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lunedì 27 luglio 2015

Riforme fallite: la giustizia penale.

Forse, dall’alto di un quarto di secolo di sperimentazione, è venuto il momento di dire che il “nuovo” processo penale italiano è stato un clamoroso fallimento. Chi c’era si ricorda bene quanto veniva gridato ai quattro venti nell’ottobre 1989, quando (evviva!) entrò in vigore la riforma del codice di procedura. Si diceva: ora basta con la prevalenza dell’accusa, finalmente avremo processi equilibrati, “all’americana”, meglio ancora “alla Perry Mason”.
Si inneggiava: i riti alternativi faranno presto breccia e ridurranno l’intollerabile carico dei processi. Si assicurava: finiamola con l’inutile diarchia tra giudice istruttore e pubblico ministero, ora le indagini preliminari concederanno al pm, finalmente libero di agire entro regole severe e continui controlli del gip (il mitico giudice per le indagini preliminari), un tempo ragionevole per indagare; comunque dopo un massimo di due anni tutto finirà sul tavolo di un giudice terzo, che eviterà abusi, eccessi, lungaggini. In un’orgia di ottimismo positivistico, pareva a tutti che la rinnovata dialettica tra accusa e difesa avrebbe schiuso le porte a un’era di perfetta giustizia.
Ebbene, quasi 25 anni dopo si può dire che purtroppo non è stato così. Le indagini preliminari sono spesso una mostruosa macchina da guerra, priva di un controllo legale, se non addirittura di quello democratico. Troppi gip firmano automaticamente e a raffica i prolungamenti delle indagini (tant’è che il 65 per cento delle prescrizioni avviene in questa fase) e non hanno un potere effettivo né sulla registrazione dei reati, né sulle inchieste che ne derivano: possono respingere un’archiviazione, per esempio, ma non imporre al pm la chiusura di un’indagine sballata.

I faldoni girati ai giornali
Quanto all’equilibrio tra accusa e difesa, be’, resta un’utopia. Basti pensare che il 73 per cento dei penalisti si dice convinto che le procure intercettino e trascrivano perfino le telefonate tra indagato e difensore, rigidamente proibite per legge. Non parliamo poi degli effetti mediatici del nostro “processo all’americana”: alla fine delle indagini preliminari il pm, dotato di ultrapoteri e incontrollato, passa ai giornali faldoni carichi di intercettazioni e interrogatori, e di prove a senso unico che ogni volta vengono assunte quali verità assolute. Il processo “vero”, quello che fa più male all’imputato anche quando è innocente, di solito finisce a quel punto. Alla faccia della parità con il povero avvocato, disarmato e silenziato. E Perry Mason? È ancora lì che osserva e se la ride.

Ma anche i riti alternativi (patteggiamento, rito abbreviato, processo immediato e direttissimo) non sono mai decollati e purtroppo servono a molto poco. Si calcola che chiudano meno del 10 per cento dei 2 milioni di procedimenti aperti ogni anno. Oggi il governo Renzi pensa di reintrodurre il patteggiamento anche in appello, dimenticando che quel sistema dette vita a clamorose incongruenze nell’equità della pena (nel caso di Ruggero Jucker, l’omicida milanese, nel 2005 servì a dimezzargli la condanna da 30 a 16 anni di reclusione). L’idea, per ora ventilata, dimostra una volta di più che il legislatore non agisce in base a criteri logici né basandosi sulla sperimentazione, ma da troppo tempo improvvisa.
Per questo in campo penale si continuano a produrre false riforme, da infilare sulle lance dell’opinione pubblica: pene più severe, prescrizione allungata, nuovi reati. Ogni volta è un inutile bla-bla. In realtà, un governo o un Parlamento che volessero governare davvero e con coraggio la giustizia penale dovrebbero prendere il “nuovo” codice di procedura del 1989 e… fare un ’48. Ma con questi ritmi, con questi governi, e con questi Parlamenti, ci vorrà ancora un secolo.



sabato 25 luglio 2015

Alla ricerca della vera identità di Caterina. Intervista ad Angelo Paratico.

 Angelo Paratico
di  A. Lalomia

Alla fine dello scorso anno, i media di tutto il mondo hanno riportato la notizia che ad Hong Kong uno studioso italiano, Angelo Paratico, era arrivato ad una conclusione clamorosa: la madre di Leonardo da Vinci era una schiava cinese, giunta a Firenze dopo un viaggio periglioso attraverso la Crimea. In Italia l’annuncio è stato accolto per lo più con un misto di sorpresa e di garbato scetticismo: i nostri giornali, dopo aver pagato quello che evidentemente consideravano il tributo per un semplice dovere di cronaca, nel giro di pochi giorni hanno messo da parte il caso.
Diverso invece l’atteggiamento dei media cinesi e di altri paesi, che hanno continuato a riservare a Paratico l’attenzione e l’interesse che merita, soprattutto dopo la pubblicazione del libro che illustra e supporta le anticipazioni di pochi mesi prima. 
L’opera  -Leonardo da Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy-  apparsa a marzo per i tipi della Lascar Publishing, di Hong Kong-  ha incontrato subito un successo di critica e di pubblico, a conferma di quanto fossero realistiche le anticipazioni dell’ A.
Per cercare di comprendere meglio la genesi di questo lavoro e, più in generale, per tentare di fare il punto sulla sua attività di storico e su altre questioni che riguardano i rapporti tra l’Italia e Hong Kong, ho ottenuto dall’A. -che ringrazio pubblicamente- l’intervista che segue.
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lunedì 20 luglio 2015

Per non dimenticare. Premio ai cacciatori di nazisti.


