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sabato 21 settembre 2013

Luci e ombre del Risorgimento. Fenestrelle. Intervista ad Alessandro Barbero.




di  A. Lalomia

Sono passati poco più di due anni dalle celebrazioni del 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia e il dibattito su quel periodo, anziché placarsi, è diventato, se possibile, ancora più virulento.
Per la verità, le polemiche sono nate ben prima della ricorrenza  1 , ma hanno raggiunto negli ultimi mesi toni da vera e propria crociata, tra quanti, pur tra i necessari distinguo, sono pro e quanti, invece, considerano quel periodo come una delle pagine più buie della storia d’Italia.  Basti vedere le reazioni che hanno innescato e continuano ad innescare, su alcuni siti, articoli e saggi relativi  al Regno delle Due Sicilie e a quel periodo storico.   2  
Per non parlare della valanga di commenti alla presentazione su  “Storia in rete”, del libro di Juri Bossuto e Luca Costanzo,  (ovviamente piemontesi, vedremo oltre il perché di questa precisazione), Le catene dei Savoia, con l’introduzione di Alessandro Barbero.         
Ma a provocare una vera e propria sollevazione di scudi a favore del Regno delle Due Sicilie è stato senza dubbio il volume di Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, visto il prestigio dello storico e la sua autorevolezza a livello internazionale. 
Le reazioni sono scattate ancor prima della comparsa del volume nelle librerie.  La storia del Nord che ha liberato il Sud per assicurargli libertà e prosperità, sottraendolo all’oppressione, all’ignoranza, alla povertà, al divieto di stampa senza censura preventiva, di espressione, di manifestazione, di riunione, sarebbe, secondo i revisionisti, soltanto una favola, una menzogna costruita ad arte dai vincitori, perché il Regno delle Due Sicilie era più ricco, meglio amministrato e più liberale del Piemonte  (e a questo punto non si capisce allora per quale motivo decine di migliaia di intellettuali, professionisti, nobili, borghesi e gente comune abbiano deciso di abbandonare il Regno delle Due Sicilie e di andare in esilio in Piemonte, rinunciando alle ‘libertà’ e al benessere che i Borbone assicuravano loro).
La ‘leggenda nera’ di Fenestrelle,  a ben vedere, è una di quella vicende che fanno capire quanto poco sopiti siano, ancora oggi, gli animi di coloro i quali ritengono che l’Unità sia stata una guerra coloniale del Nord  -e nello specifico di Casa Savoia-  contro il Sud, presentato appunto come il più ricco, il più moderno, il più forte militarmente, il più liberale tra tutti gli stati italiani pre-unitari.  Dopo l’unificazione, sostengono i revisionisti, questo stesso Sud diventa terra conquistata, con tutti gli orrori e le nefandezze che una guerra coloniale comporta.  E ai vinti, continuano, non rimaneva altra scelta che diventare briganti o emigrare.
Una vecchia e brutta storia, lamentano gli anti-unitari, che per molto tempo si è cercato di 
nascondere e di cancellare dalla memoria collettiva (e vedremo oltre che consistenza abbiano simili affermazioni).   Fenestrelle si è trasformata così, in alcuni ambienti nostalgici, nell’icona del dramma di un intero popolo, schiacciato dalla violenza e dall’avidità del Piemonte.  L’ Auschwitz del Sud, insomma.  
Ma da chi sarebbe stato ordito  -sembra lecito chiedersi-  questo progetto di genocidio e comunque di sterminio sistematico ?  Da Vittorio Emanuele II ?  Ma se molti storici sono concordi nel ritenere piuttosto modeste, per non dire insignificanti, le sue capacità ?  Per non parlare della tesi secondo cui egli non era neanche figlio di Carlo Alberto  3  . 
Oppure sarebbe stato Cavour ?  E per quale motivo ?  Da buon liberista, il conte era interessato a creare un florido mercato interno, che evidentemente ha bisogno di manodopera e di consumatori.  Ma se si eliminano intere popolazioni, chi lavora nei campi e in fabbrica ? chi compra i prodotti del Nord ?  È curioso, poi, che gli anti-unitari non citino mai i massacri contro le stesse popolazioni napoletane  -non parliamo delle stragi che commettevano in Sicilia-  ad opera di quel medesimo esercito borbonico di cui adesso tessono le lodi e ricordano i martiri.   4   

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In realtà, le tesi dei revisionisti, anche se esposte in buona fede e talvolta con un impeto che rivela un forte coinvolgimento emotivo, presentano alcuni limiti:  
a.  non costituiscono una novità, perché le polemiche sul  Risorgimento, sull’intero processo unitario  (“guerra  di annessione da parte dei Savoia”), sugli episodi ignobili che sono stati perpetrati a danno delle genti del Sud nella lotta contro il brigantaggio, si conoscevano da decenni (addirittura dall’indomani dell’Unità), ed esiste una bibliografia che lo conferma, ma che conferma anche che non si è trattato certo di un piano studiato a tavolino per liquidare un’intera razza.  Gli psicopatici che hanno ordinato l’uccisione di decine di civili innocenti e inermi, o la distruzione di interi paesi, sono sempre esistiti e d’altra parte non costituiscono una prerogativa italiana  (oltre che delle cannonate di Bava Beccaris, vogliamo parlare anche dell’eccidio di Amritsar ?).
b.  Spesso non sono sufficientemente documentate  (le note servono proprio a questo e a volte rappresentano le parti più importanti di un’opera, soprattutto storica);
c.   sono evidenti delle contraddizioni;
d.  sembrano elaborate soprattutto per i napoletani, perché pongono questa città al centro di tutto, trascurando quasi le profonde differenze che esistevano ed esistono ancora oggi tra diverse aree del Meridione e della stessa Campania;
e. dimenticano che il Sud, anche se durante la repressione del brigantaggio è stato trattato in modo tendenzialmente ostile (ma con eccezioni non trascurabili), comunque, per limitarci all’Italia repubblicana, ha ricevuto massicci aiuti dallo Stato, a partire dalla Cassa del Mezzogiorno.  Inoltre, parecchi meridionali hanno fatto parte di diversi governi e ben quattro presidenze della Repubblica sono state affidate a napoletani   5 .
f.  In troppi casi, i siti filo-borbonici e anti-unitari sono violentemente antisemiti e negano addirittura l’esistenza della Shoah.  Questo forse è l’aspetto più inquietante.
Cerchiamo di esaminare subito un po’ più a fondo alcuni di questi punti.
Per quanto riguarda l’assenza di un supporto documentario alle loro tesi, vorrei citare almeno il brigantaggio e l’emigrazione, che secondo loro sarebbero nati dopo l’Unità.
In realtà, esistevano già prima.
Circa il brigantaggio, Renata De Lorenzo, nel suo recentissimo Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno Editrice, Roma 2013, € 13,00  -con Prefazione di Alessandro Barbero-  spiega lucidamente quanto fosse virulento questo fenomeno durante il Regno dei Borbone. 6  Per inciso, come ha sottolineato Barbero, l’azione di contrasto al brigantaggio vedeva coinvolti sia l’esercito regolare  (che comunque, a quella data, comprendeva anche giovani del Sud, in particolare napoletani), sia militi della Guardia Nazionale, reclutata proprio nei luoghi interessati dal brigantaggio.
Sull’emigrazione, si può dire che aumentò, dagli Anni Settanta circa del XIX secolo, per una serie di fattori: ciclo economico di recessione nel periodo 1873-96, e poi, verso la fine dell’Ottocento, a causa di una maggiore pressione demografica  (favorita da migliori condizioni igieniche e dai progressi in campo medico, che ridussero soprattutto la mortalità infantile), non compensata da opportunità di lavoro  ; grazie alle nuove applicazioni tecnologiche nel settore della navigazione; e infine in virtù dell’accresciuta richiesta di manodopera che proveniva dai mercati del lavoro europei ed extraeuropei e a promesse di donazione di terre da coltivare a chiunque si fosse insediato nel paese  (fu il caso, ad esempio, dell’Argentina). È curioso che i revisionisti non ricordino mai che il picco dell’emigrazione italiana si raggiunse proprio durante l’età giolittiana  8  - vale a dire nel periodo più felice dell’Italia liberale-  perché proprio in quel decennio l’economia di molti paesi   -a partire dagli Stati Uniti-  si trovava in pieno ciclo economico di espansione  (1897-1914).  Oltre a questo, non mi sembra scientificamente corretto sostenere, come fanno i revisionisti, che l’emigrazione sia stato un fenomeno che ha riguardato esclusivamente (o quasi esclusivamente)  le regioni del Sud, e in particolare la Campania.  Come Barbero ricorda puntualmente, a lasciare l’Italia per altre mete sono state anche popolazioni del Nord, a partire proprio dai piemontesi, seguiti dai veneti. Basta dare un’occhiata in rete per rendersi conto delle tante associazioni che, soprattutto nelle Americhe, tengono vivo il ricordo delle origini piemontese e veneta.   9  
E passiamo alle contraddizioni.
I revisionisti prima dicono che le vittime del "genocidio" da parte del Nord nei confronti dei meridionali e soprattutto dei napoletani sarebbero centinaia di migliaia, se non addirittura milioni  (tesi smentita da Barbero nell’intervista, presentando documentazione, questa sì, inoppugnabile);  poi però aggiungono che, per esempio la Legge Pica, introdotta per combattere il brigantaggio, vietava, in diversi casi, di annotare il numero dei caduti sotto il fuoco dei soldati dell’esercito italiano (che, lo ricordo ancora una volta, comprendeva anche militari meridionali, e soprattutto napoletani).   Ma allora, se non si posseggono dati, come si fa  ad affermare che le vittime dello "sterminio sistematico" sono state centinaia di migliaia, o addirittura milioni ?  Non mi sembra un modo corretto di ragionare.  Inoltre, da un lato, quando parlano dei "massacri" di meridionali tra il 1860 e il 1865  (e magari oltre), non esitano a citare la Shoah e chiedono addirittura l’istituzione di una giornata della memoria; dall’altro, però, parecchi dei loro siti non solo risultano ferocemente antisemiti, ma negano che la Shoah si sia mai verificata, trattandosi, a loro giudizio, di un’invenzione della "propaganda massonico-sionista", di un "cinico complotto ebraico e della cricca massonica"  (la massoneria non manca quasi mai nei discorsi dei revisionisti), nel tipico frutto della "perfidia della lobby giudaico-massonica, guidata dalla banda Rothschild", che da tempo immemorabile terrebbe il mondo in pugno  (evidentemente,  I Protocolli dei Savi Anziani di Sion rappresentano una delle letture preferite di certi nostalgici, malgrado che da decenni ne sia stata confermata l’assoluta falsità).  10
Mi auguro di non attirarmi una querela se faccio notare che questa  ‘comunanza di interessi’,  non giova certo all’immagine e alle finalità di quanti, in buona fede e animati da un sincero spirito di attaccamento alla propria storia, sostengono il primato del Regno delle Due Sicilie e sottolineano i danni che il Sud avrebbe subito con l’unificazione.  11   
Ma c’è dell’altro.
Trovo singolare il fatto che i revisionisti condannino i Savoia per i soprusi e le vessazioni contro il Sud, considerandola una dinastia di massacratori, e poi venerino quasi  (ma v. oltre)  Francesco II  (1859-61), che era figlio di Ferdinando II e della prima moglie Maria Cristina di Savoia, la quale a sua volta era figlia di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna dal 1802 al 1821, quando abdicò a favore del fratello Carlo Felice  (che a causa della sua assenza affidò la reggenza a Carlo Alberto).  Paradossalmente, anzi, Francesco II è stato l’ultimo Savoia d.o.c., a differenza di Vittorio Emanuele II, appartenente al ramo collaterale dei Savoia-Carignano  (ammesso che fosse veramente figlio di Carlo Alberto…). Francesco II, in definitiva, sarebbe il cugino di quel Vittorio Emanuele II  che i nostalgici considerano  il mandante del  "genocidio" dei meridionali. È  curioso che questo particolare non emerga mai nei discorsi dei revisionisti.  Forse perché  è imbarazzante ?

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Il più illustre rappresentante dei revisionisti, e cioè Gennaro De Crescenzo, è uno studioso che difende con appassionato vigore le sue idee e dimostra di essere disposto al contraddittorio, anche se talvolta usa categorie di pensiero e un linguaggio francamente inaccettabili  (le violenze contro i meridionali messe sullo stesso piano della Shoah: anche lui)  e fornisce cifre, su quello che chiama il genocidio dei meridionali, che, lo ripeto, non sono supportate da prove. Egli per la verità sostiene di essere in possesso di documentazione a sostegno delle sue tesi, ma non si capisce per quale motivo, allora, non la pubblichi e non la metta a disposizione degli altri studiosi.    
De Crescenzo lo nega, ma a me sembra che buona parte delle sue argomentazioni siano finalizzate proprio alla creazione del mito di quella che Barbero ha chiamato  ‘Borbonia felix’  12 ,  un mix di Utopia di T. More e di Eldorado di Voltaire, in cui gli abitanti vivevano negli agi, tranquillamente e rispettati dal sovrano e dai suoi uomini.  Con tutto il rispetto per lo studioso napoletano, a me pare che questo scenario, a parte il fatto che ignora  -o non prende in considerazione-, la circostanza che la Sicilia, a causa della sua  ‘riottosità’ a sottomettersi ai diktat dei Borbone  (e non per nulla i siciliani erano esentati dal servizio militare), era mantenuta praticamente in stato d’assedio, non tenga conto dei numerosi esuli duo-siciliani che avevano scelto proprio Torino come meta del loro peregrinare, nella certezza che, comunque, lì avrebbero potuto realizzare quello che era loro negato in patria: ossia, esprimersi liberamente, soprattutto dopo l’introduzione dello Statuto, che, ancorché carta ottriata, rappresentava pur sempre qualcosa di infinitamente meglio rispetto all’assolutismo partenopeo, al dispotismo e ai capricci di un monarca, Ferdinando II, ricordato immancabilmente  (e a ragione)  come  'il re bomba'  13 .  Lo stato borbonico viene disegnato come un'isola di  'felici e contenti', il paese dell'utopia, appunto.  Immagine suggestiva, certo, ma non corrispondente alla realtà.  14  

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Così come mi sembra improponibile la tesi secondo cui gli Italiani  (perché, loro non si considerano Italiani ?)  dovrebbero chiedere ogni giorno scusa al Sud e in particolare ai napoletani per quello che hanno fatto prima e soprattutto dopo l'Unità.  Al di là del fatto che in diversi casi le scuse sono state già presentate, se si dovesse accettare questa logica, noi oggi dovremmo pretendere dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra quantomeno scuse solenni e ripetute per i bombardamenti aerei che hanno effettuato durante la seconda guerra mondiale, incursioni che troppe volte hanno colpito la popolazione civile, inerme e indifesa 15 . Dobbiamo obbligare il Presidente Obama a scusarsi ufficialmente per questi azioni di puro terrorismo (visto che non avevano alcuna finalità bellica) ?  Non scherziamo,  per favore.
Alcuni revisionisti, inoltre, secondo me esagerano quando si compiacciono di far parte addirittura della Commissione Cultura del  “Parlamento delle Due Sicilie”,  un organo che non mi pare sia contemplato dalla nostra Costituzione.  Se in questo modo vogliono far vedere ai leghisti  -i quali blaterano di "nazione padana", di  "governo del nord" e amenità simili-,  che anche al Sud sono capaci di fantasia e di spiritosaggini, è un conto; ma se credono davvero nella validità di tali ‘istituzioni’  (a proposito: ma dove si trovano, chi li ha eletti e quali funzioni ritengono di avere questi parlamentari ?),  dovrebbero rivedere attentamente la loro scelta, anche per non esporsi al rischio di violare la Costituzione.  La quale, per inciso  -e sono certo che i revisionisti non lo ignorano-  precisa  a chiare lettere che l’unico punto della Carta che non potrà mai essere modificato è quello dell’assetto istituzionale:  l’Italia è e dovrà rimanere una Repubblica.  Non c’è spazio, quindi, per sogni di restaurazione monarchica, né sotto la bandiera dei Savoia, né sotto la bandiera  (che devo riconoscere più bella)  dei Borbone  (anche la musica dell’ inno, di G. Paisielloa onor del vero, è più suggestiva) . 16
  
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Al di là di tutto, comunque, resta l’esigenza di ripensare ancora il nostro Risorgimento (“ancora”, perché come ricorda Barbero, il Risorgimento, e soprattutto l’unificazione, sono stati sottoposti a critiche sin dal 17 marzo 1861), di rivedere ciò che veramente sono state certe figure carismatiche, di scoprire, in particolare, a mio avviso, che cosa si nascondeva dietro splendide vittorie militari  (la corruzione –e comunque le promesse che avevano ricevuto da Torino-   certi generali borbonici ?).
Ma per far questo,  è necessario che si accetti una buona volta l’idea di una memoria condivisa, che ha unito regioni e popoli d’Italia che comunque, al di là di parlate e di tradizioni diverse, appartengono ad un’unica stirpe.  
È giusto condannare con forza i torti che certe popolazioni hanno subito con l’Unità;  è giusto chiedere, anche, un qualche atto simbolico da parte delle autorità ufficiali nei confronti di quelle comunità che ne sono state vittime  17  ;  ma è anche giusto non dimenticarsi mai che certe tesi possono produrre effetti devastanti in una coscienza collettiva già piuttosto indifferente all’Unità,  qual è quella italiana.

