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domenica 31 luglio 2016

La giustizia italiana è lenta come una lumaca ?

È l’ultimo paradossale paradosso della giustizia italiana. Ogni giorno, nelle aule di qualche tribunale civile, ci sono giudici che devono decidere se un cittadino abbia diritto a essere risarcito per la lentezza di altri giudici. Ma nello stesso giorno, nelle aule dei tribunali amministrativi regionali, altri giudici processano l’amministrazione dello Stato, colpevole di non aver pagato ad altri cittadini un risarcimento che un giudice civile aveva già riconosciuto fosse dovuto.

Non è uno scioglilingua, non è un assurdo gioco dell’oca: è l’ultima follia della legge Pinto, varata nel 2001 dal governo Amato proprio per fare argine a migliaia di richieste di danni per la lentezza dei processi penali e civili, presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La legge Pinto stabilisce quale sia «la corretta durata dei processi» individuandola in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado, in un anno per la Cassazione. Il problema è che la giustizia italiana non rispetta quasi mai quei criteri. Così il numero di cause basate sulla legge Pinto è in continuo aumento: i ricorsi erano stati 3.580 nel 2003, sono saliti a 49.730 nel 2010, a 53.320 nel 2011, a 52.481 nel 2012, a 45.159 nel 2013, l’ultimo anno con dati ufficiali. E anche i costi aumentano. I radicali stimano che il danno provocato dalla legge Pinto sui conti pubblici sia di circa 1 miliardo.


Un muro di gomma e di vergogna


Ovviamente il governo italiano fa di tutto per non pagare quel che dovrebbe. Fa melina, come si dice in gergo calcistico: oppone un muro di gomma, inevitabilmente giudiziario. Altrettanto inevitabilmente, le vittime della “giustizia lumaca” insistono e fanno causa una seconda volta, aprendo un nuovo contenzioso. Negli ultimi anni, il processo per il mancato risarcimento dopo un processo è diventato la regola e ha prodotto un disastroso effetto a catena: i Tar sono sommersi dai ricorsi di cittadini in lotta contro il ministero della Giustizia che non paga.


Nel 2003 i provvedimenti emessi dai giudici amministrativi erano stati 40; nel 2010 erano già 189. Da allora è stata un’escalation: 1.021 sentenze nel 2012; 2.178 nel 2013, 4.102 nel 2014, 6.522 nel 2015. Alla fine del giugno di quest’anno siamo già arrivati a 3.792 provvedimenti. Si calcola che un processo amministrativo su otto, ormai, riguardi i contenziosi tra cittadini e il ministero.

Insomma, è una follia, un mostro che si autoalimenta. Sono convinto che se cercassimo di far capire questo paradosso a un americano, o a un inglese, non ci riusciremmo. Forse non ci arriverebbe nemmeno un cittadino del Burkina Faso, paese la cui giustizia non ha mai avuto (diciamo così) un Cesare Beccaria. Ma oltre che una follia è anche una vergogna. Cui di recente s’è aggiunta l’indecorosa furbata della legge di stabilità 2016, che ha modificato la legge Pinto solo per renderne più difficile l’applicazione. Se ne sono accorti i radicali, nessun altro ha protestato. I giornali non ne hanno scritto (tranne Tempi, a gennaio, e Panorama). Insomma, si è cercato di risolvere il problema alla fonte: se la legge Pinto costa troppo, oltre a non pagare, rendiamo più difficili anche le regole per avviare una richiesta d’indennizzo.

I trucchi adottati sono insidiosi: per avere diritto al ricorso, l’imputato di un processo penale deve presentare «un’istanza di accelerazione delle udienze almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole di durata». Quando il suo giudizio arriva in Cassazione, l’imputato «deve fare istanza due mesi prima dello spirare del termine». Chi vuole fare ricorso deve stare lì con il cronometro per calcolare il momento giusto. In attesa di un giudice a Berlino. O magari in Burkina Faso.



Una voce contraria al referendum sulla riforma della Costituzione.