Un video sullo storico riconoscimento attribuito alla coppia tedesca (Serge e Beate Klarsfield) che dalla fine della seconda guerra mondiale ha lottato per consegnare alla giustizia i maggiori criminali nazisti :



domenica 19 luglio 2015

Ebrei e cristiani uniti contro l'ISIS.

«Avevo un debito da saldare». Arthur George Weidenfeld, 94enne Lord britannico, cofondatore nel 1948 della casa editrice Weidenfeld and Nicolson, ha spiegato così al Times la sua decisione di spendere energie e denaro per aiutare i cristiani siriani e iracheni a salvarsi dai tagliagole dello Stato islamico. Il fatto è che Lord Weidenfeld è ebreo, e come ha raccontato in una intervista pubblicata dal quotidiano londinese martedì 14 luglio, deve la vita proprio ai cristiani, che nel 1938, quando lui era ancora «un ragazzino senza un penny», lo aiutarono a fuggire dall’Austria occupata dai nazisti e a raggiungere l’Inghilterra a bordo di un treno.

sabato 18 luglio 2015

Per non dimenticare. Processo a una guardia di Auschwitz.

di A. Lalomia

Oskar Gröning, 94 anni, è stato condannato il 16 luglio di quest'anno da un tribunale tedesco a quattro anni di reclusione per l'attività svolta nel lager di Auschwitz, in qualità di contabile delle Waffen SS, corpo a cui apparteneva.
Si calcola che Gröning abbia una responsabilità diretta nell'esproprio dei beni di almeno 300.000 ebrei. 
L'anziana ex Waffen SS, pur dichiarando di non aver mai ucciso alcun ebreo, ha comunque ammesso la sua responsabilità morale all'interno della macchina di sterminio nazista, sulla quale ha fornito dettagli che dovrebbero mettere fine alle fantasie dei negazionisti.  
Contrariamente ad altri criminali nazisti che sono finiti sotto processo, Gröning ha espresso il suo pentimento per quanto ha fatto, chiedendo perdono pubblicamente.

Non è mai troppo tardi per chiedere scusa.

di A. Lalomia

Dopo settant'anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, la Mitsubishi ha presentato scuse ufficiali per il trattamento riservato ai prigionieri di guerra statunitensi, molti dei quali sono stati ridotti in condizioni di autentica schiavitù.
Ci sono voluti settant'anni, ma alla fine il senso di dignità ha prevalso.


L'ora di Storia: Paolo Mieli sulla Grande Guerra.

di  A. Lalomia

In una lunga e coinvolgente lezione svoltasi al Maxi, in occasione della Mostra "Architettura in uniforme", Paolo Mieli ci introduce allo studio del primo conflitto mondiale.
Uno scontro, come ricorda puntualmente Mieli, che può considerarsi 'la madre di tutte le guerre", malgrado abbia causato un numero di vittime inferiore a quello del periodo 1939-45.  Uno scontro conclusosi con trattati di pace che sono all'origine del secondo conflitto mondiale, tanto che ormai diversi storici tendono ad unificare i due eventi bellici, parlando di una nuova 'Guerra dei Trent'anni'  (1914-1945).

mercoledì 15 luglio 2015

L'Olocausto e le responsabilità degli Alleati.

MILANO - Si poteva intervenire dal cielo evitando alla più grande fabbrica di morte di continuare a uccidere? Perché si è perso così tanto tempo e per quale motivo alla fine hanno prevalso logiche differenti, priorità distinte da quelle che avrebbero portato a salvare un numero così elevato di vite umane? A tutte queste domande prova a rispondere Umberto Gentiloni, professore associato di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma e autore del libro "Bombardare Auschwitz". In questa intervista l'autore ci spiega perchè ed in che modo si poteva intervenire per ostacolare o rallentare il funzionamento della macchina dello sterminio nell’estate del 1944.

martedì 14 luglio 2015

'Buona scuola' o ennesima farsa ?