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Per finire, vorrei osservare che un dato sembra emergere con particolare vigore da questa polemica: e cioè che la Storia va riscritta continuamente, perché gli archivi, più si aprono e più costringono a rivedere certezze e a riformulare idee che fino a poco tempo prima erano state presentate come indiscutibili.  18

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 Note

1   In una pagina del famoso portale  “Cronologia”,  si  parla addirittura di un milione di morti, come conseguenza dello "sterminio"  dei meridionali da parte delle truppe piemontesi, nonché della richiesta da parte del governo italiano, nel 1869, all’Argentina di acquistare un’isola per confinarvi i prigionieri napoletani.                              
Ma le denunce sulle efferatezze  (più o meno reali)  compiute dall’esercito italiano nella lotta al brigantaggio, come scrivo sopra, sono di antica data  (decenni e decenni), per cui risulta quantomeno curiosa l’affermazione di taluni revisionisti che in passato nessuno abbia mai sollevato la questione.  Non è così, e un’ennesima prova al riguardo è stata fornita proprio da Barbero nel corso dell’incontro  –dedicato al brigantaggio e alla questione meridionale-  svoltosi a Gorizia, nell’ambito del Festival Internazionale di Storia  (“èstoria”: 24-26 maggio 2013.  Alle imprudenti affermazioni di P. Aprile circa il silenzio che avrebbe avvolto per decenni   -e che continuerebbe ad avvolgere-  il tema della repressione del brigantaggio, con il suo calvario di orrori, Barbero ha risposto mostrando il libro di Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1969  (ulteriori edizioni nel 1979 e nel 2005; se ne dà notizia anche nel sito  www.brigantaggiolibri.it), da cui ha estratto alcuni punti dove si citavano proprio le rappresaglie compiute dall’esercito italiano  (insisto: “italiano”, non piemontese, come continuano a ripetere certi revisionisti), in particolare quella di Pontelandolfo, nei confronti della popolazione civile per stroncare il brigantaggio.  Barbero ha poi proseguito ricordando che già Gramsci ed altri intellettuali prima di lui avevano condannato le zone d’ombra del Risorgimento, le sue occasioni mancate, i suoi fallimenti, ma inquadrando il discorso in una prospettiva ideologica, di incapacità delle classi dirigenti italiane di rispondere alle aspettative del Paese. D’altronde, vorrei aggiungere, già nel 1964 era uscito, presso Feltrinelli, il libro di Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità
L'incontro di Gorizia era moderato dal bravo vice-direttore del TG1 Gennaro Sangiuliano, il quale, pur essendo napoletano d.o.c., ha sottolineato, giustamente, che il modo in cui si è realizzata l’unificazione non può rappresentare, per il Sud, un alibi per spiegare la sua arretratezza rispetto al Nord.  Comunque, ha aggiunto, questo stesso Nord  -e più in generale il Paese-   hanno ampiamente ripagato gli oltraggi e le nefandezze compiute nel periodo post-unitario, e in proposito ha citato la numerosa rappresentanza di politici e intellettuali meridionali nei governi della Repubblica  -ma io risalirei ad epoche precedenti  (un solo nome: Giovanni Gentile) e aggiungerei anche la Presidenza della Repubblica  (cfr. la nota n. 5)-.  Infine, vorrei ricordare le montagne di denaro pubblico che sono state riversate al Sud, e soprattutto in Campania, per favorirne lo sviluppo.  Ancora si deve fare uno studio approfondito di quanto sia costata, al Paese, la Cassa per il Mezzogiorno.  Se queste immense risorse messe a disposizione del Sud non sono riuscite, secondo Aprile e altri, a risollevarne l’economia, la ragione dovrebbe essere ricercata al Sud stesso, non in altre parti d’Italia.  Tornando all’incontro, vorrei concludere che Aprile, il quale appunto continua a sostenere la tesi che dei massacri non si è mai parlato, poteva comunque evitare, per far ‘conoscere’ questi massacri al pubblico in sala, di soffermarsi su particolari raccapriccianti, da tregenda, inutili sul versante storico e disdicevoli su quello dello stile personale, vista tra l’altro la presenza in sala di molte signore
Purtroppo, non è la prima volta che Aprile usa un approccio che indugia su certi dettagli.  Non si capisce peraltro per quale motivo lo stesso, quando Barbero ha ricordato che ad opporsi al brigantaggio non c’era solo l’esercito italiano, ma anche la Guardia Nazionale, composta da gente del luogo, abbia usato il termine “ascari”, in segno di evidente disprezzo.  Come al solito, i primi ad essere razzisti sono proprio coloro i quali accusano gli altri di trattarli in modo razzista.


2  Un esempio per tutti: quasi settanta commenti, seguiti alla recensione di Mario Avagliano, del libro di  Antonella Orefice, Termoli e Casacalenda nel 1799. Stragi dimenticate. (Arte Tipografica Editrice, pp. 101, € 12,00), apparsa prima sul  “Mattino”  del 14 giugno 2013 e riprodotta lo stesso giorno sul suo blog, con il titolo Quei massacri ordinati dai Borbone. La virulenza che contraddistingue certi commenti lascia sconcertati: vi si propongono, con una leggerezza senza parole, cifre apocalittiche sui  "massacri"  perpetrati dai giacobini a danno della popolazione napoletana  (e non soltanto dei realisti)  durante la rivoluzione del 1799.  Questa tendenza ad ingigantire oltre ogni limite della fantasia le cifre, purtroppo rappresenta una costante di alcuni ‘nostalgici’. Sulla Orefice, direttrice del prestigioso “Nuovo Monitore Napoletano”, cfr. le seguenti interviste dello scorso anno sulla Repubblica napoletana del 1799 e più in generale sulla sua attività


3  E a supporto di questa tesi si citano le profonde differenze somatiche, di intelligenza, di cultura e di stile  -la regina Vittoria rimase inorridita dal modo di stare a tavola di Vittorio Emanuele II-  tra i due.


4   Basti pensare, appunto, alle reazioni che ha suscitato, pochi mesi fa, la pubblicazione dell’articolo di Mario Avagliano, di cui ho parlato sopra.


5   Enrico De Nicola: Capo Provvisorio dello Stato dal giugno 1946 al dicembre 1947 e dal 1° gennaio all’11 maggio 1948 Presidente della Repubblica, come previsto dalla prima delle Disposizioni transitorie e finali della Costituzione; Giovanni Leone, dal 1971 al 1978;  Giorgio Napolitano, dal 2006 a oggi, unico caso di presidente rieletto.  Tutti napoletani d.o.c. . Nessun’altra città italiana ha espresso un numero così consistente di Presidenti della Repubblica.


Vorrei soltanto aggiungere che il più famoso brigante di questo periodo, Carmine Crocco, nel 1852 aveva disertato dall’esercito borbonico  -dove prestava il servizio militare-  e aveva formato una sua banda, assieme ad altri elementi.  Alla fine venne arrestato, ma nel 1859 evase e si unì a Garibaldi.  Deluso dal generale, tornò all’antico mestiere, sostenuto dai mezzi forniti dai Borbone. Venne arrestato di nuovo nel 1864, ma anziché essere giustiziato sul posto  (in base a quanto stabiliva la Legge Pica), fu condannato all’ergastolo, da scontare nell’isola d’Elba, dove scomparve nel 1905, per cause naturali.  A questo punto sorge spontanea una domanda:  se al nemico numero uno del nuovo Stato italiano viene risparmiata la fucilazione e se questo stesso nemico numero uno sopravvive in carcere per altri quarant’anni, come si fa ad affermare che i massacrati furono centinaia di migliaia o addirittura milioni?  Come si fa a classificare come inumane le condizioni in cui erano detenuti ?   Non solo.  Forse non tutti sanno, per passare ad un altro brigante di prim’ordine, che il comune di Villa Castelli  (in provincia di Brindisi), nel 2010 ha dedicato una strada a Pasquale Domenico Romano (detto "Sergente Romano", ma più famoso con un altro soprannome, decisamente truce), un ex graduato borbonico macchiatosi di numerosi delitti e ucciso in uno scontro a fuoco con la Guardia Nazionale nel 1863). Sul sito del suddetto comune di Villa Castelli, nella pagina riservata alla storia del paese, si può leggere quanto segue:  “A questa situazione di disagio economico, sociale e amministrativo [prima dell’Unità], in quel periodo si aggiunse anche il fenomeno del brigantaggio, che da qualche anno imperversava in tutto il Meridione d’Italia, caratterizzandosi come forma di insurrezione popolare contro l’invasione sabauda.”  Non una parola sugli atti di delinquenza gratuita commessi dai briganti per finalità ben diverse dalla restaurazione borbonica.  Vale la pena aggiungere che al  "Sergente Romano"  sono stati eretti cippi funerari e lapidi nei luoghi in cui ha combattuto.  Questo tanto per chiarire, ancora una volta, che fatti ed episodi del brigantaggio sono noti da tempo immemorabile, e le prove sono alla luce del sole.  Per chi le vuol vedere, ovviamente.  Non si può dire, altrettanto, purtroppo, quanto a notorietà, dei massacri che in passato hanno visto coinvolte comunità italiane nelle colonie, o in quelle che erano state colonie.  Quanti dei revisionisti sanno, ad esempio, che cosa accadde a Mogadiscio l’11  gennaio  1948 ?


7  Il lavoro al Sud mancava a causa dell’arretratezza economica ereditata dai Borbone e del sistema prevalente di conduzione dei campi, cioè il latifondo.  Quando si parla del Sud in questo periodo storico, è necessario citare almeno l’indagine condotta da Leopoldo Franchetti tra il 1873 e il 1874, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, Tipografia della Gazzetta d’Italia, Firenze 1875, uno studio abbastanza eloquente sullo stato di quelle regioni al momento dell’unificazione. Vorrei riportare almeno l’incipit del suddetto lavoro, tanto per chiarire ancora una volta quali fossero le condizioni effettive (non quelle di qualche storico di corte, alla De Vito, o dell’ agiografo di turno) di quelle terre:  “Sono già quattordici anni che le province meridionali fanno parte del Regno d’Italia  […] .  Ad eccezione di poche città, vi trovammo un popolo confinato in un paese mezzo selvaggio, racchiuso nei suoi luridi borghi e nei campi circostanti, senza strade per allontanarsene, ignorante e laborioso; diretto da preti poco più civili di lui, e da signori, una parte dei quali ignoranti quanto lui, ma più corrotti; i buoni, o in galera o sorvegliati, o cacciati  [corsivo mio]; segregati tutti dal resto d’Italia e d’Europa da un sistema di proibizioni commerciali, di passaporti e di esclusione di libri; nell’amministrazione, una corruzione svergognata. […]”  
Mi sembra inutile ricordare che Franchetti fu giustamente critico sul modo in cui venivano risolti i problemi del Sud ereditati dai Borbone, denunciando clientelismo, sprechi, malgoverno, profitti illeciti e infiltrazioni lobbistiche.  (D’altronde, che fosse una delle voci più impavidamente critiche della cattiva amministrazione, emerse a proposito dell’indagine sulla Terni, in cui accusò senza mezze parole l’intreccio di interessi e di accordi nascosti che legava politici e ambienti ministeriali all’industria siderurgica e bellica.)  E ritengo altrettanto superfluo aggiungere che lo studioso livornese era di antica e prestigiosa famiglia ebraica  (anche se la sua fede doveva fare i conti con il suo libero pensiero)  e che nel 1909 venne nominato senatore da Vittorio Emanuele III .


8   Forse perché anche Giolitti era piemontese ?


9 Quanto fosse imponente l’emigrazione piemontese nel mondo, lo testimonia questa nota del portale www.argentina.it .  “Le terre migliori e più fertili erano state acquisite da emigrati svizzeri e tedeschi ma, a partire dal 1856, con la fondazione della colonia italiana di Esperanza in un periodo di tempo di trent'anni nacquero circa altre cento colonie agricole che raggruppavano quasi ottantamila coloni provenienti per la maggior parte dal Piemonte e dalla Lombardia dai nomi inconfutabilmente "italiani". Esperanza nel 1856, Emilia nel 1868, Cavour nel 1869, Nuova Italia nel 1872, Vercelli nel 1873, Torino nel 1876 sono alcune tra le colonie agricole italiane nate con molto successo in quel periodo. 
Piemontesi e Lombardi.  Le autorità argentine ed anche osservatori di altre nazionalità interessati ai problemi agricoli dell'Argentina espressero giudizi decisamente positivi sui lavoratori agricoli provenienti dalla Lombardia e dal Piemonte, ma in generale anche per gli altri italiani provenienti dalle regioni del Nord in quanto li giudicavano instancabili al lavoro, dotati di eccellenti costumi e, con particolare riferimento ai piemontesi, di una sobrietà proverbiale.".  
Qualche altro dato:  “Furono oltre due milioni i piemontesi che emigrarono tra il 1870 e il 1970, e sono attualmente oltre sei i milioni di piemontesi ed oriundi piemontesi (figli e nipoti dei piemontesi emigrati) che vivono all’estero. Questi sono i dati forniti dall’Osservatorio regionale in occasione della prima Conferenza dei Piemontesi nel Mondo tenutasi al Lingotto di Torino nel novembre 1999, incontro che ha visto la partecipazione dei delegati delle 190 Associazioni dei Piemontesi nel Mondo.   
L’Argentina vanta il maggior numero di piemontesi, pari a tre milioni, che sono residenti in
 particolare nelle province di Cordoba, Santa Fè, Mendoza e Buenos Aires. Seguono Brasile e Stati Uniti con 700 mila piemontesi ciascuno; in Brasile i piemontesi hanno scelto in prevalenza le città di San Paolo e Belo Horizonte mentre negli USA i piemontesi sono in maggioranza in California, a Chicago e a New York. In Europa oltre mezzo milione risiede in Francia. Seguono la Spagna con 200 mila presenze (Madrid e Barcellona), Inghilterra (Londra) e Germania (città del sud). In Australia sono oltre 300 mila e 200 mila in Venezuela, 150 mila in Cile e 100 mila in Uruguay. Presenze piemontesi minori si rilevano in Canada (30.000) e in altri paesi."   (Giancarlo Libert, La  millenaria storia dell’emigrazione piemontese: un approccio biografico .)  
La presenza piemontese in Argentina è così massiccia che molti comuni della regione Piemonte sono gemellati con una località argentina, dove risiedono parenti dei residenti.  E d’altronde, l’attuale Pontefice non discende forse da una famiglia emigrata in Argentina dall’astigiano, dopo una parentesi a Torino ?  
(Per inciso, l’’emigrazione piemontese ha origini ben più antiche di quelle napoletane o di altre regioni, risalendo addirittura al Medioevo.)  
A fronte di queste testimonianze  (più che attendibili, direi), non so come si possa continuare a sostenere pedissequamente la tesi secondo cui l’emigrazione italiana è rappresentata soltanto o quasi esclusivamente dai meridionali, e soprattutto dai napoletani.  Giocare con la fantasia può anche fruttare qualche consenso in più, ma non credo che l’autorevolezza se ne giovi.
Tra le associazioni, vorrei indicare almeno l’ Associazione piemontesi nel mondo, il cui sito riporta un poderoso elenco di comunità piemontesi presenti in buona parte del globo, con una netta prevalenza proprio in Argentina .          

10  Per una breve rassegna di quanti coniugano il revisionismo anti-unitario ad una virulenta propaganda contro gli ebrei  (alla D. Irving o alla D. Cole, per intenderci),  si vedano ad esempio questo blog  e  questo sito.  Esistono anche pagine Facebook: v. ad esempio qui e qui (in quest'ultima si dice che persino la bandiera dell’ONU è un simbolo della "mafia talmudico-massonica" e del potere dei Rothschild e di Rockefeller, che la Chiesa sarebbe
praticamente complice degli "aguzzini rothschildiani").  Come prova del 'diabolico disegno giudaico-massonico di dominare il mondo', viene usato anche il Diario di Anna Frank.  


11  Vorrei citare almeno Gigi Di Fiore, uno degli storici revisionisti più sensibili, ed equilibrati.  Il garbo e la disponibilità al confronto di Di Fiore, sono il segno evidente che, senza mettere in discussione lo stato unitario o coltivare nostalgie venate talvolta di opportunismo, si possano e si debbano affrontare, in modo anche più deciso di quanto non sia stato già fatto, taluni episodi ignobili e certe scelte indifendibili del processo unitario e soprattutto dello scenario post-unitario. (A ben vedere, I vecchi e i giovani, di L. Pirandello, si muovono proprio in questa direzione: quanto a severità di giudizi sul ‘modo di fare l’Italia’ e di affrontare i problemi nati dall’unificazione, Pirandello ha poco da imparare.)  Per inciso, tanto per sfatare la bugia di quei revisionisti i quali dichiarano che per loro non c’è spazio nei media e in particolare nella grande editoria, vorrei ricordare che una delle opere più importanti di Di Fiore, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combattè per i Borbone di Napoliè stata pubblicata nel 2004 dalla Utet, che, com’è noto, ha sede a Torino.  Ma per i tipi della Utet, sono apparsi altri testi di questo A. . Evidentemente, l’ostracismo di cui parlano certi anti-unitari, non esiste.

