronte a fatti o personaggi che – anche solo un quindicennio fa – risultavano ai loro predecessori piuttosto noti.
Se a questo si aggiunge che molti di questi manuali finiscono per riprodurre l'uno i contenuti dell'altro, ci si rende conto di quanto possa risultare difficile pensare di poter uscire da un condizione per cui effettivamente il giornalismo e i mezzi di comunicazione, che pure nelle moderne società dell'informazione hanno rivestito un ruolo fondamentale (si pensi anche solo alle grandi dittature europee), rimangono relegati in una posizione defilata. Insomma, a me pare che tale condizione possa anche essere il frutto di un mondo che tende ad autoriprodursi e che potrebbe essere intaccato solo nel caso in cui a occuparsi della stesura di un nuovo manuale o alla revisione di uno precedente fosse chiamato uno studioso particolarmente attento – per i suoi specifici interessi di ricerca – a questi temi.


15.  Si può ancora parlare di videocrazia, in senso politico, e comunque di potere decisivo da parte della televisione in ambito elettorale, alla luce dei risultati delle recenti consultazioni amministrative ?  In altri termini, la televisione rappresenta ancora un mezzo attraverso cui i politici possono aumentare la loro popolarità ?
La domanda è in rapporto al clamoroso successo conseguito dalla lista di Grillo nelle elezioni locali.  Come sa, il comico genovese ha fatto notare che i risultati che ha ottenuto nelle suddette elezioni sono stati raggiunti senza partecipazione a programmi televisivi, sottolineando che ormai la televisione viene concepita da molti elettori come un luogo che squalifica chi vi partecipa, piuttosto che di promozione della propria immagine e del proprio programma elettorale.  Andare in TV fa perdere voti, dichiara.  Molto meglio, aggiunge, affidarsi ai comizi, alla rete e soprattutto disporre di un blog aggiornato  (cosa, quest’ultima, che effettivamente pochi politici hanno; anzi, molti di loro ne sono completamente privi).  In tv non bisogna presentarsi, sostiene Grillo, perché il mezzo non consente la distinzione tra i candidati, è uno strumento che omologa, che appiattisce, che annulla le differenze, soprattutto quando a condurre i programmi sono certi presentatori schierati ideologicamente.  Per Grillo, quindi, il principio secondo cui se non vai in televisione non esisti, almeno per quanto riguarda i politici, non è più vero.  L’aspetto surreale della vicenda è che, se Grillo 'non va alla televisione', quest’ultima 'va a Grillo', nel senso che dopo l’exploit  alle recenti amministrative molti talk show hanno discusso proprio di lui … in sua assenza.

Non sono un sociologo della comunicazione e non sono in grado di esprimere un'opinione originale e fondata sul tema.
Certo credo che la progressiva diffusione delle tecnologie multimediali abbia contribuito a ridisegnare in maniera significativa il panorama del rapporto cittadino media. Mi pare tuttavia che, come ho detto in precedenza, sebbene abbiano dato prova di saper effettivamente limitare il monopolio dei grandi network di massa, il potenziale «democratico» di questi nuovi strumenti si debba quotidianamente confrontare con vari ostacoli significativi, fra cui la crescente influenza delle grandi aziende mediatiche. Esistono varie forme di pressione esercitabili da operatori esterni ai fruitori, a partire da quelle legate ai processi di inclusione e di indicizzazione delle informazioni. Oggi attraverso il web tutti i cittadini sono potenzialmente in grado di inviare e condividere messaggi e informazioni, ma non tutti – a causa della particolare morfologia della rete – godono delle stesse prerogative di fare breccia tra il pubblico. Gran parte del traffico si concentra anzi su pochi nodi privilegiati, con una concentrazione gerarchica di pagine e contatti determinata, prima che dal caso, dal peso specifico degli operatori.
Non va inoltre dimenticato che tali nuovi strumenti si connotano per una diffusione ancora prevalentemente limitata a fasce modeste – se pure in espansione – di persone. Insomma, appare difficile negare che milioni di italiani (si pensi a chi – ad esempio tra le casalinghe e i pensionati - non ha particolare dimestichezza con le tecnologie informatiche) siano ancora molto legati, nella formazione di una loro particolare idea del mondo, al mezzo televisivo e risultino da esso molto condizionati.
Io credo – in tutta franchezza – che un uomo politico come Silvio Berlusconi sia stato agevolato, nella sua ascesa politica, dall'ampio ricorso al mezzo televisivo, mentre mi sembra più difficile poter affermare che il successivo declino di consensi verso la sua persona sia stato causato proprio dalla sua potenza mediatica. Non credo nemmeno che, a partire da oggi, l'andare in Tv possa davvero contribuire alla perdita di consensi. Se io fossi un uomo politico e possedessi dei canali televisivi, me li terrei ben stretti. Piuttosto il problema, per il mondo politico in questo delicato passaggio, è quello di riuscire a capire cosa andare a dire in Tv a un cittadino più stanco, più povero e più arrabbiato di quanto lo fosse anche solo un decennio fa.