«Non saremo sceriffi di Nottingham». Il No al referendum sulla nuova Costituzione ha una ragione particolare per Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno e responsabile nazionale di Anci (l’Associazione nazionale Comuni italiani) per la finanza locale: la ragione che nasce dal ruolo di sindaco. La Costituzione voluta da Matteo Renzi sarà una pietra tombale sul principio di sussidiarietà e su ogni forma reale di autonomia locale. È la tesi sostenuta da Castelli, cinquantenne, centrodestra, nel pamphlet scritto sotto forma di lettera aperta al premier (No, caro Matteo, dEste, pagg. 122). Verrebbe costituzionalizzata quella che negli anni Settanta veniva definita “finanza derivata”. Da prassi a norma: lo Stato centrale deciderà ogni anno quanto destinare ai bilanci degli enti locali, lasciando ai sindaci il compito di tassare, con tributi locali che non andranno a migliorare i servizi per i cittadini, ma serviranno solo per colmare il debito pubblico.

Diventeremo come il personaggio nemico di Robin Hood – spiega Castelli – puri esattori per conto dello Stato. Addio all’autonomia, ma anche alla responsabilità: le tasse locali devono essere “misurabili” (rendicontabili) dai cittadini. Se finiscono al servizio del debito pubblico sono un esercizio prefettizio. Il sindaco è scelto dai cittadini. Il sindaco è sottoposto al giudizio e al consenso. Non è un funzionario della Pubblica Amministrazione». La riforma della Costituzione, tra le tante criticità, manifesta questa. E non è poca cosa. È un problema che incide sulla vita di tutte le comunità. «E mi rammarico che questo pasticcio contro l’autonomia locale sia voluto da chi, ex sindaco, aveva detto di voler essere il sindaco d’Italia», aggiunge Castelli.

Un “j’accuse” rivolto a chi nel passato aveva fatto tanto per ribadire autonomia e responsabilità per gli amministratori locali. Per Castelli, Renzi ha cambiato idea. In perfetta continuità con il disegno del governo Monti, Renzi vuole oggi che i sindaci diventino prefetti agli ordini dello Stato centrale. «Io no. Io credo alla sussidiarietà, all’autonomia locale, alle città pubbliche, in cui si possano rifondare i valori della democrazia», continua Castelli. Mentre il nuovo centralismo di Monti arrivava con una crisi complessiva della sovranità nazionale, quello che viene codificato da Renzi avrebbe il sigillo della nuova Costituzione. Con la nuova Costituzione il Comune sarà ridotto a livello di un esattore di balzelli fiscali sempre più aspri. Tasse sempre più alte a livello locale, raccolte dai Municipi per conto dello Stato centrale.

Un sogno infranto, una speranza tradita: il Comune sembrava l’ultima istituzione che potesse essere “compresa” dai cittadini. Un capitolo del libro è dedicato al “mestiere” e al “ruolo” del sindaco e si dà conto di quante minacce ricevano oggi i primi cittadini e quante violenze subiscano gli amministratori locali: destinatari di tutte le domande della comunità, senza aver più le risorse (i bilanci dei Comuni italiani in cinque anni sono stati tagliati di 12 miliardi di euro: l’unica spending review eseguita) per poter rispondere, diventano bersagli per ogni tipo di protesta. «No al referendum costituzionale – conclude Castelli – per me, e per molti sindaci come me, vuol dire sì al principio di sussidiarietà e all’autonomia locale».

sabato 30 luglio 2016

Inchiniamoci davanti agli alunni di ieri.


Dedicato  (ammesso che capiscano)  ai fannulloni e agli zombie di oggi che vanno a scuola soltanto perché costretti dai genitori e dalla legge.


lunedì 25 luglio 2016

Il fascino della solitudine.

Di solitudini ce ne sono tantissime: quella che si prova pur trovandosi in mezzo alla gente, quando si è gli unici rimasti in ufficio, mentre si mangia leggendo il cellulare o si aspetta qualcosa o qualcuno. A volte situazioni che da fuori sembrano tristemente solitarie sono momenti desiderati e ritagliati per starsene un po’ in pace con sé stessi. È anche uno stato d’animo che si addice in qualche modo all’estate: le città si svuotano, diventano silenziose e irriconoscibili, e chi rimane può godere di molti vantaggi, come approfittare dei parchi poco affollati per leggere un libro (o il Post) e riposarsi su una panchina. Chi invece se n’è andato può isolarsi in lunghe passeggiate o su un materassino in mezzo al mare. Abbiamo raccolto un po’ di fotografie che raccontano tutte queste diverse facce della solitudine, che può essere malinconica, inquietante, intima, gioiosa e a volte altrettanto piacevole di quando si passa il tempo con qualcuno.