12  Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno Editrice, Roma 2013, € 13,00   -con Prefazione di Alessandro Barbero-, lo ricordo, è il titolo di un recente saggio di Renata De Lorenzo. Qui  e qui  due video in cui De Lorenzo ed altri denunciano lo stato di estremo degrado in cui si trova Piazza del Plebiscito a Napoli  (orribilmente sfregiata, tra l’altro, dai graffiti dei mentecatti), e soprattutto la parte che ospita la Società Napoletana di Storia Patria, di cui è presidente.  I locali della Società  -e l’eccezionale patrimonio documentario che conserva-  sono a rischio di distruzione, a causa in particolare delle infiltrazioni d’acqua.  Trovo curioso che De Crescenzo, così attaccato alle sue origini, non metta al servizio di questa buona causa, e più in generale a sostegno del progetto di riqualificazione urbana di una città oltraggiata dall’inettitudine e da interessi non propriamente virtuosi di certi politici e amministratori locali, la sua arte oratoria e il suo talento, anziché impegnarsi anima e corpo in un’opera di revisione storiografica il cui obiettivo di fondo è quello di far credere che dopo il 1861 il Regno delle Due Sicilie  (il più prospero e liberale, secondo lui, dell’Italia pre-unitaria), sarebbe stato ridotto in schiavitù, sarebbe diventato una specie di campo profughi.  Come dimostra tra l’altro De Lorenzo nel primo video segnalato sopra, non è così, e lo testimonia proprio il fervore intellettuale di cui Napoli ha dato prova negli anni successivi il 1861, un fervore di cui la nascita della Società Napoletana di Storia Patria, nel 1875, costituisce uno dei momenti più qualificanti.


13   A Ferdinando II De Crescenzo ha dedicato un volumein cui considera le accuse contro questo re come una vendetta dei vincitori, il segno palese della volontà di fargli pagare la ferma resistenza al complotto ordito dalla massoneria europea per impadronirsi del Regno di Napoli; una persona onesta e un patriota, insomma, colpevole soltanto di amare la sua terra e il suo popolo e di difenderlo dalle mire imperialistiche delle grandi potenze. Ancora una volta, viene chiamata in causa la massoneria.  È interessante notare che la tesi del complotto massonico è rifiutata anche in certi ambienti della massoneria stessa, i quali d’altra parte ci tengono ‘a mantenere le distanze’  con i protagonisti del Risorgimento e sono anche loro convinti che l’Unità sia stata una guerra di conquista che ha rovinato il Sud.      
De Crescenzo lo scorso anno ha pubblicato un libro dal titolo eloquente  (I peggiori 150 anni della nostra storia. L’unificazione come origine del sottosviluppo del Sud. 2012), su cui temo di non poter concordare. 
Su un punto, comunque, credo che De Crescenzo abbia ragione: ed è quando difende la memoria di Francesco II, perché su questa figura  (re suo malgrado, un po’ come Luigi XVI, ma dal temperamento più sensibile e tormentato del monarca francese), andrebbero forse rivisti certi giudizi sbrigativi, che liquidano la sua persona come un soggetto insignificante, inetto, crudele proprio perché stupido. Una specie di Luigi XVI, appunto, o di Nicola II Romanov  (ante litteram).  Quando mai, nella Storia, un re fugge dalla sua reggia, dalla sua città  (Napoli)  per risparmiare agli abitanti gli orrori dell’assedio e per di più si porta dietro ben poco delle ricchezze di famiglia e sue ?  Quando mai un monarca si trasferisce in una località insignificante di un altro paese  (l’impero austro-ungarico), dove conduce per anni, nell’anonimato, un’esistenza quasi da piccolo borghese (attese  le modeste  -per un re-  disponibilità finanziarie a sua disposizione) ?  Francesco II è diventato il capro espiatorio di una dinastia che ha annoverato personaggi indegni di stima  (basti pensare ai massacri contro i siciliani ordinati dal padre), forcaioli che meriterebbero di comparire davanti ad un Tribunale Internazionale, che ha pagato per colpe non sue.  Come spesso accade nella Storia, sono proprio i più miti e indulgenti  -e forse fatalisti (qual era appunto Francesco II)-  ad essere considerati dei  carnefici.

14  E d’altronde, la storia dei piemontesi che vogliono deportare una parte dei prigionieri napoletani in Argentina, fa il paio con quella di Ferdinando II che dopo il tentato regicidio nei suoi confronti da parte di Argesilao Milano (8-12-1856), cercò di stipulare appunto con l’Argentina una convenzione per deportare nel Rio de la Plata i detenuti politici rinchiusi nelle carceri napoletane, togliendo così acqua al mulino dei critici stranieri  (in particolare inglesi),  che giudicavano quelle carceri peggio che inumane.  Inoltre, c’è qualcosa che non quadra nell’immagine idilliaca di un re  -Ferdinando II-  che sarebbe venerato dai suoi sudditi.  Se era così, come mai la sua guardia personale era composta soprattutto da mercenari svizzeri ?


15   Pochi sanno, ad esempio, che parecchi bombardamenti aerei di città italiane da parte degli Stati Uniti  (in cui peraltro andarono distrutte migliaia e migliaia di abitazioni civili, per non parlare dei luoghi di culto  -la Basilica di S. Lorenzo, a Roma, rasa al suolo durante l’attacco contro l’omonimo quartiere-, e degli ospedali)  erano accompagnati da mitragliamenti dei caccia di scorta, che colpivano indiscriminatamente, e ferocemente, tutti quei poveri disgraziati che non erano riusciti a raggiungere un rifugio.  La moglie di una delle vittime delle Fosse Ardeatine  (Michele Bolgia, medaglia d’oro alla memoria per gli atti di eroismo a favore dei deportati da parte dei tedeschi)  è stata uccisa proprio durante uno di questi mitragliamenti.  Una delle pagine più tragiche, questa delle vittime innocenti delle incursioni aeree su Roma, che aspetta ancora di essere ricostruita pienamente.  


16   D’altra parte, a creare una certa confusione tra repubblica e monarchia, a volte sono gli stessi vertici dello Stato, sia pure involontariamente. In tal senso, la frase del Presidente della Repubblica, che durante le cerimonie del 2 giugno 2011, alla presenza di numerosi capi di stato stranieri, dichiarò di essere felice di averli lì per celebrare, in quel giorno  -il 2 giugno-  il 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia, non rappresenta purtroppo una frase molto opportuna.  Un lapsus, certo, ma un lapsus che certi revisionisti hanno subito utilizzato per ricamare ipotesi fantasiose. 


17   D’altronde, anche il premier britannico Cameron, il 20 febbraio 2013, ha deposto una corona di fiori al memoriale che ricorda l’eccidio di Amritsar del 13 aprile 1919, definendo il massacro “[…] un evento profondamente vergognoso della storia britannica […] Non dobbiamo mai dimenticare quello che è accaduto qui […]”.  Ma Cameron, in precedenza, aveva chiesto scusa anche per l’uccisione, da parte delle truppe britanniche, di quattordici civili irlandesi innocenti avvenuta a Derry  nel 1972.  Inoltre, la stessa regina Elisabetta II, nel maggio di quest’anno, ha compiuto un simbolico gesto riparatore, inchinandosi davanti al monumento dedicato agli insorti di Dublino e chiedendo implicitamente scusa per la repressione compiuta dai soldati britannici contro gli Irlandesi, in particolare nello stadio di Croke Park, dove il 21 novembre 1920 i soldati di Sua Maestà, per vendicare l’assassinio di quattordici agenti segreti e poliziotti lealisti, entrarono con i carri armati, facendo fuoco sulla folla che assisteva ad una partita di football.  In questa visita, Elisabetta II non ha parlato molto, ma almeno una frase è stata riportata da quasi tutti i media:  "E' impossibile ignorare le complessità della nostra storia, i suoi molti strati e tradizioni. Ma anche l'importanza del perdono e della conciliazione, essere capaci di inchinarci al passato, ma anche di essere capaci di non essere costretti dal passato"  [corsivo mio]. 
Per tornare in Italia, vorrei osservare che le scuse ufficiali a comunità oltraggiate dalla violenza di alcuni reparti dell’esercito italiano  (che comprendeva, lo ripeto ancora una volta, anche meridionali)  e della Guardia Nazionale locale, nella lotta al brigantaggio, sono state già fatte, ed è curioso che i revisionisti non lo ricordino quasi mai. Basti pensare  alle parole che Giuliano Amato, Presidente del Comitato dei Garanti per le Celebrazioni del 150 ° dell’Unità d’Italia, pronunciò il 14 agosto 2011, in rappresentanza del Presidente della Repubblica: “Vi chiedo scusa, a nome della Repubblica Italiana, per l’eccidio di Pontelandolfo”.  Scuse ufficiali sono state presentate in quell’occasione anche da Achille Variati, sindaco di Vicenza, città del comandante dei bersaglieri Pier Eleonoro Negri, che il 14 agosto 1861 guidò il massacro di 400 civili inermi (compresi i sacerdoti) e la distruzione dell’intero paese, e dagli stessi bersaglieri. L’ordine era partito dal medesimo Cialdini come rappresaglia per l’uccisione di quarantacinque militari italiani avvenuta l'11 agosto 1861 giorno a Casalduni e di alcuni cittadini di Pontelandolfo, ad opera di una banda di briganti guidati dall’ex capitano borbonico Cosimo Giordano  (una delle tante conferme che i briganti provenivano anche dalle fila del disciolto esercito borbonico)  a cui si erano aggregati dei giovani di Pontelandolfo stesso.  Sembra comunque che Negri abbia eseguito l’ordine in modo estensivo, andando oltre quanto aveva prescritto Cialdini, che in ogni caso ha responsabilità gravissime.  (Su questa strage  -e sulle sue origini-  ci sarebbe da scrivere a lungo, anche perché Cosimo Giordano, a dispetto dei suoi legami con i legittimisti borbonici  -dai quali riceveva finanziamenti generosi-  commise atti classificabili come delinquenziali allo stato puro, che poco avevano a che vedere con la causa borbonica e con  "la lotta all’invasore piemontese".   Arrestato nel 1882, dopo ben due anni di processo   -e aveva una fedina penale lunga un km-,   venne condannato nel 1884 ai lavori forzati a vita, conclusisi nel 1888, quando passò a miglior vita per cause naturali.) Tengo comunque a ricordare che Gigi Di Fiore  (a conferma della sua onestà intellettuale)  precisa che nel dicembre 1861 il deputato milanese Giuseppe Ferrari denunciò alla Camera l’episodio di Pontelandolfo.  (Per la verità, Ferrari, da buon milanese e da autentico federalista, nel corso della sua azione parlamentare si levò più volte contro la piemontesizzazione dell’Italia –era fortemente indignato per la decisione di Vittorio Emanuele di continuare a farsi chiamare “II”-  e il centralismo oppressivo imposto dai Savoia.)  Ancora una prova, insomma, che certi crimini erano noti sin dal 1861, appunto, che non c’è stata alcuna volontà di rimuoverli o di occultarli, come sostengono i revisionisti più fanatici.  Per non parlare di quanto è avvenuto, ad esempio, nel mondo musicale. Nel 1972, il gruppo rock   "Stormy Six"  compose un LP dal titolo "L’Unità", con canzoni volte a far conoscere le pagine più ingloriose del Risorgimento.  Una di queste canzoni era dedicata proprio al massacro del paese in provincia di Benevento, strage di cui viene ricostruita la genesi  (le uccisioni di civili e di bersaglieri avvenute nei giorni precedenti, un dato che i revisionisti dimenticano sempre: i quarantacinque bersaglieri che arrivarono in paese dopo gli omicidi del giorno prima, si presentarono sventolando fazzoletti bianchi, in segno di pace, ma furono ugualmente massacrati  (e in modo particolarmente efferato). Un 
video con questa canzone è stato caricato su youtube nel 2007 –quindi non ieri-  proprio dall’Associazione Due Sicilie. Non solo: un’altra canzone, Sciopero , sempre nello stesso LP, rievoca la repressione dello sciopero del 1863, ad opera di soldati italiani chiamati dal direttore degli stabilimenti di Pietrarsa  (uno dei pochissimi siti industriali di eccellenza a Napoli), ma per motivi ben diversi, e analoghi a quelli delle tante centinaia di scioperi che si sono verificati in Italia nel periodo liberale  (e che venivano duramente repressi dalle truppe, fino a quando Giolitti non decise di cambiare metodo), con un numero di vittime spesso superiore a quello dell’officina di Portici, cinque).  Qui  il testo scritto della canzone su Pontelandolfo.  Mi sembra inutile ricordare che una canzone ha un impatto, in molte memorie individuali, e in particolare sugli studenti, assai più incisivo di un manuale scolastico. Centinaia di migliaia di allievi italiani hanno ascoltato quella canzone, molti di loro l’hanno imparata a memoria, e non sembra azzardato affermare che da ciò sia nato il legittimo desiderio di conoscere meglio l’episodio.  E stiamo parlando dei primi Anni Settanta, quando molti revisionisti non erano ancora nati.  Per non citare poi la novella Libertà, di Giovanni Verga, che continua ad essere letta in tutte le scuole italiane da decenni e decenni e che ha ispirato il film Bronte. Cronaca di un massacro., trasmesso in TV più volte e che si può tranquillamente vedere gratis sul web.  La pellicola, del 1972, è stata successivamente restaurata e negli ultimi tempi ha riavuto un’ulteriore fortuna.  (La novella e il film, comunque, si prestano anche a una dura condanna delle condizioni contadine sotto i Borbone.).  Nessuna censura, nessun oblio.  Come si fa, quindi, a ripetere, come un disco inceppato, che fino a pochi anni fa nessuno conosceva questi fatti ?  Un’ultima annotazione. Quando sopra ho scritto che sull’episodio di Pontelandolfo ci sarebbe da scrivere a lungo, mi riferivo anche a quello che ha detto Arrigo Petacco durante il Festival di Storia del 24-6 maggio 2013 già citato, circa lo scempio che i briganti (o presunti tali, aggiungerei io)  facevano dei corpi dei bersaglieri uccisi.  È un’affermazione importante, perché, al di là dell’ovvia, doverosa, pesante e irrevocabile condanna per il comportamento bestiale di Negri  (che tra l’altro sembra che abbia costretto alcuni dei suoi uomini a commettere le atrocità minacciandoli di farli fucilare), certe reazioni vanno inquadrate in un contesto ben definito, con tutti i tasselli al loro posto  (come hanno fatto, appunto, gli “Stormy Six”).   Altrimenti, si fa soltanto propaganda.



18  Si pensi soltanto alla vicenda dell’assassinio di Lincoln, per limitarci ad un caso coevo. John Booth, ufficialmente ucciso dai soldati dell’Unitone poco tempo dopo l’omicidio, secondo altri, invece, sarebbe partito per  l’India, dove sarebbe rimasto fino agli Anni Settanta dell’Ottocento, quando cioè sarebbe passato a miglior vita per cause naturali.  

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“Nell’Italia di oggi, almeno quando si parla del passato, le menzogne  più grossolane si trasformano facilmente in verità per tanta gente in buona fede.” (Alessandro Barbero, dall’introduzione.)

[…] uno dei nostri problemi è la scarsa comunicazione tra la ricerca scientifica e l’opinione pubblica: per me è vitale che la gente non ascolti solo una campana,  e soprattutto si abitui a verificare la credibilità e la scientificità di quel che le viene raccontato. (Alessandro Barbero).

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1. In un articolo apparso sulla “Stampa” il 21-10-12  (Ma Fenestrelle non fu come Auschwitz), lei ricostruisce la genesi del libro, facendola partire da una mostra documentaria sui 150 anni dell’Unità.  Possiamo descrivere brevemente le tappe di questa idea e in quanto tempo l’ha realizzata ? E inoltre: considerato che il corpus principale delle sue ricerche e delle sue pubblicazioni riguarda la storia medievale, con qualche incursione nella storia moderna  (Federico Il Grande, LepantoWaterloo), che cosa l’ha spinta ad occuparsi  di un argomento che fa parte sì della storia moderna, ma di una storia moderna che a quanto pare non è ancora ben metabolizzata  (quantomeno in certi ambienti di nostalgici)  e  i cui segni   -non sempre pacifici e colloquiali-  si ritrovano nella realtà quotidiana ?   Il fatto di voler smentire certe affermazioni molto impegnative di giornalisti e storici meridionali secondo cui a Fenestrelle, così come in altre fortezze del Nord, siano stati deportati  -e in gran parte trucidati o lasciati perire a causa delle malattie e degli stenti-   decine di migliaia  (se non addirittura centinaia di migliaia) di prigionieri borbonici ?  La volontà  (o l’intenzione)  di dimostrare l’inconsistenza e la falsità della tesi secondo cui il Sud sarebbe stato trattato  (quantomeno tra il 1860 e il 1865)  come terra di conquista dalle truppe con la bandiera dei Savoia  (che comunque non erano soltanto piemontesi, come continuano a ripetere alcuni revisionisti, dimenticando che nelle Forze Armate del Regno d’Italia confluirono interi reggimenti degli eserciti pre-unitari )  ?