16.  Secondo un recente sondaggio, quella del giornalista viene considerata ormai un’attività secondaria, marginale, negletta, quasi di scarto, addirittura inferiore a quelle che prevedono lavori manuali.  Il mestiere del giornalista, insomma, avrebbe perso quel fascino, quell’allure che possedeva fino a qualche anno fa.  Come spiega questa disaffezione ?  Con il fatto che gli aspiranti giornalisti non riescono a trovare lavoro e che in ogni caso parecchi di loro, una volta ottenuto il contratto, sono pagati poco e in modo irregolare ?  In effetti, gli ultimi dati forniti dalla Federazione Italiana Editori Giornali, riassunti nel volume La Stampa in Italia 2009-2011, presentato il 18 aprile 2012, mostrano un quadro allarmante, che lascia poco spazio ad equivoci.  Per esempio, nel periodo 2006-11  (per l'ultimo anno le cifre non sono ancora definitive), il numero di giornalisti occupati nei quotidiani, nei periodici e nelle agenzie di stampa, è sceso da 10.929 unità a 9.853 unità.  Ma è il dato sui praticanti quello più vistoso e che suscita maggiore preoccupazione: si è passati infatti, tra quotidiani e periodici, da 680 unità del 2006  (404 nei quotidiani e 276 nei periodici), a  261 unità  (118 nei quotidiani e 143 nei periodici).  Un vero e proprio crollo, da interpretare comunque anche alla luce della crisi economica e della chiusura di alcune testate.  Lo studio della FIEG è particolarmente significativo anche perché, accanto alla presentazione di una realtà in grave crisi, avanza proposte concrete per risollevare il comparto  (pp. 71-2), proposte che meriterebbero di essere recepite dal governo.  (Un altro documento di grande importanza sulle condizioni del settore è senza dubbio il  Rapporto 2012 sull'industria dei quotidiani  realizzato da ASIG per l' Osservatorio Tecnico "Carlo Lombardi" per i quotidiani e le agenzie di informazione.)

Si può dire che, sin dal suo sviluppo in Italia, il mestiere del giornalista sia stato sempre oggetto di giudizi contrastanti: da un lato tesi a individuare nei suoi rappresentanti figure quasi eroiche, di chi non si lasciava piegare dalle minacce e dal potere (interessate solo ad assicurare al cittadino il diritto di essere informato sulle malefatte del potere, sulle trame del mondo del malaffare, sui piani orditi dall’establishment politico); dall'altro tesi a enfatizzare l'inclinazione di molti rappresentanti della categoria a piegarsi alle richieste dei potenti, a prestarsi – pur di garantirsi onori, prestigio, denaro – alle esigenze del «padrone» o del «potente di turno».
In genere in Italia questi secondi giudizi sono prevalsi sui primi. Come scrivo nel mio libro, molti giornalisti italiani dell'Ottocento erano giudicati dall'opinione pubblica come dei «mangiapane a tradimento», degli imbroglioni, dei mistificatori «senza onore». Secondo Ruggero Bonghi, direttore della «Perseveranza», era addirittura impossibile pretendere di poter «restare un galantuomo» – senza vendersi a «banchieri, a capiparte, a candidati, a ministri» – facendo il mestiere di giornalista. Per l’editore Gaspero Barbera i giornalisti erano quasi sempre delle persone poco rette, capaci di trasformare «la nobile missione della stampa periodica in traffico indecoroso», ponendosi «ai servigi e alle voglie degli ambiziosi».
Persino i teorici del giornalismo fascista – certo con una buona dose di demagogia, ma anche sapendo bene dove andavano a parare – giustificarono l’introduzione, nel dicembre 1925, dell’istituto dell’Albo (poi disciplinato dal regio decreto n. 384 del 26 febbraio 1928) con l’esigenza di assicurare ai cittadini garanzie sul valore professionale dei giornalisti, «ripulendo» un mondo divenuto «l’agognato refugium peccatorum, il comodo asilo di tutti i profughi, il ricovero di molti spostati».
Non mi pare che la situazione sia particolarmente cambiata negli ultimi decenni. Ancora oggi – come fa giustamente notare lei - gli osservatori di questo universo non mancano di ricordare come la figura del giornalista tenda a suscitare sentimenti oscillanti tra l’ammirazione e la diffidenza, tali per cui un professionista dell’informazione possa risultare, nello stesso tempo, «un testimone imparziale», «un osservatore cinico», «un interprete partigiano», «un ribelle» o «uno smaliziato travisatore» (traggo queste definizioni da un noto manuale di giornalismo di Alberto Papuzzi). Qualche anno fa Giampaolo Pansa propose altre gustose tipizzazioni di giornalisti italiani, includendovi fra gli altri «il crociato», «l’opinionista mascherato», «il super-furbo», «il giornalista spray».
Se poi a questo si aggiunge che, escludendo alcune grandi firme, pure lo status economico e sociale del giornalista ha conosciuto negli anni un progressivo ridimensionamento (si pensi al proliferare di tutte quelle figure – lavoratori coordinati, consulenti, autori di testi – chiamate a svolgere un ruolo del tutto assimilabile a quello del giornalista senza esserlo formalmente, con un regime di sotto-garanzie e sotto-retribuzioni), si può comprendere che il giornalismo come professione possa anche avere perso una parte del suo appeal agli occhi delle giovani generazioni.
Ribadisco – tuttavia – che a mio parere si tratta solo di uno dei tanti momenti di oscillazione vissuti dalla professione. Continueranno a nascere giovani che si appassioneranno a questa professione, pronti a immedesimarsi nel grande giornalista del passato e del presente e a riconoscersi in chi ha saputo in passato interpretare il proprio lavoro con coraggio, intraprendenza e senza autocensure. Uomini che riusciranno a rinverdire il mito di professionisti pronti a giocarsi la vita, pur di garantire ai lettori un'informazione libera da censure e autocensure. Penso ad esempio a giornalisti come Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Enzo Baldoni, Antonio Russo, Giuseppe Alfano, Mauro De Mauro, Giuseppe Impastato, Cosimo Cristina, Giuseppe Fava, Giovanni Spampinato, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno e altri ancora.