È passata l’idea che la riforma di Renzi abbia “finalmente” introdotto il merito e la valutazione dei docenti. Il messaggio che sia iniziata una “svolta epocale” è stato recepito dall’opinione pubblica, grazie al fatto che giornali e telegiornali fanno informazione riprendendo i comunicati stampa di fonte governativa confezionati ad arte.
Così si crede che i docenti saranno distinti in “meritevoli”, da premiare, e “non meritevoli”, da castigare, con meno soldi e magari col licenziamento, e che nel Comitato di valutazione genitori e studenti avranno voce in capitolo.
Invece quella del merito è l’ennesima incredibile panzana. Vediamo di chiarire i vari aspetti.
Intanto le risorse stanziate sono da presa in giro. I 200 milioni di euro annui, pomposamente destinati “alla valorizzazione dell’impegno degli insegnanti”, altro non sono che 20mila euro massimi per istituto, come ci dice l’infervorato sottosegretario Faraone. Vale a dire mille euro all’anno per una ventina di insegnanti, che corrispondono all’incirca a un 10-20% del corpo docente di un istituto.
Consideriamo poi che il nuovo super-preside, uscito dal cilindro di questa riforma, avrà la facoltà di nominare i propri collaboratori fiduciari fino al 10% dell’organico e il potere di attribuire il bonus premiale.
Le figure di sistema, che coadiuvano il dirigente nel dare impulso alla qualità della scuola, saranno ricompensate dallo stesso dirigente. Nel vecchio Contratto, quello “illegittimamente” bloccato dal 2010 come sentenziato dalla Consulta, le risorse destinate a compensare il maggiore impegno del personale erano invece oggetto di contrattazione con la Rsu.
A cosa serve allora il Comitato per la valutazione dei docenti, nel quale entrano due genitori, o un genitore e uno studente nella secondaria superiore, giusto per dare una parvenza di partecipazione democratica? Il Comitato si limita ad individuare i criteri. La legge appena approvata delinea tre ambiti di riferimento: a) la qualità dell’insegnamento e del contributo al miglioramento dell’istituzione scolastica, e il successo formativo e scolastico degli studenti; b) i risultati ottenuti in relazione al potenziamento delle competenze degli alunni, all’innovazione didattica e metodologica, alla diffusione di buone pratiche; c) le responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo e didattico e nella formazione del personale.
Definire cosa si intende per qualità dell’insegnamento e come misurare il successo formativo degli alunni è la patata bollente scaricata sulle scuole dell’autonomia “potenziata”. Il Ministero, che nel suo ruolo di indirizzo dovrebbe dare le dritte, se ne lava pilatescamente le mani, aspetta di vedere cosa combinano le singole scuole, e solo dopo un triennio farà un esame della situazione per predisporre le linee guida nazionali.
Ma intanto chi sarà premiato? Nella migliore delle ipotesi, e nella misura e nel modo di cui sopra, sarà  ricompensato chi ricopre qualche ruolo di coordinamento.
Col senno di poi, bisogna riconoscere che era meglio la proposta messa in campo dalla Aprea nel 2008, allora combattuta da tutta la sinistra e poi sbollita nel nulla.
Ricordiamo che la proposta Aprea prevedeva uno stabile sviluppo di carriera e retributivo, con una professione docente articolata in tre livelli e corrispondente riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata. Quanto al reclutamento dei docenti, per gli abilitati iscritti all’albo regionale erano previsti concorsi per titoli banditi dalle reti di scuole (sempre meglio dell’attuale solipsimo dirigenziale). L’associazionismo professionale veniva riconosciuto e valorizzato.
Con la sua riforma, Renzi è riuscito a fare molto, molto peggio. Il docente avrà il ruolo della formica operaia o dell’ape operaia, lavorando freneticamente in uno spersonalizzato ingranaggio gerarchico. Dovrà darsi da fare per garantire nell’apparenza dei numeri il successo formativo e scolastico degli studenti (per esempio, tutti promossi), e uniformarsi alla linea voluta dal “leader educativo” che sta a capo dell’istituto (per esempio, con l’addestramento finalizzato al miglior risultato Invalsi). Vivrà così felice, contento e valorizzato per 42 anni di vita professionale, con lo stesso stipendio fra i più bassi d’Europa, e qualche contentino extra se rientra nel cerchio magico.

Anna Maria Bellesia, Buona Scuola: l'incredibile panzana della valorizzazione del merito, "La tecnica della scuola",  14-07-15.

Dopo la crisi della Grecia. Quale futuro per l'Unione Europea ?

Questa intervista a Rocco Buttiglione, tratta dal numero di Tempi in edicola, fa parte della serie “Ragione Verità Amicizia”, il manifesto dei nostri vent’anni e della Fondazione Tempi (una proposta che si può sottoscrivere in questa pagina).
Nel 2004 una commissione del Parlamento europeo tanto brigò che gli fu negata la carica di commissario per la giustizia, la libertà e la sicurezza, discriminandolo sulla base delle sue convinzioni religiose e morali, ma Rocco Buttiglione non ha mai cessato di essere un fervente europeista. Tutta la sua carriera politica si è svolta in ambito italiano, dove è stato due volte ministro, deputato in cinque legislature (compresa quella attuale) e senatore in una, tranne un passaggio di due anni, fra il 1999 e il 2001, nel Parlamento europeo. Sulla diagnosi delle cause della crisi a più fronti che attanaglia l’Europa e sulle soluzioni ha idee chiare e distinte.

Per decenni l’Unione Europea ha rappresentato un sogno realizzabile di democrazia, pace e prosperità. Oggi la prosperità non è più assicurata, come si vede nel caso della Grecia e delle altre economie dell’Europa meridionale, la pace è in pericolo, come si vede con la guerra in Ucraina, e la democrazia rischia di diventare irrilevante nel momento in cui tutte le politiche più importanti vengono decise a Bruxelles. Come siamo arrivati a questo punto e qual è il percorso per uscirne?

Dopo la grande stagione dei padri fondatori (De Gasperi, Adenauer e Schumann), negli anni Ottanta, col pontificato di Giovanni Paolo II, noi abbiamo avuto una straordinaria spinta a riscoprire le ragioni dell’unità dell’Europa, che è un’unità prima di tutto culturale, e solo dopo economica. Queste ragioni sono state presentate nella forma di una nuova evangelizzazione, che ha riattualizzato l’incontro con la fede cristiana che ha costituito i popoli europei come tali e le relazioni di fraternità che li hanno fatti diventare una famiglia di popoli. Questa riscoperta della fede cristiana ha prodotto una grande testimonianza di fronte al comunismo, che ne ha causato il crollo. La più grande potenza poliziesca del mondo è crollata di fronte a una testimonianza disarmata.