La solitudine, "Il Post", 24-07-16.

Heisenberg e la sua lotta segreta contro Hitler.

Il primo febbraio 1976 moriva a Monaco il premio Nobel per la fisica Werner Karl Heisenberg, «il primo ad avere una mentalità quantistica» e la capacità di «immaginare un mondo subatomico, astratto e impossibile da visualizzare»: queste e molte altre cose si sono dette sul padre del principio di indeterminazione (uno dei pilastri concettuali della meccanica quantistica, che egli enunciò nel 1927), poco invece si sa di cosa accadde veramente quando, durante la Seconda guerra mondiale, si trovò davanti a un dilemma morale, scappare dalla Germania (come Einstein) o rimanere nonostante il regime nazista?

«Lasciare la Germania gli sembrava vigliaccheria, sia nei confronti della sua famiglia, sia dei giovani fisici che voleva proteggere dalle grinfie del regime», scrive Francesco Agnoli, nel suo L’uomo che poteva costruire la bomba (Edizioni Gondolin, 80 pagine, 8 euro), che ripercorrendo la vita e il pensiero del grande fisico risponde al dibattito da tempo acceso tra gli storici sulla possibilità di un’atomica tedesca che avrebbe permesso a Hitler di vincere la guerra.

Genio poliedrico, amante della filosofia di Platone più che di Democrito, di san Tommaso più che di Cartesio, all’avvento del nazismo, nel 1933, anno in cui riceve il Nobel, Heisenberg ha almeno tre grosse colpe: «Le sue amicizie con scienziati ebrei; la sua difesa della “fisica ebraica”; il suo pessimo rapporto con Lenard e Stark, che gli hanno chiesto una presa di posizione a favore di Hitler, cui ha opposto un netto rifiuto». Oltreché amico di Einstein e sostenitore della relatività, bollata dai nazisti come aberrazione della mente ebraica, Heisenberg difende infatti gli ebrei scacciati dalle università tedesche, arrivando a proporre l’ebrea Lise Meitner per il Nobel per la fisica.

Nel 1938 viene arrestato dalla Gestapo. «Non ci resta che aspettare il momento in cui sia possibile fare qualcosa – dirà nei mesi sotto indagine –. Nel frattempo cerchiamo di tenere in ordine gli angoli oscuri in cui siamo costretti a vivere». Heisenberg ha infatti una moglie e sette figli: per lui fuggire equivale a disertare, occorre qualcuno che prepari il domani.

Nel 1942 è chiamato a dirigere il programma nucleare tedesco: la Germania ha bisogno di lui, ma il fisico riesce a demotivare il gerarca Albert Speer e a convincerlo a rinunciare al progetto della bomba atomica, limitando la ricerca alla sola costruzione di un reattore. Scrive Agnoli, leggendo i resoconti di Speer: «Perché Heisenberg tergiversa? Secondo alcuni – che chiameremo per comodità “innocentisti” – per prendere tempo e continuare così la sua strisciante opposizione al regime; secondo altri – che chiameremo “colpevolisti” e che arrivano talora persino all’assurdo di accusarlo di essere filo-nazista – unicamente perché ritiene impossibile, impraticabile la realizzazione della bomba, non solo da parte dei tedeschi, ma anche dei loro nemici».

Più logico, sostiene Agnoli, che Heisenberg fosse esitante sia sulla possibilità che qualcuno realizzasse l’atomica in tempi ragionevoli, sia sulla moralità di una tale azione, infine, essendo anche un fiero anticomunista, sulla possibilità di collaborare con il suo paese, in funzione antisovietica. Una tentazione che tuttavia non diventa mai dominante: dopo l’attentato a Pearl Harbor Heisenberg rafforza il suo atteggiamento antinazista, ben rintracciabile nella frequentazione della Società del mercoledì e nell’atteggiamento filo-americano dimostrato durante l’arresto a Farm Hall.