17.  È stato sottolineato che «Se in passato c’è stato un problema di troppo pochi mezzi di informazione e quindi di un accesso limitato all’informazione, oggi, e per il futuro, la preoccupazione maggiore è che, in un mondo dove prevale semmai l’abbondanza nell’offerta di contenuti, ciascuno resti nel suo piccolo recinto di informazione amica e non si esponga mai all’ascolto di idee diverse dalle proprie». Condivide questa opinione ?

 Walter Lippmann
In tutta franchezza, non saprei ipotizzare gli scenari futuri in questo ambito. Non mi pare, tuttavia, che in passato la minore offerta di contenuti abbia favorito una maggiore razionalità della domanda. Tutto sommato, il rischio di rimanere prigioniero di un «piccolo recinto di informazione amica» (già all’inizio del Novecento un attento osservatore del suo tempo, Walter Lippmann, aveva ricordato che il lettore giudica generalmente un giornale dal modo in cui viene trattata la parte delle notizie in cui si sente «personalmente coinvolto» e che non esiste per lui migliore criterio di preferenza di quello di vedere l'interpretazione della testata collimare con la propria) mi pare sia stato maggiore in passato, quando la possibilità di informarsi era legata all'oneroso acquisto di quotidiani o all'accesso a una televisione (di stato) soggiogata, sino almeno alla metà degli anni Settanta, agli indirizzi di una specifica forza politica e poi trasformatasi - anche sulla spinta dello sviluppo delle televisioni private - in un soggetto influenzato da una crescente lottizzazione partitica.
Pur con i limiti a cui abbiamo accennato in precedenza (di un accesso all'informazione - attraverso la rete - ancora limitato a settori non maggioritari di popolazione), oggi, per un numero crescente di persone, è ormai possibile con molta più facilità rispetto al passato confrontarsi con pareri e punti di vista differenti. Il problema vero potrebbe essere - piuttosto – quello legato alla capacità di ordinare questo vero e proprio profluvio di informazioni all'interno di una cornice comprensibile e razionale.


18.  Il quotidiano  ispirato alla  formula ‘omnibus’, cioè per tutti, è ancora valido oggi o si va sempre di più verso una specializzazione, puntando su un target ben preciso ?

Non sono in grado di darle una risposta fondata al riguardo. L'impressione che si ricava dalle statistiche di vendita è quella che – all'interno di un quadro molto negativo per quanto concerne il mondo della carta stampata quotidiana e periodica – solo gli organi tarati su target molto specifici, come ad esempio i motori, la salute, la moda, l’economia, il giardinaggio, stiano riuscendo a contenere il crollo. Si tratta, d'altra parte, di organi che spesso si rivolgono a settori di popolazione provvisti di maggiori disponibilità economiche e quindi ancora capaci di permettersi il «lusso» di comprare un giornale.


19.  Ritiene che la scuola faccia abbastanza per avvicinare i giovani alla lettura dei quotidiani e comunque ad interessarsi, attraverso la stampa quotidiana e periodica, dei maggiori problemi del nostro tempo ?  Ricordo che negli anni Ottanta l’introduzione del quotidiano in classe era stata salutata come una grande vittoria del rinnovamento educativo iniziato alla fine degli anni Sessanta, un rinnovamento che, nello specifico, avrebbe dovuto sollecitare gli studenti a considerare questo mezzo di informazione un elemento essenziale della loro crescita culturale, civile ed etica.  In realtà, dopo l’entusiasmo dei primi anni, l’iniziativa si è andata spegnendo, tanto che oggi solo poche scuole attuano programmi di lettura in aula dei quotidiani e dei periodici.  L’aspetto più triste della situazione è che in diversi istituti i giornali continuano ad arrivare in modo regolare  (evidentemente gratis, visti i magri bilanci delle scuole), ma finiscono quasi sempre o nelle mani dei docenti e del personale ATA, oppure vengono accatastati in qualche magazzino, da cui sono poi tolti per essere mandati al macero.