Quando è accaduto questo, in Europa una classe politica responsabile, incarnata da Helmut Kohl, ha saputo attingere a quella energia morale per realizzare un grande progetto politico, che doveva legare indissolubilmente la Germania all’Occidente. Col crollo dell’Unione Sovietica era inevitabile che la Germania tornasse a muoversi verso est, col rischio di spaccare l’Europa con la nascita di un nuovo impero tedesco nel suo centro. Invece Kohl ha optato per una Germania europea, anziché per un’Europa tedesca, e ha voluto l’euro come strumento per legare saldamente la Germania all’Europa occidentale. L’allargamento dell’Unione a est non rappresentava un’espansione, ma una riunificazione dell’Europa: erano i popoli dell’Est che andavano verso l’Europa, e non la Germania che andava verso est. È stato un grande successo. Ricordate l’Europa nel 1990: i popoli dell’Est avevano perso le sicurezze che, pur nell’indigenza, il comunismo garantiva, e un nuovo sistema economico ancora non c’era. Il pericolo che l’Europa centro-orientale si spaccasse in due, con alcuni paesi che andavano con Berlino e altri che sarebbero tornati sotto l’ala di Mosca, carichi di risentimento, non appena la Russia fosse tornata ad essere una potenza di livello mondiale, era fortissimo. Invece sono riusciti a costruire, col nostro aiuto, sistemi funzionanti e ad avviare uno straordinario sviluppo economico che ha dato speranza a milioni di persone.
Questa serie di successi poi si è interrotta e sono iniziate le sconfitte. Fra il 1998 e il 2005 ne abbiamo incassate una serie. Prima si è deciso di tenere i valori cristiani fuori dalla costituzione europea, poi i popoli hanno rifiutato la costituzione. Una logica unisce i due fatti: se non ci unisce la fede cristiana, cos’è che tiene insieme l’Europa? Perché mai dovrei sentirmi fratello, tanto per dire, di un bulgaro? Venuta meno la spinta ideale, è venuta meno anche la spinta politica. E così abbiamo avuto quindici anni contrassegnati dagli egoismi nazionali, durante i quali la cifra dell’Europa è stata non la comune tradizione cristiana, ma la fine di tutti i valori, e il massimo che si è riusciti a esprimere è stata l’apertura ai diritti Lgbt. L’Europa è come un magnifico castello con dentro opere d’arte, mobili e tappezzerie stupende, ma al quale manca il tetto. Finché c’è il sole può funzionare, ma quando piove va tutto in rovina. La pioggia è arrivata, con la crisi finanziaria ed economica. Davanti alla crisi L’Europa è apparsa indifesa, priva di spirito di solidarietà e di voglia di reagire.

La politica dell’Unione Europea è stata propagandata in questi anni come “la promozione di una sempre maggiore integrazione ed unità europea”, ma questa integrazione non la vediamo quando i problemi riguardano i paesi più deboli, come nel caso dell’ondata migratoria che investe Italia e Grecia o del tema della mutualizzazione del debito. Non sarebbe allora meglio rinunciare alla retorica e tornare ai più modesti obiettivi del Trattato di Roma del 1957 e di quello per il Mercato Unico del 1986: aumento degli scambi economici nel continente e collaborazione fra stati sovrani?

Sarebbe la morte. Col ritorno ai blocchi commerciali chiusi e alle rivalità intracontinentali, tutte le tensioni del mondo si scaricherebbero sull’Europa, come nel secolo XVI tutte le tensioni d’Europa si scaricarono sull’Italia che non aveva risolto la questione della sua integrazione come stato nazionale. L’abbiamo pagata con tre secoli di servitù e povertà. No, bisogna andare avanti e riprendere il programma di sempre maggiore integrazione. In parte lo stiamo riprendendo, perché dal punto di vista tecnico tutte le misure prese contro la crisi finanziaria sono misure di maggiore integrazione. Però bisogna dargli anche una linea politica. Bisogna andare avanti non soltanto perché non c’è alternativa, ma perché ritroviamo le ragioni. Occorre tornare al grande progetto che è appartenuto culturalmente a Giovanni Paolo II e politicamente a Helmut Kohl, e portarlo a compimento.


Non sarebbe più realistica un’Europa a geometria variabile? Possiamo immaginare una dis-integrazione controllata che produca un’Europa a più velocità?

L’Europa è già a più velocità. Le nazioni dell’euro hanno evidentemente in comune più interessi che non le altre. Vediamo di costruire un nocciolo forte dell’Europa formato dai paesi dell’euro, che faccia passi veloci verso l’unità politica. Abbiamo bisogno di una politica economica comune. Puoi mutualizzare il debito solo se poni un freno efficace al diritto di spendere senza limiti attraverso un’autorità comune di bilancio, e se hai una politica di investimenti comune, che porti l’Europa a primeggiare nei settori del digitale, dei nuovi materiali, delle nuove tecnologie, cioè quelli dove abbiamo un vantaggio competitivo sui paesi emergenti. Occorre tornare all’agenda di Lisbona del 2000, che è rimasta inattuata perché è mancata la sponda politica.


Il dramma greco di questi giorni potrebbe sfociare in una crisi irreversibile dell’euro. Quale sarebbe allora la soluzione migliore? L’uscita verso l’alto della Germania e dei suoi soci, con la creazione di due valute? Oppure l’uscita verso il basso dei paesi in crisi, che potrebbero allora far ripartire la crescita con le svalutazioni competitive della loro valuta nazionale?

L’inflazione è una brutta bestia che è facile tirare fuori dalla gabbia, ma poi è difficile farcela rientrare. I paesi del Sud che escono volontariamente dall’euro non ce li vedo proprio, e comunque l’Italia dovrebbe capire che la sua è un’economia del Nord. La soluzione è più sovranità europea, un governo comune legittimato dal voto popolare, un ministro delle Finanze europeo che toglie agli stati il diritto di indebitarsi a volontà. A quel punto una ragionevole mutualizzazione del debito diventa possibile. Non solo la Germania, ma nemmeno l’Italia mutualizzerebbe un debito che non controlla.


Ma si può immaginare una volontà da parte della Germania e della Francia, i due paesi più importanti, di andare in questa direzione?

Nessuno gliel’ha proposto seriamente. La Germania è un grande paese, dove ci sono quelli di “Alternativa per la Germania” che vorrebbero uscire dall’euro e fare da soli, e quelli che sono sinceramente europeisti come lo era Helmut Kohl. La timida svolta di Angela Merkel a cui stiamo assistendo è un effetto della linea Kohl-Juncker-Draghi. Anche la Germania può essere messa in minoranza, ma occorre avere argomenti, molte alleanze, e magari nell’alleanza deve esserci anche un pezzo di Germania, minoritario ma importante. Il problema è creare un’opinione europea che ragiona in termini di bene comune dell’Europa, come c’era al tempo di Giovanni Paolo II e di Helmut Kohl. Dobbiamo riuscire a ricrearla, perché non c’è altra via di salvezza. La crisi dell’Europa comincia quando, dopo la morte di papa Wojtyla, si affievolisce l’idea della nuova evangelizzazione: era quella l’anima dell’Europa.