Il motivo per cui ho fatto questa ricerca e scritto questo libro è molto semplice. In occasione dei 150 anni, e della mostra di cui sopra, ho scoperto quanto fosse diffusa la tesi del genocidio di Fenestrelle, di cui prima non avevo mai sentito parlare. Avendo accennato in televisione al documento che mi aveva colpito in mostra (e cioè la condanna, da parte di un tribunale civile, di alcuni soldati di origine meridionale che nel 1862 si trovavano a Fenestrelle, e che "per diritto di camorra" avevano preteso il pizzo dai compagni che giocavano a soldi) ho ricevuto una valanga di insulti da sconosciuti, che mi accusavano di infangare la memoria dei martiri. Ho risposto a tutti, e con alcuni ho avviato un dialogo. A questo punto mi sono reso conto che, per quanto improbabile mi potesse sembrare la storia dello sterminio di Fenestrelle, in realtà non sapevo nulla di cos'era davvero accaduto; non potevo quindi discuterne nel merito. Allora ho deciso di fare il mio mestiere, cioè di studiare l'argomento sulle fonti, e di accertare cos'era successo davvero. Il fatto che questo comportasse uno sforamento, diciamo così, dal mio terreno di competenza istituzionale, che è la storia medievale, non mi ha preoccupato: credo che quasi tutti i miei colleghi siano d'accordo che le grandi partizioni della storia sono del tutto artificiali, e che se ciascuno di noi è obbligato per ragioni istituzionali  (di concorsi, cattedre e carriere)  a specializzarsi in un periodo, questo non significa affatto che non possa costruirsi una competenza sufficiente per esplorare anche periodi diversi. In questo caso, poi, si trattava di studiare comunque un tema di storia militare, un ambito in cui lavoro da molto tempo anche al di fuori del periodo medievale.



2.  Ha incontrato difficoltà nel reperimento del materiale, in particolare per quanto riguarda l’accesso a documentazione  ancora non catalogata  ?  E inoltre: ritiene che il funzionamento degli archivi storici italiani  (almeno di quelli a cui lei si è rivolto per le sue ricerche) corrisponda alle aspettative degli studiosi  (per esempio: orari di apertura delle sedi; riproducibilità dei documenti; organizzazione e assistenza da parte di personale qualificato)  o non abbia bisogno  di qualche ritocco, in particolare sotto il profilo del potenziamento dell’organico ?   


Chi studia la documentazione del XIX e XX secolo sa che l'enorme quantità di documenti conservati e la loro catalogazione solo parziale costituiscono il principale ostacolo alla ricerca. Proprio per questo, però, qualunque ricerca riguardante questi periodi non si propone mai – diversamente, ad esempio, da una ricerca di storia antica o medievale – di reperire tutti i documenti che possono riguardare l'argomento: è sufficiente individuare e analizzare a fondo i nuclei documentari più corposi. Siccome questa è una faccenda su cui c'è molta confusione  (il Professor Gennaro De Crescenzo mi ha accusato di aver visto solo il 2% della documentazione disponibile!, e c'è chi gli crede, non sapendo nulla di come si fa ricerca in archivio), vorrei precisare ancor meglio. Se io volessi studiare, supponiamo, la battaglia di Custoza, ebbene, i ruolini reggimentali mi permetterebbero, con un lavoro di molti anni, di trascrivere nomi e dati anagrafici di tutte le decine di migliaia di soldati che parteciparono alla battaglia. Ma avrebbe senso farlo? Accumulare dati del genere è sostanzialmente irrilevante per ricostruire e raccontare la battaglia, e perciò nessuno storico che voglia scrivere un libro su Custoza spenderebbe un grosso pezzo della sua vita per trascrivere tutti quei dati; il che non esclude che invece un sondaggio a campione per verificare, in un reggimento qualunque, quanti erano i soldati, la loro età media, se erano analfabeti o no, ecc. ecc., possa arricchire la ricerca. Ma se invece in archivio c'è un fondo che si intitola "Custoza. Relazioni dei comandanti di reggimento", è ovvio che quel fondo va analizzato con moltissima attenzione, documento per documento. Allo stesso modo, una ricerca sui prigionieri napoletani nel 1860-61, a Fenestrelle e altrove, implica che si vedano a tappeto e molto dettagliatamente tutti quei fondi dal cui titolo emerge chiaramente che contengono documenti sull'argomento (fondi che si chiamano "Prigionieri napolitani", "Capitolati di Gaeta", ecc. ecc.); da qui la ricerca si può allargare a quei fondi di cui si sospetta che possano contenere notizie interessanti. Qui è a discrezione dell'autore decidere dove fermarsi: ad esempio io ho deciso di analizzare le annate dal 1860 al 1862 delle sentenze del tribunale militare di Torino, e delle corti d'assise e d'appello di Torino, e ne ho ricavato una serie di dati statistici: tanti processi per diserzione, tante assoluzioni, tante condanne ecc. . È chiaro che se avessi deciso di analizzare anche il tribunale di Alessandria, quello di Novara, quello di Milano, ecc. ecc., avrei ottenuto altre serie statistiche confrontabili con la prima, ma questo è un lavoro che avrebbe avuto senso in vista di un libro specificamente dedicato alla giustizia militare o alla delinquenza dei militari, mentre per un singolo capitolo dedicato a questi temi, all'interno di un libro dall'orizzonte più ampio, ogni storico si accontenta di una campionatura. In  questo senso, senza dubbio ci sono ancora negli archivi dei fondi, dai titoli generici (che so: "Direzione generale dell'arma di fanteria. Segreteria del direttore. 1860-1865"), da cui potrebbero emergere altri documenti interessanti per l'argomento. La ricerca potrebbe tranquillamente proseguire per decenni, col rischio, magari, che da interi fondi archivistici e da mesi e mesi di lavoro a volte non salti fuori neppure un documento utile. In questi casi una precisa regola del nostro mestiere è che ci si ferma nel momento in cui la documentazione già accumulata permette di ricostruire molto ampiamente e dettagliatamente ciò che è avvenuto, per cui i nuovi documenti eventualmente aggiungibili non modificherebbero il quadro d'insieme, ma solo i dettagli. Tutti gli storici sanno che è così che si lavora: arrivati a un certo punto, quando si è convinti di avere accumulato materiale sufficiente per ricostruire i fatti, ci si ferma e si smette di aggiungere particolari poco rilevanti, e si pubblica quello che si è trovato fino a quel momento, per renderlo disponibile alla comunità. Anche perché siamo pagati dallo Stato per fare ricerca e il nostro preciso dovere è di pubblicare nell'arco di una vita lavorativa un certo numero di libri e articoli con i risultati delle nostre ricerche, e non possiamo prenderci il lusso di dedicare l'intera vita a una sola ricerca, e magari non pubblicarne mai i risultati.
Dopodiché aggiungerei che il personale degli archivi di stato italiani è in genere qualificatissimo e appassionato del suo lavoro, e offre la massima assistenza; ovviamente è troppo poco numeroso rispetto a quel che si potrebbe desiderare. Altri archivi, ad esempio l'eccellente archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito a Roma, sono inutilmente punitivi dal punto di vista dell'accessibilità della sala (occorre prenotarsi!), e del numero di fascicoli consultabili in una giornata. Punto dolente comune a tutti è invece la mancanza di regole chiare circa la possibilità di fotografare per conto proprio i documenti nel momento stesso in cui li si consulta: la tecnologia digitale permette di farlo con risultati eccellenti, senza dare fastidio a nessuno e senza danneggiare in alcun modo i documenti, e questo potrebbe rappresentare una straordinaria rivoluzione nel nostro lavoro, con immensi vantaggi di sveltimento dei tempi di lavoro. Ma con poche, lodevolissime eccezioni, nei nostri archivi tendono a prevalere un approccio burocratico  (occorre fare richiesta, passare attraverso fotografi autorizzati, ecc. ecc.)  e una diffidenza per le tecnologie moderne che rendono inutilmente difficile il lavoro dei ricercatori, abbassandone la produttività, e producendo quindi un danno alla collettività.



3. Nel corso delle ricerche per la realizzazione del libro, si è imbattuto in documenti falsi e comunque non sufficientemente attendibili ?

Documenti in senso stretto, no. La documentazione d'archivio che ho utilizzato è composta sostanzialmente da corrispondenza interna, specchi e relazioni e circolari e prospetti ministeriali, tutta roba prodotta dalla burocrazia militare a fini di funzionamento ordinario e dove è improbabile che s'infilino documenti falsi. Chiaro, poi, che se il furiere dichiara di aver distribuito cento paia di scarpe, e invece ne ha imboscate una parte, be', questo è sempre capitato e bisogna tenerne conto: in tutto ciò che riguarda il rancio, il vestiario e altre forniture militari bisogna essere molto prudenti prima di credere che la realtà corrisponda ai documenti, non solo nel 1860 ma, temo, anche oggi! Se parliamo invece di fonti in senso più ampio, io ho utilizzato la stampa dell'epoca, e quando si usa una fonte come quella, è chiaro che bisogna essere preparati all'inattendibilità: gli articoli di giornale possono essere usati solo in modo limitato per ricostruire i fatti, sono invece interessantissimi per studiare le opinioni e la propaganda (una lezione non sempre ricordata dai neoborbonici che hanno basato la leggenda dei maltrattamenti a Fenestrelle esclusivamente su uno o due articoli di giornali di parte, oggi ripetuti all'infinito in innumerevoli siti).


4.  Qual è stata la recensione che considera più pertinente rispetto al contenuto del libro, e quale, invece, quella che giudica meno appropriata ?  (Mi riferisco ovviamente a recensioni che rispettano, quantomeno, le più elementari regole del vivere civile, senza ricorrere a insulti, a ingiurie e a falsità.)

Non ho ancora veduto recensioni accademiche, le uniche veramente importanti. Le recensioni sui giornali sono gratificanti sul momento, ma lasciano il tempo che trovano e si dimenticano subito. Andando a rivederle, ne trovo comunque una particolarmente buona di Valerio Castronovo sul Sole 24 Ore, e una invece molto discutibile di Gigi Di Fiore sul Mattino; Di Fiore è persona civile e simpatica con cui ho poi avuto un piacevole dibattito pubblico a Torino, ma la recensione era sgradevole, basata sul partito preso e non su quello che ho scritto e dimostrato nel libro, e conteneva accuse false e fuorvianti (cosa che posso dimostrare citando testualmente i passi in questione, se a qualcuno mai dovesse interessare).


5. Qual è stata la presentazione del volume che ritiene più gratificante, soprattutto per l’attenzione mostrata dal pubblico e per la qualità delle domande che le sono state rivolte ?

Quella che ho fatto in una scuola superiore pugliese, in un'aula magna strapiena di studenti, seguita da una raffica di domande serie e appassionate; ricorderò sempre quella di una studentessa che ha preso il microfono e molto civilmente mi ha chiesto: "Perché dovremmo crederle?". Ho visto qualche insegnante trasalire, come se fosse stata una scortesia; invece era una domanda bellissima, la più giusta in quelle circostanze, e risponderle è stato estremamente costruttivo anche per me.


6. Ci sono state presentazioni nelle scuole superiori ?  E inoltre: le risulta che il libro sia stato già acquistato da alcune biblioteche scolastiche ?

Vedi sopra; degli acquisti non so.


7.  In alcuni ambienti di nostalgici, la sua opera ha suscitato un vespaio di polemiche   -talvolta strumentali e capziose e in parte ingigantite dai media-,  polemiche che non accennano a placarsi.  Basti pensare ai numerosissimi interventi apparsi sul portale della Laterza. Si aspettava una reazione così  “furibonda”, come la definisce giustamente lei,  al suo libro ?   Alcune di queste critiche sono scomposte e rabbiose: offese e attacchi personali di una virulenza inaudita, con metodi francamente deplorevoli, come quello di usare immagini di deportati ebrei nei lager nazisti  (salvo poi negare la Shoah), spacciandoli per prigionieri di Fenestrelle.  Le critiche indecorose sono state compensate però da giudizi lusinghieri degli storici neutrali e comunque non di parte.  Possiamo ricostruire i punti principali di questa discordia  e cercare di chiarire per quale motivo si tratta di polemiche che, a ben vedere, non hanno ragion d’essere e sembrano condizionate da forti sentimenti regionalistici ?  E preliminarmente: possiamo chiarire il significato di quel termine  “congiura” , che compare nel sottotitolo ?   

Sì, mi aspettavo una reazione furibonda, non perché il libro volesse essere provocatorio, ma perché so per esperienza diretta che basta sfiorare questi argomenti dissociandosi anche solo un poco dal coro neoborbonico per attirarsi violentissimi insulti; è capitato a me come ad altri studiosi, ad esempio la ricercatrice napoletana Antonella Orefice.
La "congiura di Fenestrelle" del titolo in realtà è un episodio storico. E' l'idea bislacca di un gruppo di soldati del Regio esercito italiano, di origine meridionale, in parte ex-soldati dell'esercito delle Due Sicilie, che erano stati trasferiti per punizione disciplinare al reparto dei Cacciatori Franchi di stanza a Fenestrelle. Costoro chiacchierando fra loro formularono l'ipotesi di impadronirsi del forte coll'aiuto dei nuovi coscritti meridionali, ex briganti ed ex sbandati, che erano appena arrivati a Fenestrelle (siamo nell'agosto 1861) per ricevere la prima istruzione. La scoperta del "complotto" fece molto rumore sui giornali, per qualche giorno; dieci fra sottufficiali e soldati vennero processati colla gravissima imputazione di attentato alla sicurezza dello stato, e pochi mesi dopo furono tutti assolti perché il fatto non sussisteva. Su numerosi siti internet la congiura è ricordata con aggiunta di particolari fantastici, punizioni tremende, fucilazioni e palle al piede, tutti dettagli totalmente inventati.



8.  Il suo libro è uscito pochi mesi dopo quello di Bossuto-Costanzo, Le catene dei Savoia, che peraltro reca una sua prefazione.  Quali sono le differenze più rilevanti tra questo testo e la sua opera ?  Vogliamo disegnare una breve scheda sui reclusi di Fenestrelle, in gran parte prigionieri borbonici dopo la presa di Gaeta, di Capua, di Messina e di Civitella del Tronto ?  Quanti erano esattamente ?   Quanti di loro erano napoletani e quanti,  invece, appartenevano ad altre regioni del Sud  ?  Qual era l’età media ? Erano tutti di leva, o si trovavano anche dei volontari ? Quanti di loro accettarono di entrare nel nuovo esercito italiano  e quanti, invece, si rifiutarono ?  Quanti non uscirono vivi da quella fortezza ?  Bossuto-Costanzo indicano una cifra attorno ai 40.  Lei è più ottimista, abbassando di molto il numero.