Non credo che la scuola faccia abbastanza in questo ambito (come del resto anche in altri). Capisco bene che spesso essa venga soffocata da innumerevoli incombenze e aspettative, ma se – come credo - alla scuola compete anche la missione di formare dei cittadini capaci di maturare delle posizioni critiche e consapevoli rispetto ai problemi del proprio tempo, allora le iniziative a cui lei si riferisce rappresenterebbero davvero un'occasione da non sprecare. Ricordo bene la consuetudine - introdotta all'inizio degli anni Ottanta - di leggere e commentare in classe le pagine più interessanti della stampa nazionale a maggiore diffusione. Fu – anche per me - un momento di crescita che ricordo positivamente.
Quando si ha a che fare con gli adolescenti occorre non perdersi mai d'animo. Alcune iniziative – non solo quelle tese a promuovere la lettura di quotidiani o periodici, ma anche quelle, ad esempio, volte a favorire maggiori consapevolezza ambientale, rispetto per le minoranze, attenzione per i doveri civici - vengono spesso inizialmente accolte, specie nelle scuole «di frontiera», con sarcasmo o ironia. Ma ho potuto personalmente constatare che certi messaggi, pur inizialmente rifiutati, difficilmente lasciano del tutto indifferenti. Credo che i giovani siano migliori di quanto talvolta tendiamo e dipingerli. Spesso sono soli e disorientati, ma non refrattari agli stimoli. Hanno bisogno di percepire sentimenti di rispetto e di considerazione e hanno, soprattutto, necessità di vedere che chi propone loro dei modelli di comportamento è poi il primo a onorarli. Come avviene per l'educazione dei figli, anche nella formazione degli studenti l'esempio è - alla resa dei conti – ciò che fa la differenza. E' difficile convincere uno studente di 14 anni dell'importanza di informarsi sull'attualità attraverso la lettura dei giornali, se quello stesso studente non vede mai i suoi genitori o il suo insegnante tenerne uno fra le mani.
Altro discorso è – naturalmente – quello che si lega alla «qualità» di quegli stessi giornali (tema a cui, in questi anni, ho dedicato alcuni lavori, da cui ho maturato una serie di rilievi piuttosto critici). Come in tutti gli ambiti professionali, anche in quello giornalistico esistono d'altra parte dei bravissimi e dei pessimi interpreti; uomini seri, corretti, indipendenti e uomini disponibili a vendersi al migliore offerente.
Chi può tuttavia ragionevolmente negare che la raccolta e il vaglio critico di una vasta messe di informazioni (meglio se provenienti da fonti diverse) rappresenti il modo migliore non solo per maturare una personale visione del mondo, ma anche per evitare di cadere vittima delle manipolazioni degli imbonitori di turno?


20.  Non crede che troppo spesso la stampa -soprattutto quella politica-  pur di aumentare il numero di lettori, si interessi di fatti di vita privata che non dovrebbero riguardare più di tanto l’opinione pubblica e che comunque dovrebbero essere presentati in modo più discreto, con rispetto per la privacy e senza tanto clamore e drammatizzazione dei fatti ?

Non credo che sia questo il principale problema per la stampa italiana. Alcuni paesi (penso ad esempio agli Stati Uniti o all'Inghilterra), in cui il mito della stampa libera e indipendente dal potere ha saputo porre le radici più stabili, vantano una ricca tradizione di stampa popolare, per non dire scandalistica. Sotto certi aspetti, trovo anzi che l'informazione in Italia, soprattutto a partire dagli anni Novanta e dal sempre maggiore sviluppo della televisione commerciale, non abbia fatto altro che uniformarsi ai modelli comunicativi tipici di altri paesi dell’Occidente industrializzato. E poi il lettore ha pur sempre un ottimo antidoto contro la pessima informazione: non acquistare un giornale, cambiare canale, navigare in altri siti.
Forse non va invece trascurato il fatto che – al di là dell'indubbia evoluzione del taglio e del contenuto dei giornali – in alcuni decenni sono cambiati pure gli scenari con cui l'informazione è chiamata a confrontarsi. Bisognerebbe ad esempio chiedersi se certe notizie (apparentemente più vicine al gossip che ad altro), spesso proposte con toni decisamente sensazionalistici dalla stampa e dalla Tv, siano esclusivamente il frutto di un diverso «gusto giornalistico» o non anche, almeno in parte, di oggettive mutazioni avvenute nella società.  


21.  Ritiene che l’attuale mondo giornalistico sia all’altezza di quello del passato, dei Barzini, dei Debenedetti, dei Bocca, dei Montanelli ?  Qual è stata, secondo lei, l’epoca d’oro del giornalismo italiano, sia in termini di firme che di pubblico?

Si tratta di una delle domande che spesso ricorrono, non solo in riferimento al mondo giornalistico (pensiamo ad esempio al campo dello spettacolo, della cultura, dello sport). Devo confidarle che trovo in genere poco utile la fatica di tentare di stabilire se – tanto per riferirmi agli ambiti che ho appena citato – siano stati più grandi i «campioni» del passato o quelli del presente. Ogni personaggio va letto come un uomo del suo tempo, calato nei diversi contesti – politici, culturali, economici – in cui ha vissuto e operato.
Se li si guarda nel loro complesso, a me non pare affatto che i giornalisti italiani di oggi siano meno capaci e preparati di quelli dei due secoli precedenti. Probabilmente, considerando anche il loro livello medio di preparazione scolastica e accademica, credo anzi possa essere vero il contrario.
Quello che a mio parere è profondamente cambiato è - invece - il contesto in cui sono chiamati a operare.