Nell’aprile del 1945, mentre fugge da Hechingen, dove si lavora al reattore nucleare, Heisenberg viene infatti arrestato con altri nove fisici tedeschi dagli americani, e condotto in una residenza nella campagna inglese, dove rimarrà per sei mesi: è qui che il 6 agosto 1945 gli scienziati apprendono il lancio dell’atomica su Hiroshima e ne discutono animatamente. Proprio da questi colloqui, spiati attraverso microfoni e trascritti, emerge l’operato di Heisenberg, che dimostra tra le altre cose «di essere l’unico “a essere perfettamente in grado di ‘progettare’, sia pure mentalmente, un’atomica”, e di non aver mai messo prima “a parte di questa sua competenza neppure gli amici e i collaboratori”».

In molti hanno creduto alla sua azione contro il nazismo: nel 1973 lo scienziato riceve dall’Accademia Cattolica di Baviera il premio “Romano Guardini” dedicato al teologo che ispirò i ragazzi della Rosa Bianca. Fu allora che, ricordando come la scienza possa «essere usata per elaborare armi con la più atroce capacità distruttiva», Heisenberg volle citare la vita «pervasa completamente, in ogni istante, dalla lotta per la verità religiosa» dei personaggi di Dostojevskij: «Dove non ci sono più immagini guida a indicare il cammino, insieme alla scala di valori scompare anche il senso del nostro agire e soffrire, e alla fine restano solo negazione e disperazione. La religione è dunque la base dell’etica, e l’etica è il presupposto della vita».

Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) e fa parte della serie “Idee per respirare”


domenica 24 luglio 2016

La corruzione ? È un problema anche per la Slovacchia.

Un recente rapporto sull’integrità e la fiducia dell’opinione pubblica europea, a cura della Hertie School of Governance (Ercas) di Berlino e commissionato dalla presidenza olandese del Consiglio dell’Ue, mette in evidenza quella che viene definita “una delle violazioni dell’integrità di governo più ampiamente riconosciute”.   
Il rapporto precisa che i media slovacchi hanno pubblicato le prove “di come i posti di lavoro nel settore pubblico siano più facilmente assegnati a persone collegate al partito di governo”. Il caso in questione si è verificato a Zvolen nel 2013, ma da quello che scrive Ercas “tocca una corda familiare a tutti i nuovi paesi membri” come Grecia e Italia meridionale.
Le rivelazioni arrivano nel momento in cui la fiducia dei cittadini slovacchi nel loro governo nazionale e nel loro parlamento è precipitata del 19 e 12 per cento rispettivamente dal 2008 per assestarsi sul 29 per cento, secondo il rapporto dell’Hertie School of Governance. Ma, nel medesimo periodo, la fiducia nei partiti politici è cresciuta del 3, per assestarsi al 19 per cento.
Il rapporto afferma che il settimanale slovacco Pluska ha pubblicato le provesecondo le quali “le domande di assunzione sono contrassegnate da note a margine nelle quali c’è scritto quale persona o istituzione ha raccomandato quel particolare candidato”. Tra i nomi citati più di frequente c’è il membro locale del parlamento del partito Smer-SD al governo (Smer).
Alcune richieste di assunzione presentavano note in calce con i dettagli dell’adesione del candidato alla “sezione regionale del partito Smer” si legge nel rapporto.
Secondo un sondaggio citato nel rapporto, l’89 per cento degli slovacchi crede che conoscenze giuste e bustarelle siano spesso il modo migliore per ottenere un posto di lavoro nel settore pubblico. Secondo il 92 per cento degli intervistati la corruzione sarebbe assai diffusa nel paese, anche se soltanto il 30 per cento ritiene che i dipendenti pubblici sono corrotti, mentre il 49 per cento dice che corrotta è la classe politica.
“Pare che il sistema funzionasse bene” si legge nel rapporto di Ercas, “e tutti quelli che avevano fatto domanda per un posto di lavoro con una raccomandazione lo hanno ottenuto”. Più avanti si legge che “il caso fornisce un esempio ulteriore dei diversi modi in cui la fiducia dell’opinione pubblica è influenzata dalla mancata integrità nei nuovi stati membri dell’Ue”.