Il libro di Bossuto e Costanzo è una ricerca, tratta da una tesi di laurea, sul sistema penale dello stato sabaudo nel Sette-Ottocento, che contiene anche un capitolo, molto interessante, sul ruolo di Fenestrelle come luogo di reclusione, bagno penale e caserma. Il mio è un lavoro diverso, interamente dedicato al trattamento dei prigionieri di guerra napoletani durante la guerra del 1860-61, e alla successiva incorporazione nell'esercito italiano degli ex-soldati del regno delle Due Sicilie.
I meridionali detenuti come prigionieri di guerra a Fenestrelle sono stati esattamente 1186, e vi sono rimasti circa tre settimane nel novembre 1860 (va sottolineato che Fenestrelle era solo uno dei luoghi di detenzione: circa 8000 prigionieri di guerra vennero trasferiti al Nord e distribuiti fra Genova, Milano, Bergamo e Alessandria; almeno altrettanti vennero detenuti in campi allestiti al Sud). Erano soldati e sottufficiali, non ufficiali; non ho fatto analisi statistiche sulla loro origine e sull'età, ma erano militari di leva e provenivano da tutte le province del Regno delle Due Sicilie (con l'eccezione della Sicilia che era esente dalla coscrizione obbligatoria e da cui provenivano quindi soltanto pochi volontari). In media erano giovani, in maggioranza provenienti dalle classi reclutate negli ultimi anni, anche se c'era qualche sottufficiale di carriera più anziano. Durante la prigionia quasi nessuno accettò di arruolarsi volontario nell'esercito italiano; dopo l'annessione delle Due Sicilie, invece, nel dicembre 1860, cessarono di essere prigionieri di guerra e divennero sudditi italiani, e  a quel punto quelli delle classi più anziane vennero rimandati a casa in congedo, mentre quelli delle classi più giovani vennero obbligati a continuare la ferma nell'esercito italiano. Essendo obbligati dalla forza dello stato, quasi tutti si rassegnarono, anche se il tasso di diserzioni fu poi piuttosto alto; pochissimi i casi noti di "duri" che rifiutarono il servizio e finirono in galera, poi amnistiati dopo circa un anno.
Quanto ai soldati meridionali morti a Fenestrelle, solo la confusione che regna sull'argomento e che i siti neoborbonici intrattengono volutamente può far credere che esistano tesi divergenti; in realtà i dati sono lì e sono chiarissimi, basta essere chiari nello spiegarli. Dei 1186 prigionieri di guerra transitati nel novembre 1860, cinque in tutto morirono all'ospedale di Fenestrelle, e sono registrati dal parroco come "prigionieri di guerra napoletani". Dopo la partenza di questo contingente, a Fenestrelle non ci sono più stati prigionieri di guerra. Ci sono però passati moltissimi altri ex soldati napoletani: gli ex briganti ed ex sbandati di cui parlavo prima, che si sono consegnati volontariamente o sono stati rastrellati nell'estate 1861, per obbligarli a terminare nell'esercito italiano il loro servizio militare, e di cui un certo numero, a contingenti di circa 250 per volta, ha trascorso a Fenestrelle le prime settimane, per ricevervi il primo addestramento e, senza dubbio, anche abituarsi a una dura disciplina. Questo è un fenomeno della sola estate 1861; ma anche in seguito continuiamo a trovare soldati meridionali a Fenestrelle, come in qualunque caserma dell'esercito italiano. Il forte era sede del reparto di punizione dell'esercito, i Cacciatori Franchi; lì si trovavano, trasferiti in via disciplinare, molte centinaia di soldati, ovviamente sia meridionali sia settentrionali. Ecco perché anche nel 1861, nel 1862, nel 1863 e così via capitava che nell'ospedale di Fenestrelle morissero dei soldati, regolarmente registrati dal parroco come "soldati dei cacciatori franchi" e non più, ovviamente, come "prigionieri di guerra". L'operazione compiuta dai "ricercatori" neoborbonici che hanno visto il libro delle sepolture della parrocchia di Fenestrelle è consistita nell'estrapolare i nomi meridionali (o quelli che sembravano meridionali, con buffi errori che ho segnalato nel mio libro) e nel presentarli tutti come prigionieri vittime dei piemontesi (i nomi di quei disgraziati soldati piemontesi, lombardi o toscani che finivano in punizione a Fenestrelle e magari vi morivano di malattia, invece, non sono stati degnati di nessuna attenzione). Ecco perché sono vere entrambe le stime: cinque prigionieri di guerra napoletani sono morti a Fenestrelle nel 1860, mentre sommando tutti i soldati italiani, di origine meridionale, che sono morti lì negli anni seguenti si arriva a quaranta o cinquanta. Va da sé che quest'ultima operazione è storiograficamente assurda: in qualunque ospedale militare italiano si potrebbero trovare dei nomi di soldati meridionali morti lì, nel 1865 come nel 1975 (anche se nell'Ottocento si moriva molto di più, in caserma come in ospedale !), e distinguerli dai loro compagni non meridionali è un'operazione che non si capisce bene che senso possa avere.


9.  A costo di sembrare ripetitivi, torniamo sulle cifre, perché giocano un ruolo centrale in questa vicenda. Soprattutto: quanti furono i soldati borbonici catturati dai ‘piemontesi’ ?  Quanti di loro accettarono di entrare a far parte del nuovo esercito italiano ?  E quanti, invece, si rifiutarono di aderire ?  E inoltre: nei confronti di questi ultimi, a parte Fenestrelle, furono adottati provvedimenti detentivi particolarmente severi ?  Infine: è possibile calcolare il numero di prigionieri borbonici deceduti durante la detenzione nelle carceri o nelle fortezze sabaude quantomeno nel periodo 1861-5 ?  Il portale  “Cronologia”  sostiene che le vittime della repressione piemontese furono addirittura un milione.  D’altra parte, sul sito www.duesicilie.org si fornisce un elenco di deceduti napoletani a Fenestrelle dal 1860 al 1865, per un totale di 51 nomi. È vero che si chiarisce che la lista non è definitiva, però mi sembra che tra una cinquantina di vittime e un milione di massacrati ci sia una bella differenza.

A questa domanda ho già risposto in gran parte nella risposta precedente. Il numero esatto di prigionieri di guerra napoletani morti in prigionia (e dunque fra l'ottobre 1860, quando l'esercito sabaudo invase il regno delle Due Sicilie, e il febbraio-marzo 1861, quando con la resa di Gaeta e la proclamazione del regno d'Italia nessuno degli ex-soldati napoletani fu più considerato prigioniero di guerra) è noto finora solo per il contingente transitato a Fenestrelle; il totale potrebbe essere calcolato con ulteriori ricerche, in particolare per quanto riguarda quelli detenuti al Sud, di cui esistono moltissimi registri, che io non ho sottoposto ad analisi statistica. Non c'è dubbio che ne morirono parecchi, in particolare fra gli uomini della guarnigione di Gaeta che al momento della resa erano già in preda a un'epidemia di tifo. Quello che va chiarito è che il trattamento riservato dai comandi dell'esercito italiano a questi prigionieri fu lo stesso che le convenzioni internazionali prevedevano ovunque per i prigionieri di guerra; che i prigionieri ricevevano un soldo, lo stesso rancio e le stesse cure dei soldati italiani (e cioè, va da sé, soldo misero, rancio scadente e cure mediche approssimative), che non c'era la minima intenzione di sterminarli e che la mortalità fu, per quanto si può giudicare, la stessa che sempre si aveva all'epoca  (e anche dopo) nei campi di prigionia. Si tenga presente in proposito che i campi allestiti al sud erano interamente sotto il comando e l'amministrazione di ufficiali dell'esercito delle Due Sicilie, anch'essi prigionieri di guerra.
Quanto al milione di morti che certi siti attribuiscono alla repressione (ma s'intende ovviamente l'intera vicenda della lotta al brigantaggio, durata un decennio), la cosa sconvolgente è la facilità con cui qualcuno inventa fregnacce e con cui altri ci credono e le ripetono. Basta pensare che l'intero regno delle Due Sicilie aveva nel 1860 circa 9 milioni di abitanti, di cui 6.500.000 nel continente (la Sicilia non conobbe il fenomeno del brigantaggio politico e la conseguente sanguinosa repressione), per cui un milione di morti significherebbe una percentuale peggiore di quella della Polonia nella seconda guerra mondiale !  Ad ogni modo, se qualcuno volesse interessarsi seriamente a questi problemi anziché fare propaganda, basterebbe andare a vedere i censimenti del 1861 e del 1871, in cui è indicata la popolazione residente in ogni singolo comune, e fare i conti; ma qui la verità, è chiaro, non interessa a nessuno. Io ho fatto un primo controllo: L'Italia meridionale senza la Sicilia ha 6.614.000 abitanti nel 1861, saliti a 6.983.000 nel 1871, con una crescita del +5,4%: e questo sarebbe il decennio del milione di morti...


10.  Sempre sulle cifre, per il motivo che ho esposto sopra.  I suoi avversari, se ho capito bene, sostengono che furono almeno 50.000 i soldati borbonici catturati dai ‘piemontesi’ a seguito delle battaglie tra i due eserciti; che molti di questi militari si rifiutarono di aderire al nuovo esercito italiano e perciò vennero considerati traditori, con tutte le conseguenze che ne derivarono, prima fra tutte la deportazione al Nord, per eliminarli e comunque per ridurli in condizioni di servaggio. A questo punto, però, senza nulla togliere alla buona fede  dei revisionisti, vorrei osservare quanto segue:
a.  la maggior parte degli scontri che i borbonici sostennero nel 1860 non furono con l’esercito o la marina dei Savoia ma con i garibaldini  (valga, per tutte, la  battaglia del Volturno, che comunque, secondo alcuni storici, rappresentò l’unico, vero scontro di una certa entità sostenuto dai Mille) .  I piemontesi si limitarono per lo più alla presa di Capua, Gaeta, Messina, Civitella, a qualche conflitto con gruppi di irriducibili lealisti e soprattutto a rastrellare gli sbandati  e i prigionieri che Garibaldi aveva fatto (parecchie migliaia). Incidentalmente, il contributo piemontese potrebbe riscontrarsi anche nell’aver messo a disposizione  (ovviamente in gran segreto)  il denaro per corrompere alcuni alti gradi delle Forze Armate borboniche, tradimento che permise a Garibaldi di riuscire in un’impresa  (la liberazione del Sud, ma con dei limiti, visto che subito dopo si intensificò il brigantaggio, che però esisteva già)  che sarebbe stata altrimenti impossibile.
b.  L’affermazione secondo cui molte uniformi turchine si  rifiutarono di entrare nel nuovo esercito per tener fede al giuramento di fedeltà verso i Borboni, stona decisamente con quanto lo stesso Garibaldi ebbe a dichiarare più volte (è diventato famoso un suo duro  “J’accuse !” pronunciato in Parlamento)  circa il fatto che, mentre ai soldati di Francesco II si erano spalancate le porte del nuovo esercito italiano, dove erano confluiti in massa, ai suoi garibaldini era stato opposto un netto rifiuto (anche se poi ai garibaldini venne assicurato un vitalizio, sia pure modesto).  Inoltre, è in contraddizione con un’altra realtà: e cioè che, secondo diversi storici, il grosso dei soldati impiegati per reprimere il brigantaggio al Sud era costituito proprio da meridionali, cioè, ex militari borbonici.  Infine, sembrerebbe smentita anche dal fatto che alcuni dei carcerieri di Fenestrelle erano, pure loro, ex soldati borbonici.   Cosa può dire, al riguardo ? 

Anche qui, in gran parte ho già risposto, ma vediamo di riassumere e precisare. Calcolare il numero dei prigionieri di guerra catturati e trattenuti in prigionia dai piemontesi è il compito che mi sono dato in apertura del mio libro; non è facile essere precisi perché la documentazione è dispersa e conservata irregolarmente, soprattutto tenendo conto che il periodo di prigionia durò poche settimane o al massimo pochi mesi, ma si può dire approssimativamente che entro la fine del 1860 c'erano circa 8000 prigionieri portati al Nord e altrettanti trattenuti al Sud. A questo vanno aggiunti circa 11.000 capitolati a Gaeta nel febbraio 1861 e 4000 capitolati a Messina nel marzo 1861, per i quali la prigionia durò appena pochi giorni. In tutto, insomma, direi che a cadere prigionieri di guerra furono oltre 30.000 uomini dell'esercito delle Due Sicilie, un terzo del totale.
Quanto all'arruolamento di tutta questa gente (relativamente alle quattro classi più giovani: le quattro classi più anziane, ripetiamolo, vennero rimandate a casa in congedo) nell'esercito italiano, non è che ci sia bisogno di cercare le conferme chissà dove. L'Archivio di Stato di Torino contiene i libri matricolari di tutti i reparti del Regio esercito, centinaia di volumoni dove è registrato ogni singolo soldato, con tutti i dati anagrafici e le notizie sulla carriera; e lì a partire dalla fine del 1860 sono registrati, a centinaia per ogni reggimento, i nuovi soldati originari del Sud, all'inizio ex-soldati dell'esercito borbonico, e poi, via via, coscritti di leva regolarmente reclutati. Quindi non c'è nessun mistero e nessuna scoperta da fare: l'esercito italiano a partire dal 1861 è composto da gente reclutata in tutta Italia (cosa, del resto, così ovvia che stupisce doverlo precisare !), e lo stesso vale per i reparti impegnati nella lotta al brigantaggio.


11.   Un’accusa abbastanza ricorrente da parte dei revisionisti è quella secondo cui migliaia di prigionieri meridionali  -anche di Fenestrelle-  sarebbero stati squagliati nella calce viva. È possibile chiarire questa storia  (che in realtà rientra in un protocollo igienico-sanitario dell’epoca) ?

Al di là del fatto che tranne i pochi disgraziati morti all'ospedale e regolarmente registrati non ci sono stati altri morti a Fenestrelle, le guide del luogo raccontano che una certa vasca di pietra all'interno del forte serviva, in caso d'assedio, per ricoprire di calce viva i cadaveri dei morti, che per via appunto dell'assedio non era possibile seppellire nel cimitero del paese; li si ricopriva di calce viva non per scioglierli (qui c'è stata un'inconscia contaminazione con la pratica mafiosa di sciogliere i cadaveri nell'acido, ben nota all'odierno immaginario italiano: la calce viva non scioglie proprio niente) ma per evitare che la decomposizione provocasse un contagio. Vale la pena di sottolineare che questa storia, raccontata dalle guide ai turisti desiderosi di sensazioni forti, non è nemmeno davvero provata, e che in ogni caso si trattava di una predisposizione puramente teorica, perché il forte non è mai  stato assediato; le dimensioni della vasca, infine, sono tali da poter accogliere al massimo qualche cadavere.


12.  I suoi avversari hanno sostenuto più volte la tesi secondo cui il Regno delle Due Sicilie, alla vigilia dell’Unità, era più avanzato economicamente, finanziariamente (ingenti riserve auree),  tecnologicamente  (viene citata sempre la prima ferrovia italiana, quella Napoli-Portici,  per la verità di lunghezza assai modesta)  e militarmente di quello sabaudo.  Ora, a parte la marina militare borbonica, che effettivamente era considerata non solo la più forte della Penisola, ma più potente di tutte le altre marine militari italiane messe insieme, non mi sembra che l’esercito borbonico potesse vantare particolari meriti, tranne qualche unità speciale.  In definitiva, la vulnerabilità delle Forze Armate napoletane (e soprattutto dell’esercito) secondo alcuni, era determinata dal fatto che i suoi vertici erano nelle mani di una casta gerontocratica, incapace di tenere il passo con i tempi e di prendere decisioni rapide ed incisive. Inoltre, gli armamenti non erano certo gli ultimi modelli appena usciti dalle fabbriche.  La fortezza di Gaeta, ad esempio, disponeva di batterie risalenti al XVIII secolo. Per non parlare poi della corruzione  (che si manifestò in tutta la sua virulenza con l’impresa di Garibaldi).  Cosa si può dire, in proposito ?

Posso dire poco. Valutare la qualità militare dell'esercito borbonico non rientra fra gli scopi della mia ricerca. In generale è forse il caso di dire che visti dagli altri paesi europei, dove la guerra si faceva in modo veramente professionale, gli eserciti italiani di allora (e l'esercito italiano poi) sono sempre stati visti come piuttosto scadenti, e probabilmente non a torto. Quello piemontese era forse un po' meno peggio degli altri, per via di un più forte spirito di corpo fra gli ufficiali aristocratici, ma la cosa finisce lì. Vittorio Emanuele II affermò una volta che l'artiglieria napoletana era migliore di quella piemontese, e certamente i battaglioni di cacciatori che costituivano l'élite dell'esercito napoletano erano eccellenti; del resto i loro soldati vennero poi riversati in massa nei bersaglieri. Aggiungerei anzi che proprio la presenza in organico di così tanti battaglioni di cacciatori, cioè di fanteria leggera addestrata a forme di combattimento più individuali, indica una certa modernità dell'esercito napoletano: nell'esercito piemontese i bersaglieri, che sono l'esatto equivalente, erano stati introdotti da poco.
Quanto alla leggenda della prosperità economica e industriale del Regno delle Due Sicilie, è appunto una leggenda consolatoria; quello che stupisce e spaventa è vedere quanta gente è pronta a credere a frottole senza alcun fondamento, rimanendo impermeabile a ogni ragionamento e a ogni dimostrazione. Detto questo, sia chiaro che non bisogna immaginare semplicemente un Nord progredito e un Sud miserabile: l'Italia del 1861 era tutta povera e arretrata. L'industria italiana tutta insieme, in settori chiave come il siderurgico e il tessile, non produceva nemmeno l'1% dell'industria inglese! Le poche fabbriche esistenti, sia al Centro-Nord sia al Sud, erano isolate in questo panorama di complessiva arretratezza, erano per lo più sussidiate dallo stato e in mano a imprenditori stranieri: ecco perchè è fuorviante citare singoli stabilimenti, che sia Pietrarsa o Castellammare, come prove di uno sviluppo industriale che non esisteva affatto. Ma, ripeto, questa situazione era comune a tutta Italia e gli studi più approfonditi sostengono che il divario del PIL e della qualità della vita fra Nord e Sud era minore rispetto a oggi (il che, sia chiaro, non significa affatto che il Sud fosse più prospero, come si va favoleggiando: era nel complesso più povero del Nord, ma solo un poco più povero. E soprattutto, tanto al Sud quanto al Nord c'erano forti squilibri fra una zona e l'altra: il Napoletano, dove il governo borbonico aveva concentrato gli investimenti, era meno povero e stagnante di certe zone del Veneto).
C'era però un divario crescente da qualche anno in termini di infrastrutture: il regno delle Due Sicilie aveva costruito la prima ferrovia, ma nel 1860 aveva in tutto 100 km di ferrovie, il regno di Sardegna ne aveva 850; in Piemonte e Lombardia sapeva leggere e scrivere il 46% della popolazione, nel regno delle Due Sicilie appena il 13%; in Piemonte andavano alle elementari 361.000 bambini, in Sicilia 25.000 Sono disparità che dipendono esclusivamente dalle scelte politiche e dagli investimenti dei governi, e che contribuiscono a spiegare come mai più tardi il decollo industriale italiano abbia avuto luogo al Nord.