22.  Il fenomeno dei quotidiani gratis ha favorito o danneggiato ancora di più la diffusione dei  giornali tradizionali ? E che cosa si nasconde dietro questo fenomeno ?

La cosiddetta free press a cui lei si riferisce (stampa quotidiana distribuita gratuitamente nelle stazioni ferroviarie e metropolitane e in altri luoghi pubblici, concepita per un consumo molto rapido e finanziata esclusivamente dalle inserzioni pubblicitarie), è un modello di stampa che, in una decina di anni, tra il 1995 e il 2005, è stata introdotta in quasi tutti i paesi industrializzati europei ed extraeuropei. In Italia - almeno inizialmente - la sua diffusione non ha prodotto particolari conseguenze sulle vendite della tradizionale stampa a pagamento (va forse anche osservato che, molto spesso, gli editori di tale stampa sono stati e sono - non solo in Italia – gli stessi attivi anche negli altri settori dell’informazione, a partire da quello della stampa quotidiana a pagamento). Di solito questo genere di stampa viene letto da persone che sarebbero altrimenti indisponibili a sborsare denaro per garantirsi la lettura di un giornale a pagamento. In questo senso, credo che anche questa forma di informazione «in pillole» non abbia rappresentato - in quanto tale – un fenomeno negativo (un tempo si diceva – con riferimento alle letture dei ragazzi – che anche solo leggere Topolino era pur sempre meglio di non leggere nulla). Quando la redazione di questi nuovi organi di stampa viene affidata a giornalisti capaci, mi pare anzi che essa possa garantire un servizio molto utile, anche nel senso di rappresentare una prima forma di avvicinamento alla lettura di quotidiani (e anche uno strumento capace di stuzzicare il lettore all'eventuale approfondimento, attraverso l'acquisto dei giornali tradizionali).
Se poi si fa riferimento alla questione dei ricavi pubblicitari (la free press è in qualche maniera assimilabile all'universo dei periodici allegati ai maggiori quotidiani, che sono anch'essi dei grandi contenitori di pubblicità), ebbene io non trovo nulla di detestabile nel fatto un organo di stampa leghi strettamente la propria esistenza a tali forme di contributo. Credo anzi che ci si debba preoccupare molto di più di altre questioni, alcune delle quali già accennate in precedenza.


23.  Lei sostiene giustamente che il web ha già cambiato la realtà dell’informazione, introducendo forti elementi di democraticità, grazie alle maggiori opportunità di scelta e di controllo da parte dei lettori, alla possibilità di ciascuno di poter interagire con i giornalisti e quindi alla possibilità di non accettare più una verità preconfezionata.  Non solo esiste una maggiore vigilanza da parte degli utenti, ma gli stessi possono subito far conoscere, attraverso i commenti agli articoli  (commenti non sempre di buon gusto, certo, ma talvolta di estremo interesse), la loro opinione, correggendo dati errati e suggerendo nuove prospettive di lettura dei fatti analizzati negli articoli.  (Per inciso, la procedura dei commenti ha una sua valenza anche in ambito didattico, come ho ricordato in altra sede.)  Non c’è dubbio che ciò aumenti ancora di più la libertà di espressione; quello  che preoccupa, però, sono i tentativi, da parte di alcune forze politiche, di introdurre elementi di restrizione di tale libertà.  Mi riferisco soprattutto alla volontà, da parte di un preciso schieramento politico, di mettere sotto controllo i siti web e i blog  (anche quelli non giornalistici)  per impedire che esprimano critiche troppo severe nei confronti dell’esecutivo, con il pericolo, secondo alcuni, di equiparare ad un vero e proprio reato ciò che non è nient’altro che la libera espressione di un’opinione.  I padri del pensiero liberale, a partire da John Stuart Mill, si rivolterebbero nel sepolcro, di fronte ad un tentativo del genere.  
John Stuart Mill
Oltretutto, si tratta di un’idea quantomeno curiosa, quando si pensi che continuano a rimanere attivi, malgrado le ripetute denunce da parte di autorevoli parlamentari, siti web ferocemente antisemiti e filo-nazisti, dove, tra l’altro, si fa ricorso ad un linguaggio di una volgarità inaudita.  D’altra parte, bisogna considerare anche che il mondo dell’informazione on line presenta dei rischi, visto che spesso è difficile distinguere l’informazione corretta da quella falsa e comunque poco attendibile  (basti pensare a Wikipedia).