Abbiamo sottoposto il rapporto a Filip Kostelka, ricercatore presso la Presidenza per gli studi elettorali all’Università di Montreal, nonché associate fellow al Centro per gli studi europei di Sciences-Po a Parigi

Che cosa ne pensa di questi dati? Come spiega il fenomeno del clientelismo?
Filip Kostelka 
Penso che la situazione qui descritta sia realmente accaduta. Anche se probabilmente si tratta di un caso limite, alcune dinamiche di questo tipo – forse meno palesemente – possono aver luogo in altri municipi e in altre amminstrazioni slovacchi. In Slovacchia, il clientelismo si è sviluppato specialmente dopo l’indipendenza negli anni Novanta. In questo periodo cruciale nel quale sono stati istituiti i meccanismi di governo del nuovo sistema amministrativo e politico, il paese è stato governato dal Primo ministro Vladimir Meciar che aveva una tendenza particolare all’autoritarismo, e dopo un’epurazione il clientelismo [la capacità dei partiti politici di distribuire posti di lavoro nel settore pubblico] era uno degli strumenti più utilizzati per espandere la sua influenza e restare al potere. Dopo che nel 1998 ha lasciato l’incarico, i governi che si sono susseguiti non sono riusciti a depoliticizzare i servizi pubblici, e talvolta non hanno voluto farlo malgrado le forti pressioni da parte dell’Unione europea.

Ritiene che questo tipo di corruzione sia caratteristico della Slovacchia oppure è comune a tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale?
In Slovacchia, gli anni di Meciar sono stati particolarmente devastanti. Sono diventati un problema ulteriore da risolvere, in aggiunta agli altri in comune con tutti i paesi post-comunisti. Prima di tutto il retaggio morale e comportamentale dell’epoca comunista: sotto il comunismo le conoscenze e un buon profilo politico erano indispensabili per poter accedere ai migliori posti di lavoro. In secondo luogo, dobbiamo ricordare che i paesi post-comunisti sono repubbliche giovani, nelle quali il clientelismo è una risorsa fondamentale per costruire partiti politici a livello locale.
Per esempio, questo fenomeno è stato di estrema importanza in Austria nei decenni dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi è invece assai diffuso in America Latina. La preferenza dei partiti politici post-comunisti per il clientelismo è rafforzata oltretutto dalla difficoltà a trovare nuovi affiliati, tenuto conto che oggi vediamo sempre più screditato l’impegno politico, che assistiamo al declino delle ideologie e al crescere dell’individualismo e di un generico disincanto della popolazione nei confronti della politica. Ma anche se il clientelismo per ovvie ragioni è estremamente difficile da quantificare, le informazioni di cui disponiamo lasciano capire che c’è una differenza significativa tra i paesi dell’Europa centrale e quelli dell’Europa orientale.
Queste differenze possono essere spiegate, oltre che in altri modi, con le diverse evoluzioni dei partiti politici e così pure con il lascito culturale e della macchina burocratica a lungo termine. Il clientelismo potrebbe essere meno presente in Estonia, Slovenia e Repubblica Ceca, ma più diffuso in Romania e Bulgaria. Esistono tuttavia differenze anche all’interno di ogni paese (locale, nazionale…).

Possiamo sperare in una presidenza slovacca dell’Ue onesta e trasparente, se addirittura coloro che si presume debbano lavorare a tal fine potrebbero non essere stati scelti per la loro integrità e la loro competenza?
Per ciò che mi riguarda, credo che il favoritismo sia prima di tutto ed essenzialmente un problema morale, e soltanto in un secondo tempo diventi un problema di efficienza. Non sempre coloro che ne traggono beneficio sono incompetenti. Per le mansioni di grande responsabilità, e tenuto conto della posta in gioco nella presidenza dell’Ue, non è nell’interesse dei partiti politici nominare persone prive delle competenze richieste.
Oltre a ciò, e specialmente ai livelli più alti del governo, il clientelismo non è insolito neppure in Europa occidentale, anche se meno nell’Europa meridionale. Voglio confidare nel fatto che, tenuto conto delle piccole dimensioni del paese e del difficile contesto della Brexit, le autorità slovacche saranno quanto più preparate possono essere evitati.  

Breve guida per capire che cosa sta accadendo in Turchia.