13.  Ammesso che il Regno delle Due Sicilie si fosse trovato in una situazione economica, finanziaria, tecnologica e militare più avanzata, non lo era certo sotto il profilo dei diritti umani, delle libertà civili e politiche  (per non parlare, come già citato sopra, della corruzione dilagante, come d’altronde si vide nel tradimento di alcuni generali, che si arresero a Garibaldi senza combattere).  Al riguardo, a parte quanto riferito dagli esuli duo-siciliani che si stabilirono nel Regno di Sardegna per fuggire dalle persecuzioni borboniche, sarebbe interessante, ad esempio, leggere i rapporti di alcuni ambasciatori stranieri (soprattutto inglesi, diretti al Foreign Office), in cui si disegnava quel Regno con tinte raccapriccianti. D'altronde, non si può certo dimenticare la dichiarazione di Gladstone (in realtà suggerita da Palmerston), secondo cui il Regno  delle Due Sicilie era   “la negazione di  Dio eretta a sistema di governo”. E in definitiva, che gli inglesi non fossero particolarmente teneri con i Borbone, emerse chiaramente quando Garibaldi si presentò davanti alle coste di Marsala e venne subito intercettato dalla marina borbonica, che avrebbe potuto tranquillamente spedire le sue navi in fondo al mare. Ciò non avvenne, com’è noto, proprio perché una squadra navale inglese si parò tra le navi di Garibaldi e quelle borboniche, impedendo a queste ultime di sparare quelle bordate che avrebbero distrutto in pochi minuti il naviglio garibaldino.  È singolare che i suoi avversari non accennino mai alla profonda disistima degli inglesi verso i Borbone, o al massimo si limitino ad osservare che l’ostilità britannica era  la conseguenza della  ‘questione degli zolfi’  (‘lo sgarbo’ di Ferdinando II avrebbe irritato a tal punto gli inglesi che questi ultimi  ‘se la sarebbero legata al dito’).  A parte il problema delle libertà civili e politiche, è possibile che in questa ostilità sia entrata in gioco la tradizionale volontà britannica di mantenere il predominio sui mari, un predominio che minacciava di essere insidiato, nel Mediterraneo, dalla marina borbonica ?  (Gli inglesi, in passato, avevano addirittura occupato l’isola Ferdinandea, prima che si inabissasse, e non nascondevano le loro mire per la Sicilia.)

Anche su questo non so molto e non voglio parlare di cose che non conosco. Farei solo notare che dobbiamo evitare di guardare le cose col solito occhio provinciale e italocentrico. L'Inghilterra governava il mondo, si preoccupava dell'India, della Cina, del rischio di guerra civile negli Stati Uniti, e quello stagno arretrato che era diventato il Mediterraneo era l'ultima delle sue preoccupazioni. Dopodiché, dato che tenevano d'occhio tutto, tenevano d'occhio anche l'Italia; Cavour, come dimostra la sua corrispondenza, viveva nel terrore che il governo inglese decidesse di dare l'altolà al processo di unificazione italiana, il che suggerisce che i giochi non erano ancora fatti. Io aggiungerei che il governo inglese doveva tenere conto di un'opinione pubblica liberale, progressista, che guardava con simpatia a Garibaldi e con avversione ai Borboni, e credo che la necessità di non urtare l'opinione pubblica abbia indotto il governo inglese a non ostacolare, e forse anche a favorire, l'impresa garibaldina, assai più che non la preoccupazione per lo zolfo o il Marsala.


14.  Secondo lei, questa alzata di scudi a difesa di un presunto regno dell’utopia  (quello delle Due Sicilie)  va inquadrata come risposta alle roboanti e sgangherate campagne leghiste contro il Sud fannullone e parassita del Nord, oppure ha un’altra origine e soprattutto un altro scopo ?

Io credo che il successo delle leggende consolatorie veicolate da libri come Terroni di Pino Aprile (con cui peraltro devo dire che ho avuto di recente uno scambio di vedute inaspettatamente cordiale) costituisca innanzitutto una reazione, in sé perfettamente comprensibile e anzi addirittura giustificata, alla cialtroneria e agli insulti leghisti. Peccato solo che questo scatto d'orgoglio sia stato indirizzato verso la mistificazione del passato, col risultato di creare una spaventosa ignoranza e confusione, e soprattutto di produrre rancore, razzismo e odio (non è una parola grossa: posso produrre certe lettere che ho ricevuto, grondanti odio razzista da ogni riga). Quanto agli scopi di chi alimenta questo movimento, io davo per scontato che costoro non potessero non vedere i risultati spaventosi della loro predicazione, e che quindi sapessero benissimo di lavorare per la disunità del paese e per accrescere l'ignoranza e la stupidità collettiva, disabituando alla riflessione critica e al confronto civile e argomentato: perciò nel mio libro ho parlato di "fini immondi". Risulta che molti, fra cui lo stesso Pino Aprile, si sono sentiti insultati, e ora non sono più così sicuro che siano tutti in malafede; in questo caso però la situazione mi sembra ancora più desolante, perché è spaventoso che si possano produrre danni così profondi e permanenti alla psicologia collettiva (e alla cultura storica) di questo paese, in buona fede e credendo di far bene!


15.  È  ragionevole supporre che in questa polemica  abbia giocato un qualche ruolo il fatto che lei sia piemontese ? Questa ipotesi sembra supportata già dalla seconda e-mail, quella del 12-10-12, che ha ricevuto sul libro  (la prima, dell’11-10-12   -lo stesso giorno, cioè, in cui il volume è apparso nelle librerie…-, era ancora più surreale, ma anche di una gravità inaudita :  “Questo libro é si una mistificazione !  E' come far scrivere la storia di Auschwitz a Goebbels”), e-mail riportata, assieme  ad altre, sul portale della Laterza, che recita : “Barbero è piemontese, tanto  basta per definire la sua ricerca un cumulo di menzogne.”.   A questa e-mail, tanto per precisare, è stato comunque risposto per le rime, per esempio il 18-10-2012  (“vale anche per te, oppure hai l'autocertificazione che  attesta che sei attendibile ?”)  e il 21-10-12   (“Tu dove hai trovato i documenti che parlano di "Prigionieri fatti sparire durante le trasferte, esecuzioni sommarie  senza   tribunali" ?  Dove sono conservati? Hai avuto accesso? O è "l'ho sentito dire da mio nonno che a sua volta l'ha sentito dire da mio cugino che..."? Documenti, fatti, prove, non teorie accampate qua e là. A me piace la storia e ancor più i documenti, la ricerca e le prove.”). Ma si potrebbero citare diversi altri messaggi diffamatori : “Essendo piemontese cerca di coprire, come fatto più di 150 anni fa dai suoi avi, la vera storia, infangando coloro che in questi anni hanno cercato di dare dignità alla memoria di uomini del Sud che hanno subito sopprusi e violenze inumane.”  (12-10-12). E ancora: Il Sud chiede vendetta per questi 152 anni di servaggio e di sfruttamento" (12-10-12).  Nell’immaginario collettivo, i piemontesi, quando parlano o scrivono di certi temi, non possono, per definizione, ritenersi una fonte neutrale. Analoga sorte è toccata,  ad esempio, a Bossuto-Costanzo e a Valerio Castronovo  (ma non a Del Boca, piemontese d.o.c. anche lui, forse perché autore di opere contro i Savoia e contro la ricostruzione tradizionale del Risorgimento).   Come spesso accade, i primi ad essere razzisti sono proprio coloro i quali tuonano contro il razzismo e accusano gli altri di praticarlo nei loro confronti.

È così e non c'è niente da aggiungere. Se mi prendo tanto a cuore questa faccenda è perchè oltre a propagare l'ignoranza del passato e disabituare alla discussione argomentata e motivata, la rilettura neoborbonica del Risorgimento produce razzismo bello e buono.
                                                                          

16.  Trovo piuttosto curioso il fatto che i suoi critici più accaniti, al di là dei deliri  (e degli insulti)   di cui parlo sopra  (per tacere delle minacce di querela), non abbiano mai accennato (naturalmente potrò anche sbagliarmi) al fatto che in molti manuali scolastici, per disegnare lo scenario post-unitario, si usi spesso il termine “piemontesizzazione”, con tutto quello che significa: numerazione  dinastica  (Vittorio Emanuele che continua a farsi chiamare II, anche quando diventa re d’Italia  -a differenza, per esempio, di quanto aveva fatto Giacomo VI  Steward, re di Scozia, diventato nel 1603, al momento di accettare la corona inglese, Giacomo I Stuart); computo delle legislature  (che continua quello dello Stato Sabaudo, a partire dalla prima del 1848); “Statuto Albertino”, che diventa sic et simpliciter, la proto-costituzione dell’intero Paese; capitale a Torino, 'con gran dispitto’  dei milanesi  (e non solo);  funzionari di Torino spediti in ogni punto del Paese per organizzare il nuovo stato;  assetto centralizzato di questo Stato, sul modello napoleonico, in spregio alle idee di Cattaneo e di altri pensatori federalisti. Visto che,  a quanto sembra  (ma potrò sbagliarmi, ripeto), una domanda del genere non le è mai stata posta, secondo lei, almeno alcune di queste forzature  (soprattutto la numerazione dinastica  e il conto delle legislature)  si potevano evitare ?  

Qui il discorso si sposta su tutt'altro terreno, di cui però i neoborbonici non sanno e non vogliono saper nulla. Dei limiti dell'unificazione si è sempre parlato; di Risorgimento incompiuto discuteva già Gramsci; la "piemontesizzazione" era deplorata a gran voce, in Parlamento e sui giornali, già nel 1861; la discussione se fosse o no possibile un'Italia diversa, federalista, è vecchia come l'unità. Ma ai pretesi revisionisti attuali non fa gioco ricordare tutto questo, perché non potrebbero più ripetere al loro pubblico "vi hanno sempre raccontato delle bugie, noi abbiamo scoperto per la prima volta che il Risorgimento era diverso da come lo raccontano i libri di storia". E forse anche perché leggendo gli atti parlamentari e i giornali dell'epoca si scoprirebbe che i deputati e l'opinione pubblica del Sud discutevano appassionatamente le modalità dell'unificazione, e denunciavano quando ce n'era occasione le brutalità dell'esercito impegnato contro il brigantaggio, in un clima di discussione totalmente libera; e però, chissà come mai, non accennavano mai a quella colonizzazione, a quell'esproprio e quello sterminio che secondo i neoborbonici stavano facendo del Sud terra bruciata (anzi, chiedevano e ottenevano continuamente stanziamenti per costruire ferrovie, strade, scuole...)                                      


17.  Il crollo dell’esercito borbonico fu causato in buona misura dal tradimento  (per denaro)  di una parte dei suoi vertici  -e comunque dalle assicurazioni che avevano avuto da Torino di un ‘segno di gratitudine’ se avessero deciso di rimanere inerti-.  Senza questo tradimento e senza queste assicurazioni, forse, Fenestrelle e altri luoghi di detenzione non sarebbero saliti alla ribalta, perché il risultato di ciò fu, tra l’altro, lo sbandamento di gran parte dei gradi ufficiali intermedi e soprattutto dell’enorme massa dei soldati semplici, che caddero facilmente nelle mani del nemico.  Possiamo dire qualcosa di più su questo tradimento ?  
                   
Leggendo la corrispondenza privata e segreta di Cavour, Cialdini, del re ecc., di questi tradimenti pagati non mi pare che si trovi traccia, il che indurrebbe a pensare che non abbiano poi avuto un ruolo così rilevante; anche se ovviamente non si può escludere che vi siano stati anche casi del genere. Forse però sarebbe il caso di menzionare un fatto un po' più importante, un fenomeno questo sì di massa e rilevantissimo, e di cui invece oggi si fa finta di non saper niente: il fatto cioè che buona parte (non però la totalità!) delle élite sociali e intellettuali del Mezzogiorno condividevano il sogno di un'Italia unita, comune allora a un'intera generazione di italiani; condividevano il disprezzo per il regime borbonico; e dunque hanno accolto con piacere l'arrivo di Garibaldi e soprattutto quello, tanto più rassicurante, di Vittorio Emanuele II. Gli ufficiali della marina e dell'esercito appartenevano anch'essi a questa élite e ne hanno condiviso gli schieramenti; questo sì che va tenuto presente se vogliamo capire quella gente com'era davvero, in base ai valori e alle priorità della loro epoca, e non reinventarceli come piace a noi.


18.  A dispetto di quanto affermano i suoi critici, a me non sembra che il suo punto di vista sul Risorgimento sia apoditticamente elogiativo, visto quanto si legge nell'introduzione, e che lei difetti di compartecipazione emotiva nei confronti dei vinti. A parte il suo giudizio impietoso sulla decisione della Provincia di Torino di proclamare, nel 1999,  "con beata incoscienza", proprio Fenestrelle suo monumento simbolo, basterà leggere quanto lei scrive all'inizio del libro;  "Questa dunque è la storia di ciò che accadde veramente a Fenestrelle, ma anche a Torino, a Napoli, a Milano, a Gaeta e in altri luoghi d'Italia, fra 1860 e 1861, quando l'esercito delle Due Sicilie venne sconfitto  in una guerra non dichiarata, i suoi uomini fatti prigionieri  o sbandati, e poi, in gran parte, trasportati al Nord per essere arruolati contro la loro volontà nell'esercito italiano" . [Corsivo mio.] "Guerra non dichiarata"  e "uomini...trasportati al nord per essere arruolati contro la loro volontà nell'esercito italiano".    Sembra quasi di sentire De Crescenzo.  Non solo: ma lei, nell'incontro dello scorso anno presso la libreria Laterza di Bari, ha precisato che se entrerà in possesso di ulteriore documentazione, proseguirà senz'altro lo studio dell'episodio. La considero una dichiarazione molto importane, perché credo che, a parte quei revisionisti che vogliono chiaramente demonizzare il Risorgimento, le tesi di coloro i quali esprimono il loro dissenso verso la ricostruzione ufficiale di quel periodo in modo pacato, composto e rispettoso dell'interlocutore, portando prove a sostegno delle loro tesi, debbano essere prese in considerazione.  Non trova ? 

Dissento solo in questo: che non esiste nessunissima "ricostruzione ufficiale" del Risorgimento. Fin dall'inizio ci sono stati studi di diverso valore, ora compiacenti, ora molto critici, pubblicazioni puramente celebrative e analisi impietose; ora, poi, è almeno dal 1945 che di pubblicazioni puramente celebrative non se ne fanno più e che la ricerca sul periodo dell'Unificazione è interamente in mano a studiosi che hanno voglia di capire, non certo di celebrare. Parlare di "ricostruzione ufficiale" è fuorviante, rischia di far credere ai tanti ignari che se una ricerca è fatta da un professore universitario debba per forza rispondere a certe direttive: anche qui, una mistificazione che non ha nessun rapporto con la realtà.


19.  Ha ragione. La formula “ricostruzione ufficiale” è impropria.  Mi riferivo alla prospettiva sostenuta da alcuni revisionisti e accettata anche da determinati politici e certi ambienti istituzionali, poco interessati a conoscere come si sono realmente svolti i fatti.  Ma torniamo alle domande. Vorrei insistere su un punto, su cui lei per la verità ha già fornito ampie spiegazioni.  Ed è questo:  per verificare se le tesi dei revisionisti più civili hanno un supporto scientifico, bisognerebbe porre a confronto le statistiche demografiche relative alla popolazione del Regno delle Due Sicilie prima e dopo l’unificazione.  Se da questo confronto risulta un netto calo dopo il 1861 e fino alla fine degli Anni Sessanta dell’Ottocento  (in assenza di altre cause: carestie, epidemie, emigrazione), allora si possono considerare più attentamente queste tesi.  Ma quando parlo di “netto calo", mi riferisco a cifre dell’ordine di centinaia e centinaia di migliaia di unità, se non addirittura di milioni.  Se questa curva demografica non c’è stata, allora siamo di fronte soltanto a propaganda. Potrei chiederle di tornare sull’argomento ?

Ribadisco quanto segnalato sopra: al 1861 la popolazione dell'Italia meridionale senza la Sicilia è di 6.614.000 abitanti, nel 1871 è salita a 6.983.000 (aumento del 5,4%). A onor del vero la Sicilia ha avuto una crescita ancor più marcata: da 2.409.000 a 2.590.000 (aumento del 7,3%). Il Piemonte nello stesso decennio aumenta del 6,0%. Va notato che nello stesso Mezzogiorno continentale la crescita varia da una regione all'altra: ben 7,6% in Puglia, solo 2,9% in Basilicata, 4,8% in Campania (certamente penalizzata dalla perdita della capitale). Occorrerebbe un'analisi molto sofisticata dei flussi migratori e della congiuntura economica per spiegare queste differenze, che comunque rientrano in un quadro complessivo di crescita e non sono minimamente compatibili con la fantasia di un forte calo demografico dovuto alla repressione del brigantaggio (che fra l'altro era particolarmente agguerrito proprio in Puglia, la regione del Sud col più alto tasso di crescita demografica nel decennio).