Mi permetto di «copiare e incollare» un passaggio significativo della sua domanda, in cui si parla di una «volontà, da parte di un preciso schieramento politico, di mettere sotto controllo i siti web e i blog (anche quelli non giornalistici) per impedire che esprimano critiche troppo severe nei confronti dell’esecutivo, con il pericolo, secondo alcuni, di equiparare ad un vero e proprio reato ciò che non è nient’altro che la libera espressione di un’opinione». Ebbene, se lei cancella i termini web e blog e conserva tutto il resto, ciò che ne ricava è la fotografia di una realtà che ha attraversato buona parte dei 150 anni di storia unitaria. Sin dal 1861 – in Italia – il potere politico ha tentato di piegare a questi particolari fini i mezzi di informazione, nel timore che un'eccessiva libertà di informazione potesse mettere a repentaglio la «sicurezza dello stato». Si tratta, insomma, di una storia già vista. A cambiare sono semmai gli strumenti di comunicazione utilizzati, indubbiamente più potenti (ma anche più difficilmente «controllabili») e gli attori protagonisti.
Devo confidarle che, quando parlo della libertà di informazione in Italia, non sono mai troppo ottimista. Devo tuttavia anche osservare che la rivoluzione digitale – pur non liberandoci dai condizionamenti del potere sugli strumenti di informazione - ha effettivamente prodotto  qualche significativa trasformazione.
Come fa giustamente notare lei, oggi chiunque può inserire sul web dei contenuti «informativi», con qualche speranza di essere letto e creduto. E ciò anche quando tali contenuti sono assolutamente falsi o addirittura farneticanti. Credo che si tratti di un rischio che vale la pena di correre. Nemmeno la carta stampata ci ha del resto mai totalmente messo al riparo da analoghe distorsioni. Come sa bene, ancora oggi esistono giornalisti e «storici» di varia fama o autorevolezza che non mancano di sostenere, nei propri lavori, tesi totalmente prive di riscontri scientifici (giungendo, tanto per fare un esempio, a negare l'esistenza dei lager). Per contrastare queste farneticanti ricostruzioni non esiste altro strumento che quello di porsi sul piano della ricerca scientifica (sorretta da dati certi, dimostrabili, incontrovertibili) e di accettare il confronto dialettico con i loro autori (a meno che – naturalmente - non si voglia auspicare la reintroduzione degli uffici censura o di altri analoghi uffici, retaggio di periodi che sarebbe preferibile tenere a distanza).


24.  Quali sono, secondo lei, le principali differenze tra il mondo del giornalismo italiano e quello di altri paesi, per esempio dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti ?

Sarebbe a dir poco pretenzioso sperare di poter dare in poche righe una risposta esaustiva a questa domanda. Diciamo che in Italia, come in altri paesi dell’Europa meridionale, la bassa percentuale di lettori, lo scarso radicamento della stampa popolare (ricordiamo che una caratteristica abbastanza tipica dei giornali italiani – non di tutti, per fortuna - rispetto a quelli ad esempio inglesi o americani, è quella del ricorso a un linguaggio elitario e poco comprensibile ai più), la limitata autonomia finanziaria di molti organi di informazione, hanno reso in genere il mondo giornalistico particolarmente dipendente dal mondo economico e da quello politico. Tale condizione, per giunta, è andata ulteriormente accentuandosi dal momento in cui prima un vuoto legislativo, poi una regolamentazione pesantemente condizionata – specie nel campo televisivo – da interessi privati e da una progressiva coincidenza fra posizioni dominanti in campo informativo e posizioni di potere a livello politico hanno finito per determinare una vera e propria coincidenza tra i due livelli.


25.  In qualità di docente, come giudica gli studenti che seguono i suoi corsi ?  Sufficientemente rispettosi, motivati e preparati, in particolare nelle competenze espressivo-comunicative ? Non pochi dei suoi colleghi universitari hanno dichiarato pubblicamente che a volte, al momento degli esami, si trovano difronte a ragazzi quasi semi-analfabeti, ignari addirittura di alcune delle più importanti regole grammaticali.  Per non parlare delle recenti dichiarazioni del ministro Fornero, richiamate nel superbo articolo di Federico Orlando apparso il 9 maggio 2012 sul quotidiano Europa.  E inoltre: sono in molti a sostenere i suoi esami e a laurearsi con lei ?  Infine: può dire qualcosa dei temi su cui più spesso si concentrano le tesi di laurea?