La Turchia è un paese molto difficile da capire e da seguire, perché sui giornali italiani e internazionali se ne parla spesso per cose diverse: gli attentati dello Stato Islamico (o ISIS), i continui scontri con i curdi, lo strapotere e l’autoritarismo del presidente Recep Tayyip Erdoğan, la regolazione dei flussi migratori verso l’Europa, e così via. Sono tutti argomenti importanti che definiscono la Turchia oggi, sia nella sua politica interna che nelle sue relazioni con gli altri paesi. Nonostante se ne parli così tanto, ci sono però ancora molte cose che si conoscono poco: la meno chiara riguarda i rapporti politici interni al paese, che hanno portato la scorsa settimana a un colpo di stato tentato dall’esercito, e poi fallito. Erdoğan ha incolpato del tentato golpe Fethullah Gülen, un religioso turco che vive in esilio auto-imposto negli Stati Uniti, accusandolo di far capo a un’organizzazione clandestina che ha l’obiettivo di sovvertire il potere in Turchia. È una storia complicata al limite del complottismo, ma che bisogna sapere insieme ad altre quattro cose per farsi un’idea di che cos’è la Turchia oggi.

La futurologia ? Non sembra più importante.

Farhad Manjoo, giornalista ed esperto di tecnologia delNew York Timesha scritto un articolo per ricordare il futurologo Alvin Toffler, morto il 27 giugno 2016, e riflettere sul modo in cui le novità – dalla nascita dello Stato Islamico al pilota automatico delle Tesla – colgono impreparate le persone. Secondo Manjoo, dagli anni Ottanta in poi non si è più investito nel fare previsioni e per questa ragione siamo sensibili al cosiddetto “shock del futuro”, dal nome del più famoso libro di Toffler, Future Shock, pubblicato nel 1970 (in italiano con il titolo Lo choc del futuro): le crisi globali e locali sarebbero dovute all’incapacità di affrontare i cambiamenti rapidi degli ultimi anni.
Manjoo pensa soprattutto al modo in cui i social network stanno cambiando la vita delle persone, dal modo di fare e leggere i giornali, al rapporto tra cittadini e politica, fino alle possibilità organizzative e di comunicazione che danno alle organizzazioni terroristiche. Al fatto che esistono molte diseguaglianze nel mondo dovute alle differenze nell’accesso alla tecnologia, e a come i governi debbano avere a che fare con le grandi aziende tecnologiche (come Google e Facebook, per esempio) per questioni che riguardano i diritti dei cittadini, tra le altre cose.
Secondo Manjoo, le persone hanno smesso di fare piani per il futuro: «Non è semplice shock del futuro: è che ora siamo ciechi rispetto al futuro». Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta l’atteggiamento generale nei confronti del futuro era diverso. Manjoo spiega che il governo degli Stati Uniti finanziava istituti di ricerca dedicati a fare previsioni sui progressi tecnologici, sulla geopolitica e sugli armamenti: l’opinione dei cosiddetti futurologhi era tenuta in considerazione sia dai capi di stato e di governo sia dal mondo degli affari. Per via della Guerra fredda, era molto importante per i governi riuscire a farsi un’idea di cosa sarebbe accaduto in futuro. Nel 1972 il governo degli Stati Uniti fondò addirittura un ufficio il cui compito era studiare gli effetti a lungo termine di alcune leggi, l’Office of Technology Assessment.
Negli anni Ottanta, però, la futurologia ha perso il valore che le era stato assegnato fino a quel momento, anche perché sempre più persone hanno cominciato a spacciarsi per studiosi del campo delle previsioni mentre in realtà stavano solo cercando di vendere qualcosa. Per questo tendiamo ad associare la futurologia alla fantascienza e a discorsi new age in cui non c’è nulla di scientifico: anche il nome in italiano non aiuta, ricorda cose tipo “astrologia”, mentre in inglese si usa “futurism“. L’Office of Technology Assessment fu chiuso nel 1995. Paradossalmente, tra l’altro, i progressi tecnologici sono accelerati da quando la futurologia ha smesso di essere considerata una cosa seria: proprio per questo, secondo Manjoo, dovrebbe esserci un dibattito serio su come avvengono i cambiamenti nei prodotti tecnologici, nel software e nelle biotecnologie.
La fine delle previsioni, "Il Post", 23-07-16.

Il grande inganno delle app gratuite.