20. Il Presidente Napolitano, nel commentare le reazioni dei nostalgici alle commemorazioni del 2011, il 7-01-11, a Reggio Emilia, affermò  che  non si chiedeva  “un’ adesione acritica del Risorgimento”; “Quel che è giusto sollecitare, è un approccio non sterilmente  recriminatorio e sostanzialmente distruttivo”.    Condivide questa dichiarazione, che lascia spazio ad una rivisitazione, anche profonda e metodologicamente innovativa, del Risorgimento ?

Quel che ha detto Napolitano va benissimo, anche se, ancora una volta, è desolante l'abisso fra il mondo degli storici e quello del pubblico e della politica; e non solo, me lo lasci dire, per colpa degli storici. Gli storici italiani sanno da sempre che il Risorgimento va studiato in modo critico e non trasformato in un mito, e lo fanno da sempre; e basterebbe far la fatica di prendere in mano i loro libri (cioè il mezzo normale con cui gli storici comunicano le loro conoscenze) per rendersene conto. L'intera operazione "revisionista" si è mossa in un mondo di fantasia, evocando un nemico immaginario (la "storiografia ufficiale"). Bisogna però riconoscere che l'interesse per il regno borbonico preunitario e per le vicende del suo esercito nel 1860-61 era minimo fino a pochi anni fa ed è stato risvegliato da libri utili come quelli di Gigi Di Fiore; sotto questo aspetto il "revisionismo" ha prodotto novità interessanti.


21. In questa polemica, quelli che si sono sentiti più  ‘colpiti’  (gli unici ?) dal suo volume, sono  i napoletani, come se il Regno delle Due Sicilie si fosse limitato a comprendere la Campania e alcune aree circostanti.  A parte i siciliani, che non hanno mai dimostrato particolare simpatia per questo Regno e non mi sembra che abbiano preso posizione (attesa anche una discreta diffidenza reciproca tra le due popolazioni che credo duri ancora oggi),  ci sono stati interventi, da parte di altri uomini di cultura meridionali non napoletani ? Altrimenti, si ha l’impressione che alcuni circoli intellettuali della città partenopea, oltre ad  averne fatta una questione personale  (scoprendo un po’ l’acqua calda, a parte Di Fiore)  si siano presentati come gli unici portavoce del meridionali che sono stati penalizzati dall’unificazione, i difensori d’ufficio di popolazioni che, forse, potrebbero anche non essere particolarmente interessate al dibattito.  Oltretutto, con il dovuto rispetto per De Crescenzo, parlare di  “nazione napoletana”, come se si trattasse di un’entità composita, mi sembra un po’ eccessivo.  E i siciliani, allora, che cosa dovrebbero dire ?  Quegli stessi siciliani  -e questo i nostalgici non lo ricordano mai-  nei confronti dei quali i re borbonici precedenti a  Francesco II  hanno usato sistemi di repressione che, al confronto, Fenestrelle diventa quasi un luogo di cura  (d’altronde verosimile, visto che la tisi, cioè la malattia dell’epoca, si curava con lunghi soggiorni in località montane, certo, magari più accessibili e ospitali rispetto al complesso fortificato piemontese).  Basti pensare alla strage borbonica di Porto Empedocle  (114 reclusi trucidati barbaramente)  durante la rivolta siciliana del 1848, o ai civili inermi presi a cannonate nello stesso periodo, due dei tanti esempi relativi ai sistemi che nel Regno delle Due Sicilie si usavano per sedare le rivolte.  Per dirla tutta: quello dei siciliani per i Borbone era vero e proprio odio, come osservò  Mack Smith e non per nulla Garibaldi iniziò la sua avventura proprio dall’isola, sicuro di trovarvi quel sostegno alla sua impresa che sul continente sarebbe stato più difficile acquisire. 

È vero che apparentemente il movimento neoborbonico ha il suo centro a Napoli, ma io non l'ho studiato da un punto di vista sociologico e non ne so di più. Poiché quel che a me interessa è innanzitutto la storia, confermo che nel 1860 la Sicilia era ferocemente antiborbonica e che i soldati napoletani che si pretende siano stati massacrati a Fenestrelle vennero in realtà salvati a Messina dagli ufficiali piemontesi, i quali impedirono alla popolazione locale di massacrarli sul serio. Del resto nei primi decenni dopo l'Unità la Sicilia dette all'Italia una quota assolutamente sproporzionata di uomini politici e ministri, rispetto alle altre regioni del Sud, il che sembrerebbe dimostrare che le sue élite erano fin dall'inizio più integrate e più unitarie rispetto a quelle del Mezzogiorno continentale.


22.  In realtà, si ha l’impressione che i nostalgici  (con tutto il rispetto per le opinioni di quelli, tra di loro, che conoscono le regole di un dibattito civile), facciano un unico  fascio di situazioni e di episodi che meriterebbero ben altra collocazione.  Per dire:  non si possono mettere sullo stesso piano i soldati borbonici  ‘refrattari’  (coloro i quali, cioè, non volevano rinnegare il giuramento di fedeltà a Francesco II); i briganti  (bande di delinquenti agguerriti e pericolosi esistevano già prima dell’Unità); i renitenti alla leva (e il servizio militare obbligatorio allora durava almeno sette anni);  i disertori (soldati del nuovo esercito che per un motivo o per un altro avevano deciso di abbandonare le armi); e magari inserire in quest’elenco anche le centinaia di migliaia di emigranti che dalla fine dell’Ottocento fino agli Anni Sessanta del XX secolo si sono trasferiti dal Sud verso altri paesi o altri continenti.  Si ha l’impressione,  insomma, che i suoi critici ‘forsennati’  abbiano messo in uno stesso calderone elementi ben diversi tra loro: prigionieri di guerra tout court, soldati che non accettano di entrare nel nuovo esercito italiano, renitenti, insubordinati, briganti, criminali di vario genere, espatriati.

Certo che è così, non ho nulla da aggiungere. Se non il fatto che anche per quanto riguarda l'emigrazione i neoborbonici vedono solo quello che vogliono vedere: a partire dall'Unità e soprattutto dagli anni '70 e '80 del XIX secolo, caratterizzati da una grave crisi economica internazionale, gli emigranti sono partiti da tutta Italia e non certo solo dal Sud. L'emigrazione piemontese, per esempio, è forse oggi meno conosciuta dal grande pubblico perché non si è diretta verso gli Stati Uniti e le loro pittoresche Little Italies, ma verso  paesi poco di moda come l'Argentina e il Brasile: ma sta di fatto che gli emigranti dal Piemonte fra Otto e Novecento sono stati numerosi quanto quelli dalla Sicilia...   


23.  E direi che un’ illustre conferma viene proprio dai giorni nostri: l’attuale Pontefice, Bergoglio, oltre ad avere un cognome italiano, non ha forse origini astigiane ?  Anzi: i suoi parenti, che egli ha intenzione di andare a visitare nuovamente (c’era già stato nel 2005), vivono ancora in quei luoghi.  D’altronde, il Papa è sempre stato orgoglioso delle sue origini piemontesi, ricordandole per esempio nel libro-intervista del 2010.
 Parenti piemontesi di Papa Francesco.
Ma torniamo al dibattito sul sito della Laterza.   A un certo punto  (20-10-12), lei scrive:  “Dopodichè, ripeto, non si tratta qui di rincorrere miti consolatori, nè da una parte nè dall'altra: il Risorgimento è stata un'epoca estremamente complessa e traumatica nella storia di un paese di per sé  fazioso e arretrato com'è la nostra Italia, e di pagine nere non ne sono certo mancate.   [Corsivo mio.]   È nostro interesse di tutti, al Nord come al Sud, ragionarci su...” .  Resta comunque un fatto: e cioè che, a differenza di quanto lei stesso ha ricordato nel confronto alla libreria Laterza con De Gennaro lo scorso anno, mentre negli Stati Uniti, dopo una lunga e terribile guerra civile negli stessi anni in cui l’ Italia fu dilaniata da un analogo conflitto fratricida  -il brigantaggio-, ma con un numero di vittime ben più alto di questo  (almeno 600.000), esiste comunque un sentimento di memoria nazionale collettiva e condivisa, pur con tutte le differenze geopolitiche possibili  (e lei fa l’esempio della bandiera di alcuni stati del Sud esposta accanto a quella a stelle e strisce); esiste, vorrei aggiungere, l’orgoglio, di appartenere tutti ad un’unica, grande nazione;  a differenza di quanto è accaduto con la guerra civile del 1943-5, su cui ormai gli animi sembrano essersi ricomposti  (è diventata celebre la frase pronunciata qualche anno fa da L. Violante, il quale, riferendosi ai repubblichini, li definì  “fratelli che hanno sbagliato”);  quando  si parla della ‘conquista del Sud’, questo comune sentire troppe volte sembra assente e ancora difficile da raggiungere.  I particolarismi locali, i campanilismi, gli interessi settoriali continuano  a rappresentare un ostacolo per una riconciliazione, anche se forse il fenomeno è ingigantito dai media, per motivi meramente commerciali.  In definitiva: come mai, secondo lei,  esiste ancora tanta acredine nel dibattito sul Risorgimento, tanto desiderio di screditarlo e di considerarlo una delle pagine più buie della storia nazionale, una guerra di sterminio sistematico ai danni di un intero popolo ?  Non mi pare che ci sia storico, ormai, il quale non riconosca che il percorso dell’unificazione è costellato di errori, di intrighi, di demagogia, di opportunismi, di interessi dinastici, di fallimenti, di retorica che ha creato dei miti che andrebbero quantomeno ridimensionati, anche di abusi e di atti di brutalità commessi da certi reparti con la bandiera dei Savoia, atti che però non assumono certo  le proporzioni apocalittiche che vorrebbero far credere i revisionisti e non rientrano in alcun disegno di sterminio sistematico, in alcun folle progetto di olocausto. E d’altronde, le guerre civili sono infinitamente più tragiche delle guerre tradizionali, e le testimonianze arrivano non solo dall’Italia, ma anche da altre parti del mondo  (oltre che dagli  Stati Uniti, appunto, per esempio dalla Spagna, dalla Russia, dalla Cina).

Ho paura che la risposta sul perché in Italia siamo ancora a questo punto (e non solo per quanto riguarda il Risorgimento: anche sul fascismo e la Resistenza gli animi sono molto meno pacificati di quanto non sembri) richiederebbe un lungo e deprimente discorso sull'arretratezza culturale e la faziosità intrinseca di noi italiani, e francamente non ho tanta voglia di farlo...                            

24.   Come risultato della valanga di polemiche che hanno accompagnato il libro, lo stesso è arrivato comunque alla terza edizione in poche settimane  (per non parlare del fatto che è stato incluso nell'elenco dei finalisti della 46° edizione del Premio Acqui Storia).  Si aspettava un successo così clamoroso ?  E inoltre:  è in preparazione una quarta edizione, magari con le sue risposte alle critiche dei revisionisti ?

Be', andiamoci piano, i successi clamorosi si misurano con ben altre cifre. Diciamo che il libro è andato meglio di quel che avrei creduto, dato che si tratta pur sempre di un libro specialistico, irto di note e non sempre di piacevole lettura. Quanto alle risposte ai revisionisti, il livello delle argomentazioni a cui mi è toccato rispondere è così basso che le risposte stanno bene su internet, non è il caso di stamparle...


25.  Dimenticavo: le note.  De Crescenzo, nel confronto alla libreria Laterza di Bari dello scorso anno, quasi l’ha rimproverata di averne messe troppe.  Gigi Di Fiore afferma che Fenestrelle era un luogo in cui venivano reclusi “gli irriducibili, i soldati ribelli, gli sbandati, quelli che avevano aderito alle bande di briganti nel sud d’Italia, in compagnia anche dei briganti.”  Questo, in definitiva, smentisce la tesi secondo cui la fortezza sarebbe stata trasformata in un lager per l’eliminazione sistematica di decine di migliaia di meridionali. D’altra parte, non si capisce in base a quale logica i vertici politici e militari del Nord, se veramente avessero voluto attuare  un programma di pulizia etnica, non avrebbero potuto procedere in loco, vale a dire nelle stesse regioni meridionali, che presentavano ampie aree desertiche, dove si sarebbero potuti attuare stermini di massa.  Quella che è stata definita la  "tratta  dei napoletani", poneva infatti dei problemi logistici   (trasporto dei prigionieri al Nord con vapori stranieri, per essere poi destinati ai campi di internamento)  e dei costi non indifferenti, dei quali venne interessato lo stesso Cavour, che a quanto pare, era ignaro della faccenda, a conferma del fatto che non esisteva un  ‘Protocollo   Wannseee'  (visto che si è parlato addirittura di Shoah dei meridionali   -un accostamento che trovo quantomeno infelice, per non dire offensivo nei confronti della comunità ebraica- e che si invoca nientemeno l’istituzione del ‘Giorno della memoria per il Sud’…)E d’altronde, la repressione del brigantaggio prevedeva, soprattutto dopo l’introduzione della legge Pica  (1863-5), la fucilazione del reo in loco.  A questo riguardo, R. Martucci calcola che, ancor prima dell’introduzione della suddetta legge, i briganti fucilati al Sud  (quindi senza  essere trasferiti al Nord)  siano stati tra i settemila e i ventimila. A proposito di quest’ultima legge, mi permetto di annotare un’aporia nel ragionamento di alcuni revisionisti: da una parte si sostiene che le vittime meridionali  -soprattutto napoletane-  dell’unificazione sono state centinaia di migliaia e forse addirittura milioni; dall’altra si precisa però che la legge Pica vietava, in tanti casi, di annotare il numero esatto di fucilati e comunque di vittime dell’azione di "repressione  scientifica" (lo sterminio sistematico di un intero popolo)  e che negli archivi sono più  numerose le carte che mancano, che quelle presenti e consultabili. In mancanza di tali informazioni, non capisco come si possano presentare, con grande serietà, cifre che non hanno alcun supporto documentario.  Diversi manuali scolastici sostengono che le vittime della repressione del brigantaggio  (che comunque viene confinato quasi sempre nel periodo 1861-5)  furono superiori a tutti i soldati italiani  (su quelli francesi ci sarebbe da discutere)  periti nelle due guerre d’indipendenza e in genere si fa ruotare la cifra attorno a 5-6.000 unità..

Su questo non aggiungerei altro.
            

26.  Fenestrelle  è una località con meno di 600 abitanti, ma è famosa, oltre che per l’imponente complesso fortificato, per essere uno degli ultimi lembi del nostro Paese in cui si parla la lingua occitana.  Tra le altre particolarità, ha anche quella di avere un’amministrazione locale guidata da un giovanissimo sindacoIlario Manfredini, ricercatore di Storia presso l’Università di Pisa,  particolarmente attento alle vicende del territorio tra medioevo ed età moderna.   Ha avuto modo di parlare con lui del libro e del ruolo che la fortezza avrebbe svolto dopo l’Unità  ?

Purtroppo no !


27.  C’è un aspetto, della storia del Risorgimento, che secondo me non è stato valutato con la dovuta attenzione.  Mi riferisco al contributo che le truppe francesi diedero alla lotta contro gli austriaci. È lecito affermare che senza i francesi gli italiani non avrebbero mai potuto vincere Radetzky ?  È lecito affermare che le vittime francesi furono superiori a quelle italiane ?  È lecito affermare che senza questo  enorme contributo, l’unificazione dell’Italia sarebbe rimasta un sogno chissà per quanti anni ancora ? Certo, i francesi presentarono un conto abbastanza salato, ma in definitiva, senza di loro, gli austriaci  (e non solo)  sarebbero rimasti a lungo nel nostro Paese.  Sono affermazioni estemporanee o presentano un minimo di verità ?

Sul piano puramente militare, certo che l'appoggio francese è stato indispensabile per vincere la Seconda Guerra d'Indipendenza, altrimenti finiva come la Prima. Ma non è una scoperta sconvolgente: la guerra è questione di rapporti di forza, chi è più debole e isolato perde, chi sa procurarsi degli alleati forti vince. Sulle perdite francesi e italiane nella guerra del 1859 ci sono certamente dati precisi, anche se non li ho sottomano; ma anche qui, non è mica una gara. Senza l'aiuto della Francia non si sarebbe fatta l'Unità nel 1860, ma l'aiuto della Francia non è un dono della Provvidenza caduto sulle nostre teste non si sa come, è il risultato di una precisa politica ed è la prova che l'ideale dell'unità d'Italia era nell'aria ed era fortemente sostenuto all'estero.