Come avevo accennato in riferimento al mondo giornalistico, ritengo che - anche in questo caso - sia poco utile sforzarsi di stabilire se gli studenti di oggi siano «migliori» o «peggiori» di quelli, ad esempio, di quindici o venti anni fa. A meno che non si specifichino in maniera puntuale i parametri su cui si intende tarare il proprio giudizio.
Sotto certi profili credo che gli studenti di oggi siano più preparati dei loro colleghi di qualche decennio fa. Trovo tuttavia – per usare una terminologia sportiva - che siano decisamente più fragili sui «fondamentali». Quello che mi colpisce – ad esempio – è il fatto che, molto più spesso rispetto al passato, mi capiti di seguire tesisti non tanto incapaci di muoversi sul terreno dell'elaborazione di un progetto scientifico, quanto di destreggiarsi su quello della redazione di un testo scritto corretto e comprensibile. Insomma, sempre più spesso mi tocca vestire i panni dell'insegnante di grammatica, piuttosto che quelli del docente di storia.
Detto questo (e vengo alla seconda parte della sua domanda), credo che – oggi come ieri - sia necessario riporre la massima fiducia nelle giovani generazioni. Molti dei miei studenti si avvicinano con entusiasmo alle lezioni di Storia del giornalismo. Diversi (devo dire «troppi», per le mie deboli forze!) chiedono di laurearsi con me, perché, nonostante tutto, il mondo del giornalismo esercita ancora su di loro un consistente appeal. Spesso si laureano con giudizi lusinghieri, anche perché in genere tendo a pretendere molto da loro durante la preparazione dell'elaborato e poi a «difendere» il loro lavoro quando si trovano a doverlo esporre alla commissione di laurea. A dire il vero, dopo averli «costretti» a meditare a dovere sui temi trattati nei mesi che precedono la discussione, molto spesso sono loro stessi a sapersi difendere benissimo!
Per quanto concerne l'impostazione del lavoro, per molti di loro l'approccio più facile resta quello dell'approfondimento di un tema attraverso l'utilizzo di una o più fonti giornalistiche. Talvolta il terreno di indagine è invece quello relativo alle esperienze (rappresentative di un particolare universo) di giornali o giornalisti cosiddetti «minori».
Restano, certo, alcune mie perplessità sull'effettiva validità delle cosiddette tesi triennali, che lasciano davvero poco spazio all'approfondimento. Diciamo che, molto spesso, esse finiscono per diventare soprattutto uno strumento utile a riprendere confidenza con la scrittura e la lettura critica di un testo.


26.  Come mai la stampa italiana all’estero è così poco rappresentata  (anche nel suo libro) ? Negli Stati Uniti, ad esempio, è rimasto un solo quotidiano, America oggi , anche se con testate periodiche collegate.  Non trova che lo Stato dovrebbe fare di più per sostenere la diffusione di giornali locali in lingua italiana all’estero, anche come veicolo per sviluppare rapporti commerciali e culturali ?

La sua osservazione sulla scarsa presenza, nel mio libro, della stampa italiana all'estero ha senza dubbio un fondamento. Ma devo dirle che la mia scelta non nasce tanto da un eccesso provincialismo o da una particolare ossessione «italocentrica», ma dalla necessità di contenere l'analisi nei limiti di un volume «pubblicabile». Molti altri temi, argomenti, personaggi avrebbero insomma potuto essere inseriti.
Detto questo, ritengo anche che il particolare taglio prescelto consenta ugualmente di maturare un ampio quadro della vicenda storica del giornalismo nazionale e possa risultare capace di indurre qualche utile riflessione. Le dico sinceramente che ho sempre avuto una certa difficoltà ad accettare le – pur bonarie - critiche di amici e colleghi che tendono a enfatizzare tutto ciò che in una certa opera «manca», piuttosto che a concentrarsi, anche esercitando il giusto diritto di critica, su quello che «c'è».


27.  La domanda precedente era formulata in modo equivoco, e me ne scuso.  In realtà, la mia critica era ed è rivolta a quegli organismi nazionali che dichiarano di adoperarsi per la diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo ma poi, nei fatti, producono risultati modesti.  È vero che la politica di austerità impostaci dalla Germania impedisce di investire fondi adeguati in settori che dovrebbero considerarsi di primaria importanza, ma secondo me si dovrebbe e si potrebbe fare molto di più in questo campo, tanto più se si considera che l'italiano è la quarta lingua straniera più studiata nel mondo.
Ciò precisato, vorrei affrontare un altro tema, quello dell’ influenza dei media ai tempi di tangentopoli, un’influenza che ormai è accettata da quasi tutti. Ma oggi, qual è stato e continua ad essere il ruolo dei giornalisti nell’attuale crisi economica e politica ?  Fino a che punto si continuano a manipolare le notizie, distorcendole e addirittura creandole ? Mi riferisco soprattutto al caso dei suicidi, presentato per diverse settimane come una delle conseguenze della crisi economica, tranne poi accorgersi che, in realtà, le cifre sono più o meno equiparabili a quelle degli anni scorsi.  Per inciso, il modo troppo spesso sensazionalistico in cui queste notizie sono state proposte, ha indotto alcune sezioni regionali dell'OdG, per esempio quella dell'Umbria, ad invitare  "...tutti i giornalisti e in particolare cronisti, capiservizio, redattori capo e direttori di testata, ad affrontare questi episodi tenendo sempre presente la necessità di non offendere la dignità delle persone coinvolte, di non aggiungere dolore alle già grandi sofferenze dei familiari e di essere oltremodo attenti a non indurre fenomeni di imitazione.".