La crisi dell’Ucraina ha posto l’Europa davanti a due problemi che fino all’anno scorso aveva fatto finta che non esistessero. Quello del rapporto con una Russia che non ha nessuna intenzione di farsi fagocitare dall’Occidente, e quello dei confini finali dell’Unione Europea, che fino all’anno scorso ragionava come se in linea di principio potesse estendersi al mondo intero. Ora non più. Cosa bisogna capire di questi due problemi per poterli affrontare?

Io credo che Putin sarebbe lieto di essere fagocitato dall’Europa, ma la verità è che noi lo abbiamo cacciato. Giovanni Paolo II aveva chiarissimo che l’Europa respira con due polmoni, quello occidentale e quello orientale. Quando governava Kohl fu condotta una politica volta a favorire la democratizzazione della Russia e la sua transizione verso un’economia moderna ed efficiente. Si ipotizzò la creazione di Comunità di stati indipendenti (Csi) dell’ex Unione Sovietica che poi si sarebbe federata con l’Unione Europea sotto il tetto comune del Consiglio d’Europa. Oggi è difficile tornare a quell’idea, perché un paese come l’Ucraina avrebbe grandi difficoltà a formare una Csi con la Russia. Ai russi noi dobbiamo dire “giù le mani dall’Ucraina”, ma anche “in Europa c’è posto per voi”. Noi sappiamo che la Russia è europea e non la vogliamo scacciare dall’Europa, ma con una politica meschina, orientata solo dagli interessi del gas e del petrolio, abbiamo generato nel popolo russo l’idea che non li vogliamo. Poi dobbiamo affrontare la questione dell’Ucraina: Putin deve rinunciare alle sue mire espansionistiche, ma Poroshenko deve capire la questione delle minoranze russofone. Non puoi conservare l’unità dell’Ucraina senza una costituzione ampiamente federale, che riconosca ai russofoni tutti i loro diritti e li tranquillizzi sul fatto che non esiste una volontà di opprimerli. Dobbiamo parlare con Poroshenko, perché anche la dirigenza ucraina ha fatto molti errori.


E i confini dell’Europa? L’Europa ha confini suoi o deve aprirsi all’infinito a tutti coloro che accettano i suoi princìpi e i suoi valori?

L’Europa deve riunire tutti i paesi che condividono i suoi princìpi e valori, ma questi princìpi e valori non sono una dichiarazione astratta, bensì coincidono con una storia. Esistono paesi che condividono una storia, e questa storia è la storia del cristianesimo in Europa: è questo che definisce storicamente l’Europa. I valori diventano concreti attraverso facce, uomini, storie. Non è la stessa cosa imparare il valore del femminile attraverso Dante o attraverso Shakespeare, immaginiamoci poi se ci spostiamo a migliaia di chilometri di distanza. Il patriottismo non è legato alle costituzioni, è legato alla storia, alla cultura, alla lingua, alla fede. Esiste una famiglia di popoli che sono i popoli europei. Tutti i popoli europei hanno il diritto di entrare nell’Unione Europea, i popoli non europei no. Quando saremo maturi abbastanza, inventeremo forme di collaborazione e andremo verso quella governance globale in cui l’Europa reggerà i destini del mondo insieme con gli Stati Uniti, la Cina, l’India, eccetera. Dobbiamo realizzare la nostra integrazione continentale e poi dialogare con gli altri.




Paolo Savona sulla crisi greca, sulla Germania e sull'Euro.

L'economista non usa mezzi termini: «L'Italia prepari un piano B per l’uscita dall’Euro. Se dovessimo essere colti impreparati sarebbe veramente un dramma. La Germania si è autoproclamata come “paese d’ordine dell’Europa” e ha usato la Grecia per riaffermare questo ruolo»
Non usa mezzi termini il noto economista Paolo Savona, già ministro dell’Industria nel governo Ciampi e autore per Rubbettino del discusso pamphlet “J’accuse. Il dramma italiano di un’ennesima occasione perduta” (pp. 84, in questi giorni in libreria): «La Germania ha dichiarato che ha perso la fiducia nella Grecia di Tsipras. Questa dichiarazione fa perdere definitivamente fiducia nella Germania di Schäuble o, più esattamente, conferma che la Germania non è partner affidabile nella costruzione dell’Europa unita».
Secondo Savona, proprio Schäuble (e non la Merkel), è in ultima istanza responsabile della vicenda. «La mia insistenza nel non attribuire alla Merkel la responsabilità della vicenda è dovuta alla conoscenza delle vicende dei Cristiano Democratici tedeschi che vide Schäuble, delfino del prestigioso Cancelliere Khol con il quale restò coinvolto negli scandali finanziari del Partito, sorpassato dalla Merkel. Egli è stato protagonista della riunificazione tedesca e, nel corso di questa storica operazione, Schäuble fu oggetto di un vile attentato che lo privò dell’uso delle gambe costringendolo su una carrozzella. Alla sua ambizione personale ha perciò aggiunto il diritto a un compenso, quello di essere nominato Cancelliere; la crisi greca è l’occasione che gli è stata offerta di cavalcare il 70% dei tedeschi contrari ad assistere la Grecia e favorevoli a gestire l’euro in modo diverso dal marco tedesco. Ho già avvertito che questo è uno dei cardini del Piano Funk, ministro dell’economia nazista, che suscitò le preoccupazioni dell’Ambasciatore italiano a Berlino che avvertì Mussolini dei rischi insiti nel progetto. Ma il punto principale del Piano è l’auto proclamazione della Germania come “paese d’ordine dell’Europa”. La crisi greca – e soprattutto il risvolto del referendum che ha rivelato l’allergia di un popolo alla democrazia “degli altri” – è stata un’ottima occasione per confermare questo punto. Gli altri sono avvertiti e tra questi c’è ovviamente l’Italia di cui è noto che i tedeschi non si fidano per le passate esperienze. I conti perciò vanno pareggiati e spetta alla parte sana dei tedeschi dirci che così non è. Io ho perso fiducia in loro».