28.  Lei si è cimentato di recente anche nella produzione di un manuale scolastico, La nostra storia raccontata da Alessandro Barbero e Sandro Carocci, (Laterza 2013, voll. 2), ad un prezzo leggermente inferiore rispetto a quelli medi di mercato per questo comparto  (ancora più conveniente, è chiaro, la versione scaricabile).  Che cosa l’ha spinta ad avventurarsi in un territorio così suggestivo, ma anche così insidioso  (perché rivolto ad un pubblico particolare)  come quello della manualistica scolastica ? In un manuale scolastico bisogna semplificare, proporre ricostruzioni in modo spesso sintetico e schematico, evitare di prolungarsi troppo su particolari che invece meriterebbero di essere affrontati con intere pagine: insomma, uno storico accademico, abituato a dividere in quattro il capello  (perché è il suo mestiere), in un manuale scolastico deve fare esattamente il contrario.  Senza contare la questione dei giudizi storiografici. E inoltre: come valuta la proposta (che in realtà dovrebbe diventare legge a partire dall’a.s. 2014-15)  di sostituire il manuale cartaceo o il libro misto soltanto con un testo consultabile attraverso un tablet ?

Scrivere un manuale è certamente un lavoro molto diverso rispetto alla ricerca. Non è però così diverso rispetto alla divulgazione, anzi, direi che è una delle forme principali della divulgazione. Oggi allo storico si offre la possibilità di comunicare col pubblico dei non specialisti in molte forme: i giornali, la televisione, le conferenze, e la manualistica, e ognuno di questi ambiti rappresenta una sfida diversa e molto interessante; anche se bisogna stare attenti a non dimenticare che la ricerca, e la sua comunicazione agli specialisti in forme e linguaggi anche ostici per il grande pubblico, rimangono comunque il nostro compito principale.
Quanto al proposito ministeriale di sostituire integralmente il libro di testo con materiale consultabile online, è un tipico prodotto della fretta e dell'ignoranza governativa, una di quelle fughe in avanti con cui un mondo politico di analfabeti  –causa non ultima dell'arretratezza del nostro paese– crede di poter aggirare i problemi della scuola e far bella figura a buon mercato. Il ministero evidentemente ha deciso di ignorare una serie di problemi: intanto, non è affatto ovvio che tutti gli studenti delle scuole italiane possano munirsi di un tablet personale; in ogni caso si tratterà di un costo considerevole per le famiglie e/o per lo stato; ed è comunque probabile che si crei una fascia sfavorita per la quale l'uso del tablet rappresenterà un problema. In secondo luogo, pare che il ministero non abbia la minima idea di che cos'è un libro di testo, e di che uso ne fanno i ragazzi. Il libro di testo attuale è in realtà un prodotto che integra testo, immagini, didascalie, cartine in un modo sofisticato che si è andato evolvendo negli anni, e che attualmente non è riproducibile tale e quale sul tablet: il libro di testo informatico sarà quindi un oggetto strutturalmente diverso, e anche se questo non è affatto un male in sé, anzi!, sarà comunque necessaria una certa riflessione per produrlo – non ci si può illudere, in altre parole, di trasferire semplicemente su tablet quello che attualmente sta sulla carta. E poi c'è il modo di studiare dei ragazzi, che lavorano sottolineando e annotando il libro e riempiendolo di segnalibri, tutte cose che sul tablet in realtà non si possono fare, per quanto esistano funzioni che tentano di riprodurle. Senza contare che un lavoro non puramente passivo implica il tenere sott'occhio diversi libri aperti contemporaneamente, e confrontare al volo una pagina coll'altra, tutte cose, anche queste, che col tablet non si possono fare, se non in modo profondamente diverso. In altre parole il passaggio a un supporto puramente informatico implica una rivoluzione antropologica, che non si capisce come possa avvenire in un anno o due e per decreto amministrativo. Speriamo in bene...


29.  A parte un ricca e prestigiosa produzione storiografica, lei è famoso anche per le sue ‘incursioni’ in campo letterario, con ben sei titoli, che denotano una raffinatezza di scrittura difficilmente riscontrabile anche negli scrittori professionisti:  la sua prima opera in questo territorio,  Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, ha vinto il Premio Strega 1996, mentre il suo quinto romanzo,  Gli occhi di Venezia, nel 2011 si è aggiudicato il Premio Alessandro Manzoni della città di Lecco. 
A. Barbero riceve il Premio
Manzoni 2011 per Gli occhi di Venezia.

Ma a parte questo, quando ha progettato e realizzato questi romanzi, ha dovuto confrontarsi con il testo che Manzoni compose a proposito appunto del romanzo storico  (Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione) ?   Oppure  -perdoni la formula-  la sua è stata una specie di ‘rivincita’ nei confronti dell’A. dei  Promessi Sposi, un modo garbato, ma deciso, per dire a Manzoni:  “No, guarda, su questo punto non siamo d’accordo.  Il romanzo storico, checché tu ne dica, riveste un suo preciso valore, e cercherò di dimostrartelo.” ?


Temo di dover confessare la mia allergia per ogni forma di teorizzazione metodologica. Quando, intorno ai venticinque anni, ho cominciato a scrivere i miei due primi romanzi, Bella vita...Romanzo russo, a cui ho lavorato contemporaneamente per una decina d'anni, l'ultima cosa che poteva venirmi in mente era di preoccuparmi della teoria del romanzo. Che Manzoni abbia scritto sull'argomento lo avrò anche studiato a scuola, ma me lo ricordo per la prima volta ora che lo leggo nella domanda. Del resto la grande libertà del romanzo è che si può scrivere tutto quello che si vuole e in qualunque modo, con un solo obbligo – scrivere bene. Ci mancherebbe che uno dovesse rinunciare a questa libertà per seguire delle regole, e perdere tempo con riflessioni teoriche invece di lavorare sulla propria scrittura !


 Franco Cardini
30.  Oltre ad essere uno dei nostri storici accademici più  ‘blasonati’, lei è anche lo storico italiano che il grosso pubblico  -compreso quello che in genere non ha affrontato studi specifici-  segue ed apprezza di più, grazie alle sue numerose e brillanti divulgazioni organizzate da prestigiosi centri di cultura in incontri che richiamano migliaia di studiosi  e di cultori di Storia.  Né mancano le conferenze presso le scuole superiori.  Che cosa la spinge a questo tipo di attività, direi piuttosto rara nel panorama storiografico italiano  (l’unico nome che mi viene subito  in mente è quello dell’amabile patriarca della medievistica italiana, Franco Cardini) ?   

A questa domanda ho già in parte risposto.   Puntualizzerei che queste molteplici forme di coinvolgimento oggi sono molto più numerose che in passato. L'intero ambito dei festival culturali, come quello di Mantova, o quello di Sarzana a cui mi onoro di partecipare ogni anno ormai dal 2007, una volta non esisteva. Dunque chi fa il mio mestiere riceve molteplici sollecitazioni, continue richieste di partecipazione e collaborazione; a me piace accettare proposte di questo genere, ho scoperto che non mi riesce male, e insomma è diventata una parte integrante e vitale della mia attività professionale (senza nascondere che si tratta appunto di attività professionale: e dunque, remunerata).                                                                                                 

31.  Da alcune sue osservazioni  (soprattutto video)  mi è sembrato di capire che, a fronte della relativa scarsità della documentazione riguardante l’età medievale  (visti i secoli che ci separano da quel periodo), quella moderna offre una tale mole di materiale da lasciare quasi storditi.  Il problema è quello di verificare quanta di questa documentazione sia veramente importante ai fini di una particolare ricerca e forse anche, vorrei aggiungere, individuare e smascherare eventuali falsi. La mia è un’interpretazione ragionevole o va corretta ?   Di fronte alla poderosa quantità del materiale a disposizione, quali percorsi deve seguire la ricerca storiografica, per evitare di disperdere le sue energie e di rimanere impantanata ?

Il problema dei falsi è un problema minore. Certo, ogni tanto si presenta qualche caso clamoroso, come quello dei falsi diari di Hitler, a cui anche Trevor-Roper credette, o quello dei falsi diari di Mussolini (a cui invece hanno creduto, o fatto finta di credere, solo giornali di partito e servi di palazzo); ma se è per questo il problema dei documenti falsi è molto più rilevante in ambito medievale, perché ne sono stati prodotti moltissismi, e non solo da eruditi falsari moderni (e quelli sono i più facili da smascherare) ma anche all'epoca. Dopodichè, sì, è verissimo che per il Medioevo, come per l'Antichità, il problema di solito è la scarsità o l'assenza di documenti, mentre per l'età moderna e contemporanea è l'esatto contrario. Ma sapersi orientare nella documentazione e ottimizzare i tempi di ricerca è una delle principali capacità richieste allo storico professionista, sta in quello il mestiere. Aggiungerei che proprio la diversità delle fonti, della loro collocazione, e delle tecniche che bisogna possedere per utilizzarle è l'unico motivo che giustifica, in parte, la suddivisione accademica fra antichisti, medievisti, modernisti e contemporaneisti, che altrimenti non ha senso ed è più dannosa che utile.


32. Come trova gli studenti che sostengono l’esame  (o gli esami)  nella sua disciplina e che le chiedono la tesi ?  Abbastanza preparati e in grado di esprimere giudizi  motivati ?  Crede che la scuola superiore abbia fornito loro le necessarie conoscenze e competenze, oppure si sente di avanzare delle critiche, e magari dei suggerimenti ?  E inoltre: ritiene che l’attuale ordinamento universitario  (tre più due)  sia migliore rispetto a quello del passato, oppure sarebbe meglio ripristinare quest’ultimo ?

Sugli studenti non esprimerei un giudizio. A me paiono volenterosi ma per lo più sprovvisti di cultura, poco abituati al giudizio critico e poco padroni della lingua e della scrittura; però credo a) che già al tempo di Socrate i docenti tendessero ad avere questa impressione degli allievi, e b) che questi difetti non siano solo degli studenti, o dei "giovani", ma di tutta la società (con forse una particolare accentuazione nella classe politica).
Sulla scuola è evidente che c'è un solo suggerimento da dare, così ovvio che ci si vergogna quasi a dirlo: bisogna spenderci molti più soldi, come fanno tutti gli altri paesi, ma molti di più (parlo della scuola pubblica, non della scuola privata a cui, vergognosamente e in aperta violazione della Costituzione, i governi di destra – e non solo – continuano a regalare denaro pubblico), e ridare motivazione e prestigio agli insegnanti. Bisognerebbe anche, a dire il vero, ridurre la burocrazia, gli impegni extrascolastici, le riunioni, i moduli da compilare, le procedure di valutazione, tutte buffonate che invece, com'è evidente e come accade purtroppo anche negli altri paesi, pesano e peseranno sempre di più sull'attività dei docenti (ma qui parlo anche della ricerca e dell'Università) riducendo l'efficienza e la produttività e producendo un costo crescente per la collettività.
Sull'attuale ordinamento universitario, posso parlare solo dal punto di vista dei dipartimenti letterari, storici, filosofici, insomma le materie umanistiche, quelle che una volta si chiamavano senza tante complicazioni le facoltà di Lettere. In quell'ambito il 3+2 si è rivelato fallimentare e sta provocando gravi danni. In primo luogo, data la spendibilità relativamente scarsa di una laurea umanistica sul mercato del lavoro, e comunque la forte concorrenza per i pochi lavori veramente appetibili in quest'ambito, nessuno studente di materie umanistiche si accontenta della laurea triennale; tutti fanno anche la cosiddetta magistrale, col risultato che il corso di studi si è allungato e l'età in cui si comincia a cercare lavoro si è elevata: l'esatto contrario, cioè, di quel che si credeva di ottenere con il nuovo sistema. In secondo luogo, nelle materie umanistiche non è così facile separare formazione universitaria di base e specializzazione, tanto più in un paese che ha ancora dei buoni licei e dove ancora ai miei tempi la formazione universitaria era tutta "specialistica" (pur essendo già rivolta a un pubblico studentesco di massa). Da quando ogni università deve affiancare dei corsi triennali e dei corsi magistrali, la spinta è a rendere sempre più elementari, scolastici, gli insegnamenti triennali; quanto al contenuto dei corsi magistrali, ogni università, anzi ogni docente ha dovuto inventarselo a modo suo, in totale assenza di una riflessione collettiva e di indicazioni utili da parte ministeriale, col risultato che questi corsi spesso sono specialistici solo sulla carta. Aggiungiamo che molte università italiane, tutte quelle piccole, non hanno le forze per creare un'ampia offerta di corsi magistrali (o meglio, le forze le avrebbero anche, ma il ministero glielo impedisce, vincolando rigidamente il numero dei corsi di laurea offerti da una facoltà al numero dei docenti di ruolo) e quindi diventano per forza università di serie B, da cui gli studenti tendono a fuggire dopo la laurea triennale. Può darsi che il deliberato smantellamento delle piccole università sia voluto dalla politica, ma sarebbe stato più onesto affrontare la questione a viso aperto anziché arrivarci in questo modo. L'Italia era uno dei pochi paesi a disporre di un sistema universitario in cui tutte le università, grandi e piccole, offrivano un insegnamento egualmente qualificato, anziché dividersi fra grandi atenei prestigiosi e università di provincia per i poveri; con il 3+2 stiamo realizzando il capolavoro di trasformare anche il nostro sistema in questa direzione.

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Alessandro Barbero


È praticamente impossibile ricordare tutti i libri che Barbero ha pubblicato o citare la miriade di manifestazioni a cui ha preso parte.
Vorrei indicare almeno la sua ultima opera, appena uscita presso i tipi della Laterza: Donne, madonne, mercanti e cavalieri,  un testo che ritengo molto utile anche sotto il profilo strettamente didattico.
Per il resto, mi limiterò a segnalare le pagine in cui sono elencati i suoi lavori, con inevitabili lacune. 
Qui la pagina del sito della Laterza con i libri di Barbero e le presentazioni degli stessi. 
Qui  la pagina, sempre sul sito della Laterza, con i commenti sul volume oggetto dell'intervista.  Qui alcune recensioni sempre sulla stessa opera.
Qui la pagina di Google con tutti i rimandi ai suoi testi.
In questo blog, si trovano alcuni post dedicati a Barbero.
Per quanto riguarda i video dell'A. e sull’A., vorrei segnalare almeno quelli che si riferiscono in modo diretto all’argomento dell’intervista. Ciò che colpisce maggiormente, in Barbero, a parte la sua straordinaria capacità di divulgazione, è la grande sincerità con cui racconta in modo magistrale la Storia, citando fatti ed esprimendo giudizi talvolta impietosi, anche sul Piemonte  (la nobiltà piemontese, per esempio, considerata tra le più chiuse e conservatrici), su figure prestigiose della regione  (a partire da Cavour), sul Risorgimento. Di seguito, quindi, un elenco  (anche qui incompleto)  di filmati che lo riguardano:
a.   dibattiti alla libreria Laterza con Gennaro De Crescenzo  (5-12-12)  e alla libreria  “Torre di Babele”  di Torino  con Gigi Di Fiore (11-12-12) ;
b.   dibattito al Festival èstoria, Gorizia, maggio 2013;
c.   su Cavour ;
d.   ancora su Cavour ;
e.   su Vittorio E. II ;
f.    su Garibaldi ;
g.  ancora suGaribaldi  ;
h.  Battaglie di Solferino e San Martino  (la prima è vinta dai francesi, mentre la seconda rappresenta comunque una sconfitta dell’esercito sardo) ;
i.  intervista sulla sua attività di narratore ;
Tutti video in cui Barbero esprime al meglio le sue grandi doti di comunicatore e di divulgatore di prim’ordine.
Doti che emergono anche nelle prestigiose lezioni su Radio 2, per esempio quella su Federico Il Grande  (in venti puntate).


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Come per molti piemontesi, anche per Barbero il francese rappresenta quasi una seconda lingua madre.   Cfr. ad esempio questo video in cui presenta la traduzione francese del suo  Lepanto : La bataille des trois empires, Lépante, 1571, Éditions Flammarion, 2012. 
Qui la presentazione in italiano dello stesso volume.

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Di seguito, invece, alcuni articoli a favore di Barbero e di Bossuto-Costanzo:  

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Fenestrelle, la “Grande Muraglia” piemontese.

Qui il sito ufficiale del complesso fortificato.
Creato per resistere ad eventuali attacchi francesi, in tutta la sua storia non sparò neanche un colpo. Aveva una guarnigione che poteva arrivare anche a 3.000 uomini.
In questo video, si accenna anche al fatto che l’imponente complesso fortificato si trova in un’oasi di lingua occitana  (la lingua d’oc dei trovatori, del sud della Francia).
“Forte in armi”.  Associazione  S. Carlo. Rievocazione storica attraverso una cavalcata attraverso i secoli (dal 1600 alla seconda guerra mondiale) di uniformi, di armi e di cimeli di vario tipo.  Sfilata nel paese di Fenestrelle, trasformato in un luogo variopinto e senza tempo. Video intenso, suggestivo e didatticamente utile, perché valorizza usi e costumi del passato.  Componenti dei gruppi storici preparati e motivati.  Un modo per riscoprire la memoria storica e le radici proprie e della terra in cui i partecipanti vivono.  Partecipanti che, per inciso, sono tutti volontari, animati dalla passione di uniformi  (a volte autentiche e comunque fedelissime) e di armi (autentiche)  del passato.