Anche in questo caso, credo che il panorama generale non presenti grandi novità rispetto al passato. Molto spesso i giornali – non solo quelli italiani – manifestano la tendenza a cavalcare quelle onde emotive che, in certi particolari frangenti, sembrano in grado di garantire maggiore attenzione e quindi anche maggiori vendite. Se un atto di violenza perpetrato da un cittadino extracomunitario colpisce particolarmente l'opinione pubblica, per qualche settimana una pioggia di casi analoghi verrà registrata dai notiziari in ogni angolo della Penisola. E lo stesso varrà per i suicidi, per gli stupri, per le intossicazioni alimentari causate dalle mense scolastiche. Ma è un fenomeno in una qualche misura comprensibile, anche se certamente non privo di fastidiose conseguenze.
Nel complesso, trovo più preoccupante il fatto che una certa lettura distorta della realtà nasca, prima che per cavalcare l’onda emotiva e trarne un beneficio in termini di vendite, per coprire, sostenere o promuovere azioni – più o meno lecite – di chi si cela dietro una determinata testata giornalistica. Come scrivo in Informazione e potere, qualsiasi giornale o telegiornale incarna una qualche forma di «partigianeria» e, prima ancora di «essere scelto», «sceglie» i propri lettori o telespettatori, individuando i profili – politici, sociali e culturali – attorno a cui ritagliarsi. Un quotidiano sportivo che decide di rivolgersi ai tifosi di una squadra calcistica si dispone non tanto a divulgare notizie false – o alterate – per mettere in buona luce questa squadra, quanto a selezionare quelle funzionali a una certa interpretazione degli avvenimenti (particolarmente gradita a una specifica tifoseria).
Più che un etereo – quanto difficilmente definibile – «distacco», da una testata sarebbe a mio parere giusto pretendere una chiara separazione tra l’informazione fornita e altri interessi occulti, esterni alla sfera giornalistica, politica o editoriale.


28.  Secondo alcuni il giornalismo tradizionale sta per essere soppiantato dal giornalismo dei dati. Condivide questa tesi ?

Si tratta di una domanda a cui non credo di saper rispondere in maniera fondata e che andrebbe senz'altro posta a chi quotidianamente esercita sul campo la professione giornalistica. Credo, peraltro, che – al pari del passato – il giornalismo, come ogni altra professione, si adatterà ancora una volta ai nuovi strumenti e stimoli che una società in costante e rapida trasformazione propone. La differenza realmente fondamentale continuerà a rimanere quella tra il buon giornalismo (accurato, pacato nei toni, privo di autocensure e di secondi fini inconfessabili) e il cattivo giornalismo.
Ogni volta che sono avvenute significative trasformazioni nel settore, non sono mancate la voci di preoccupazione dei cosiddetti «apocalittici» (per usare una delle fortunate espressioni coniate da Umberto Eco). Si pensi ad esempio a tutti coloro che pensavano che la radio avrebbe cancellato i giornali, così come avrebbe fatto la televisione con la radio e internet con la televisione. Alla resa dei conti, ben raramente un nuovo media (o un nuovo strumento informativo) ha saputo soppiantarne totalmente uno vecchio.


29.   Lei ha dedicato una parte della sua attività di ricerca al Cardinale Guglielmo Massaja  (1809-99) .  Da che cosa nasce l’interesse verso questa figura ecclesiastica entrata ormai nella leggenda e in che modo si collega con il resto della
sua produzione scientifica ?
 Guglielmo Massaja
Nel corso della mia attività di ricerca ho sempre battuto sia il campo della storia della stampa e del giornalismo, sia quello della storia del movimento cattolico e della chiesa. Provengo del resto da una tradizione torinese di studi che ha annoverato tra le sue fila vari attenti indagatori di quest’ultimo universo, tra cui – tanto per riferirmi ai tempi più recenti - Ettore Passerin d'Entrèves, Francesco Traniello e Bartolo Gariglio.
L'interesse per Massaja nasce dalla curiosità maturata verso un personaggio (ma anche verso un conterraneo, visto che il cardinale cappuccino era di origini astigiane) la cui vicenda aveva nel corso dei decenni assunto contorni quasi mitici, senza che a questa percezione fosse seguito un serio lavoro di indagine scientifica. Pensi che nel 1967 la bibliografia su Massaja contava già oltre 2.150 titoli (e a queste fonti andrebbero aggiunti gli interventi di carattere giornalistico, i discorsi pubblici e altre testimonianze non inserite nel computo generale, come ad esempio quelle cinematografiche), la gran parte dei quali quasi esclusivamente tesi a privilegiarne gli aspetti fascinosi ed eroici e, specie nel caso delle produzione interna al mondo ecclesiastico, viziati da una evidente inclinazione all’agiografia e da una certa approssimazione persino nella trascrizione dei documenti.
Dunque, alla resa dei conti, fino alla pubblicazione del mio volume, mancava una ricostruzione storico-critica convincente dell’azione del missionario piemontese. Una coincidenza ha inoltre voluto che proprio nel 2009, anno di uscita del mio volume massajano, cadesse il bicentenario della nascita del cardinale cappuccino, di cui sono attualmente in corso i processi di canonizzazione. Di qui l'occasione, per me, di poter entrare a far parte del Comitato nazionale ministeriale per le celebrazioni massajane, guidato con bravura dal collega e amico Franco Salvatori, presidente della Società geografica italiana.


30.  Può dire qualcosa sul suo prossimo libro ?

Questa domanda la dovrebbe forse porre a mia moglie e ai miei figli (condannati a convivere con le mie perduranti assenze). Scherzi a parte, anche in questo momento sto lavorando su vari fronti e credo che alla fine privilegerò le piste che mi garantiranno le migliori prospettive in termini di sviluppo scientifico degli studi. Il mondo del giornalismo e dell'informazione raramente è avaro di stimoli alla ricerca.