Il Piano B

«Se l’Italia non l’ha già fatto, è giunto il momento d’avere pronto un Piano B – di fine dell’euro o di uscita dallo stesso – che dal 12 maggio 2011 ho insistentemente richiesto di approntare. Gli accordi costruiti male o firmati da paesi con intenti egemoni non hanno lunga vita. Se dovessimo essere colti impreparati all’evento, sarebbe veramente un dramma. Il sottotitolo del mio pamphlet J’accuse (Rubbettino Editore), in libreria da pochi giorni, è Il dramma italiano di un’ennesima occasione perduta. Sembrerebbe una protesta generale, ma il dramma ha un contenuto specifico: non aver approfittato della bonanza monetaria e dei tassi quasi nulli per sistemare il nostro debito sulla base delle proposte dettagliate avanzate con i colleghi Michele Fratianni e Antonio Rinaldi. Uno dei punti principali di questa proposta è la confluenza del patrimonio dello Stato in un Fondo simile a quello richiesto dall’Eurogruppo alla Grecia, gestito da persona autorevole (ci siamo spinti fino a indicare Enrico Bondi), nel quale far confluire il patrimonio dello Stato senza alienarlo, ponendolo a garanzia del rimborso di un debito pubblico con scadenze più lunghe delle attuali (abbiamo indicato 7 anni, ma possono essere di più), offrendo un rendimento pari all’inflazione più 0,20% dell’eventuale tasso di crescita del PIL (visto che la Commissione e Renzi dicono che la crisi è superata e la ripresa è in atto). Stiamo invece svendendo il patrimonio pubblico per finanziare spese correnti dello Stato centrale e periferico scavando una fossa ulteriore per far cadere il nostro debito pubblico. Questa è la vera occasione perduta. L’alto debito pubblico italiano è la chiave di ricatto dell’Europa per indurci a “fare le riforme” e permettere che al potere in Italia restino coloro che hanno propiziato e perpetuato questa condizione di sudditanza internazionale per stare al Governo».

Lorenzo Maria Alvaro, Paolo Savona: "La Germania è il vero Paese inaffidabile", "Tempi", 13-07-15.

sabato 11 luglio 2015

Chi sono i nemici della Grecia.

Finora ho evitato di parlare della Grecia perché mi sembrava che tutto fosse già stato detto. Ma gli eventi della settimana scorsa hanno confermato quello che sospettavo fin dall’inizio, ossia che la troika, in linea con la quasi totalità dei governi europei, non è mai stata interessata a trovare una soluzione che permettesse alla Grecia di avviarsi sulla strada della sostenibilità fiscale e di rimettere in moto la propria economia. Era solo interessata ad infliggere al governo “radicale” greco una sconfitta totale ed assoluta.
Di fatto, non c’è stato nessun negoziato. A gennaio, le due parti partivano da posizioni molto lontane, come è normale che sia quando si confrontano due visioni dell’economia così diverse. Syriza chiedeva sostanzialmente due cose: la fine dell’austerità, che ha avuto sul paese un impatto molto più duro del previsto, senza offrire in cambio nessuno dei benefici annunciati, neanche sul piano della sostenibilità fiscale; e l’alleggerimento del debito. La troika voleva indietro i suoi soldi, fino all’ultimo centesimo (ad eccezione dell’FMI, l’unica delle tre istituzioni a vedere con favore una ristrutturazione del debito), e la continuazione delle politiche imposte alla Grecia a partire dal 2010 («prima o poi funzioneranno», no?).
Ma c’era un terreno comune che, se si fosse trattato di un vero negoziato, avrebbe permesso alle due parti di giungere ad un compromesso nel giro di poche settimane. Entrambe le parti concordavano sul fatto che l’economia greca presenta molte problematiche e necessita di riforme radicali. Le proposte di Syriza ruotavano attorno alla riorganizzazione e modernizzazione dello Stato, e alla creazione di un sistema efficiente di riscossione delle imposte; le richieste della troika, invece, erano più “classiche” e per certi versi ideologiche: tagli alle pensioni, riforme (liberalizzanti) del mercato del lavoro, e così via. Di fatto, una continuazione del memorandum.
Quando si parla di riforme, però, è cruciale seguire la sequenza appropriata: implementare riforme strutturali in tempo di crisi, quando l’economia non è in grado di assorbire i costi a breve termine di tali riforme, può avere effetti molto destabilizzanti e mettere a repentaglio i potenziali benefici a lungo termine. Gli effetti restrittivi di breve termine tendono ad auto-rinforzarsi e possono rivelarsi del tutto controproducenti sul piano dell’aumento della produttività e del miglioramento dei conti pubblici. Lo stato pietoso dell’economia greca ne è la dimostrazione più evidente: le riforme della troika ed i tagli alla spesa pubblica erano destinati a fallire sin dal principio.
Cosa è successo da gennaio ad oggi? A differenza di quello si sente spesso direi negli ambienti europei, gran parte delle concessioni sono arrivate dal governo greco. Sull’età pensionabile, sull’avanzo primario (sì, alla fine il governo ha rinunciato a fermare l’austerità e si è accontentato di ammorbidirla), sull’IVA e sulle privatizzazioni siamo oggi molto – ma molto – più vicini alle posizioni della troika che a quelle da cui era partito il governo greco.
Il chiodo su cui ha continuato a battere il governo è che alcune riforme, come il miglioramento del sistema di riscossione delle imposte, richiedono maggiori risorse – e dunque maggiore spesa pubblica. Le riforme, per funzionare, devono essere “disaccoppiate” dalle misure di austerità. Syriza, come il governo di Papandreou nel 2010, chiedeva tempo e, possibilmente, un po’ di soldi. Non ha avuto né l’uno né l’altro.
C’erano solo due linee rosse che Tsipras non voleva e non poteva scavalcare: rinunciare ad aumentare le tasse sui ricchi (e in particolare sulle grandi imprese) ed accettare ulteriori tagli alle pensioni. Se avesse oltrepassato quelle linee, sarebbe diventato indistinguibile da Samaras e dai governi che hanno condotto la Grecia al disastro in cui si trova oggi.
Quello che gli eventi dell’ultima settimana hanno reso evidente è che questo è sempre stato l’obiettivo reale dei creditori. Quella che si giocava era – ed è – una partita squisitamente politica, in cui le considerazioni di carattere economico c’entrano ben poco. Molto semplicemente, i creditori non possono permettersi che si materializzi, in Grecia e nel resto dell’eurozona, un’alternativa alle politiche seguite finora.
Deve essere chiaro a tutti che l’austerità e le riforme strutturali sono l’unica strada possibile. Altrimenti i cittadini potrebbero cominciare a porsi delle domande; un rischio che le élite non possono permettersi di correre a pochi mesi dalle elezioni spagnole. La sconfitta di Syriza deve essere esemplare, per dimostrare a tutti che in Europa non c’è vita al di fuori del consenso di Berlino (e di Bruxelles).
La “trattativa” altro non era che uno specchietto per le allodole. Chi, come noi, ha speso fiumi di parole per analizzare i pro e i contro della varie opzioni sul tavolo, ha sprecato il proprio tempo. Ecco perché a questo punto a Tsipras, come a Papandreou prima di lui, non rimane che chiedere alla popolazione greca di esprimersi.
E se la Grecia deve cadere perché la verità venga a galla, così sia. Se dobbiamo trasformare l’eurozona in un club in cui i paesi possono entrare ed uscire a loro piacimento, così sia. Una cosa è certa: l’Unione europea sta attraversando uno dei momenti più bui della sua esistenza.
Francesco Saraceno, La partita della Troika contro la Grecia, "Keynes Blog", 8-07-15.

giovedì 9 luglio 2015

Vite parallele: Putin e Poroshenko.

Putin e Poroshenko hanno un’infanzia molto diversa, per quanto fosse possibile all’interno del sistema sovietico. Il primo, nato a San Pietroburgo, allora Leningrado, e originario di una famiglia senza fasti, segue attentamente le regole riuscendo a rappresentare quel soggetto di estrazione povera capace, attraverso l’ubbidienza al sistema, i massimi voti, l’adesione al partito e l’esperienza militare e nei servizi di sicurezza, di scalare i livelli sociali raggiungendo lo scranno più alto dello Stato ed incarnando il sogno russo. Il secondo, invece, nasce in un contesto tranquillo vicino al Mar Nero, nella regione di Odessa, e vive abbastanza agiatamente grazie al padre, direttore di un’azienda locale. Poroshenko, a differenza di Putin, pur brillando nello sport, era poco ligio al dovere e alle regole, tanto da non ricevere un voto brillante al termine degli studi e da arrivare alle mani con alcuni cadetti. Ma qui finiscono le differenze, poiché i due hanno certamente più somiglianze che divergenze, almeno nei primi mesi del loro mandato.
Economia, uno scoglio per entrambi
Putin viene nominato primo ministro nell’agosto del 1999, esattamente un anno dopo la crisi finanziaria russa, che causò la svalutazione del rublo, il default ed in generale una delle più grosse crisi economiche che la Russia ricordi. Naturale quindi che uno dei suoi primi compiti fosse di comprendere le dinamiche dell’economia e continuare nella stabilizzazione del sistema. In poco tempo Putin riuscì a far dimenticare la crisi del 1998 soprattutto attraverso lo sfruttamento e l’esportazione degli idrocarburi, dimostrandosi concreto e pratico.
Poroshenko si trova esattamente nella stessa situazione, dovendo far risorgere economicamente una nazione che è in grado di sopravvivere grazie agli aiuti europei e del Fondo Monetario Internazionale. L’Ucraina non ha sufficienti risorse per farcela agevolmente come la Russia nel 1998, senza contare che la zona maggiormente produttiva del paese è rappresentata dalle regioni orientali sotto controllo separatista. Il Presidente ucraino, tuttavia, ha saputo destreggiarsi economicamente negli anni della Perestrojka e Glasnost, diventando uno degli uomini più ricchi di Ucraina… con un’azienda dolciaria, e non col traffico di gas: sembra quindi capace di poter gestire la situazione.
Ad ognuno la propria guerra
Buona parte dell’iniziale gloria di Putin è stata la sua dinamicità come primo ministro di fresca nomina nella seconda guerra cecena. Sconosciuto ai più, Putin, è riuscito a dimostrare di saper tenere testa a generali e ministri e gestire in prima persona la questione cecena. In poco meno di un anno la Cecenia è tornata (ufficialmente) sotto controllo russo ed il pugno duro di Putin, a dispetto delle accuse di crimini di guerra e violazione dei diritti umani, ha certamente pagato. Non un caso che il primo viaggio da Presidente facenti funzioni sia stato proprio a Grozny.
Anche Poroshenko, dopo meno di un mese dal suo insediamento, si è recato in visita – la prima del suo mandato – in Donbass: Stato ex sovietico che vai, separatisti che trovi. Dopo quasi tre mesi dal suo insediamento le forze militari ucraine, del tutto impreparate ad una vera guerra, erano riuscite a riprendere il controllo di buona parte del Donbass, e sarebbero state in grado di sconfiggere i separatisti se non fosse arrivato l’aiutino da casa…ops, da Mosca. La guerra, inoltre, concede al Presidente maggior potere di quanto ne avrebbe in situazione di tranquillità: ne ha approfittato Putin in Russia, e sembra far lo stesso Poroshenko in Ucraina, anche in ottica interna.
Presidente vs oligarchi
La Russia nella quale Putin ha preso il potere era in mano a gruppi di potere di ogni genere. C’era l’oligarca che era riuscito in pochi anni a fare fortuna utilizzando i beni statali, c’era il capo mafia locale che gestiva il traffico di droga, prostituzione e gioco d’azzardo, c’erano i politici regionali che non rendevano conto dell’operato a Mosca: una situazione in cui il cittadino medio era preso in giro e vessato dall’intero sistema. Putin, in poco tempo, ha proclamato la supremazia della politica, incarnata in se stesso, rispetto ad ogni altra forma di potere e chiunque si è interposto rispetto alla sua strategia è stato – fisicamente o giudiziariamente – eliminato, vedi Berezovsky, Khodorkhovsky ecc. Sia chiaro, non che l’oligarchia sia sparita, anzi, ma le bande che spadroneggiavano nelle varie cittadine russe sono state limitate, e gli oligarchi hanno capito che non sono superiori rispetto al detentore del potere politico.
In Ucraina, per certi versi, sembra di stare nella Russia della fine degli anni ’90: gli oligarchi hanno fino ad oggi dominato la scena politica, imponendo, di volta in volta, leader politici controllati come burattini, ultimo della serie l’ex Presidente Yanukovich. Poroshenko è stato eletto proprio per il suo carisma, la sua capacità di destreggiarsi in politica come negli affari, ma soprattutto perché appare la persona capace di sottomettere gli oligarchi rispetto alla legge (e al potere politico). Non è un caso che alcuni oligarchi molto forti nell’est del Paese, tra i quali Igor Kolomoisky e Sergey Taruta, precedentemente nominati governatori delle regioni di Dnipropetrovsk e Donetsk, siano stati licenziati dopo pochi mesi dal Presidente, a riprova che quest’ultimo voglia sottoporre l’élite economica al suo potere.
Corruzione e riforme, un binomio esplosivo
Poroshenko è un oligarca, e come tale non ha certo intenzione di dimenticarsi degli affari, ma è acuto politicamente e non ha intenzione di fare come il suo predecessore che non ha capito fin quanto poteva spingersi. Per mantenersi in sella, ed avere mano libera, ha bisogno di soldi e supporto da UE e FMI. Una delle condizioni poste da queste ultime sta proprio nelle riforme e nella lotta alla corruzione. Ed ecco che l’asso nella manica è Mikhail Saakashvili, ex Presidente georgiano, attualmente indagato in patria, che ha saputo, al di là della criticabile politica estera culminata con la guerra contro la Russia del 2008, abbattere la corruzione e riformare completamente il proprio Paese. Dopo esser stato consigliere presidenziale, ora ha assunto l’incarico di Governatore di Odessa, regione natale di Poroshenko, e area tradizionalmente vicina, per mentalità, alla Russia. Potrebbe essere semplicemente la mossa creativa ed altamente rischiosa di un Presidente che non sa cosa fare e a chi affidare una regione che rappresenta una pedina fondamentale nello scacchiere geopolitico, localizzandosi tra Crimea, Donbass e Transnistria. Ma potrebbe anche essere il banco di prova prima di ricevere l’incarico di primo ministro al posto di Arseniy Yatseniuk, uscito vincitore dalle ultime elezioni politiche, ma troppo forte per non mettere in ombra il Presidente. Anche Putin, negli anni, ha compreso che un primo ministro fedele è fondamentale: il Presidente può assumersi i meriti, mentre il primo ministro può svolgere il lavoro “sporco”, accentrando su di lui le critiche. Putin ha trovato in Dmitriy Medvedev il proprio fidato primo ministro e Poroshenko potrebbe essere alla ricerca di un personaggio simile, con il quale giocare a poliziotto buono-poliziotto cattivo.
Per questi, così come altri motivi, Poroshenko sta seguendo il suo “nemico”, cercando di copiarlo. Il rischio, a questo punto, è che i due, al di fuori della mediatica inimicizia e delle posizioni distanti, vadano a braccetto più di quanto vogliano far vedere, di fatto riconoscendosi reciprocamente notevoli doti personali e soprattutto vedendo, tra i tanti lati negativi dell’instabilità in Donbass, anche alcuni lati positivi: la possibilità, con la scusa della guerra, di tacciare di antipatriottismo i propri oppositori interni, di agire oltre i poteri costituzionalmente concessi, di utilizzare slogan populisti e propagandistici, di ottenere forte consenso presentandosi come il probabile salvatore della Patria. Che, almeno sotto questo aspetto, l’instabilità in Donbass, alla fine, vada bene ad entrambi?
Pietro Rizzi, Le vite parallele di Putin e Poroshenko, "East Journal", 7-07-15.

mercoledì 8 luglio 2015

Grecia maestra di democrazia ?

A giudicare da questo video, sembra proprio di no.
C'è da augurarsi che si sia trattato di una specie di farsa posta in essere dal Presidente per stigmatizzare le assenze dei deputati.
Altrimenti ... .