Pokémon Go – lo sappiamo che ormai sapete cos’è – è un’app gratuita, eppure ha già fatto tantissimi soldi. L’ha fatto grazie agli acquisti in-app, quelli che permettono – all’interno dei giochi – di fare certe cose meglio o più in fretta. È un modello che si chiama “Freemium”, in cui si offrono al consumatore due prodotti: uno gratuito e uno, migliore, a pagamento. Un video di Vox ha spiegato utilizzando la psicologia comportamentale i meccanismi con cui giochi come Pokémon Go riescono a convincerci a pagare per finire più in fretta giochi gratuiti. Inizia tutto con due concetti molto semplici: si deve far credere all’utente che stia spendendo “Pokésoldi” o “caramelle” (non dollari o euro) e si deve convincerlo che quell’acquisto sia indispensabile per finire il gioco. Molti giochi di questo tipo sono infatti pensati per rendere quasi impossibile vincere senza pagare: o comunque rendono frustrante aspettare o faticare per cose che altri hanno ottenuto più in fretta, pagandole.


lunedì 18 luglio 2016

James Paterson, il re Mida degli scrittori.

Al terzo posto della classifica dei personaggi famosi più pagati nel 2016, realizzata come ogni anno dalla rivistaForbes, c’è lo scrittore americano James Patterson, che ha guadagnato 85 milioni di euro. Patterson è nato nel 1947, ha iniziato a lavorare come pubblicitario e ha pubblicato il suo primo thriller, The Thomas Berryman Numbernel 1976. Da allora ha pubblicato più di 150 libri, soprattutto thriller, ma anche qualche libri per ragazzi e cinque saggi.
Se si considerano solo quelli per adulti, Patterson ha pubblicato 100 romanzi, di cui alcuni episodi di una stessa serie; soltanto nel 2016 ne sono usciti quattro. I libri per ragazzi sono 49, di cui due pubblicati nel 2016. L’ultimo libro uscito in Italia, pubblicato da Longanesi a giugno, è Private L.A., pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti 2013. Nel 2014 una giornalista del Telegraph ha fatto un conto delle pagine scritte da Patterson fino a quel momento: erano 45.651.
Patterson in realtà non scrive direttamente tutti i suoi libri, ma assolda una squadra di scrittori per farlo al suo posto. Non è un segreto, sulle copertine dei libri è indicato anche il nome del co-autore che, di fatto, ne ha scritto la maggior parte. “James Patterson” non è soltanto un marchio: è comunque lui a decidere la trama di ogni romanzo pubblicato a suo nome, e segue da vicino la scrittura di ogni romanzo, rivedendo ogni parte dei libri con i collaboratori, che sono più di venti. Per loro collaborare con Patterson è un modo per farsi un nome come autori di thriller.
Nel 2010 il New York Times Magazine spiegò in un lungo articolo come vengono scritti i romanzi di Patterson. Solitamente Patterson scrive un dettagliato schema della trama, lungo anche 50 pagine, e lo consegna a uno dei suoi collaboratori: ogni capitolo viene poi letto e rivisto, a volte riscritto, da Patterson. Non è la Little Brown a pagare questi scrittori, ma lo stesso Patterson. Per i libri per ragazzi, i collaboratori non lavorano solo con Patterson ma anche con un editor specializzato nel genere, che rivede e corregge tutti i capitoli prima di passarli a Patterson. La scelta dei collaboratori non segue una regola precisa: ad esempio, la scrittrice svedese Liza Marklund è stata assunta per aiutare Patterson ad avere successo anche nei paesi scandinavi, dove i suoi libri erano poco letti; Michael Ledwidge invece aveva pubblicato qualche giallo a suo nome proprio grazie a Patterson, che gli aveva dato un parere su un suo manoscritto perché avevano frequentato la stessa università.
Questo metodo ha permesso a Patterson di superare nei guadagni tutti gli altri autori di bestseller contemporanei: secondo un’analisi del 2010 di Nielsen BookScan, una delle aziende che si occupano delle statistiche sulle vendite dei libri, anche mettendo insieme le vendite di John Grisham, Stephen King e Dan Brown non si raggiunge il numero complessivo di copie vendute da Patterson. Patterson è stato il primo autore a vendere più di un milione di ebook, nel 2010.
Finora i suoi romanzi hanno ispirato quattro film: a differenza di altri autori che guadagnano molto coi diritti cinematografici, le entrate di Patterson dipendono soprattutto dalle vendite dei libri. Dal 1976 al 2014 ha venduto più di 300 milioni di copie. Tra i pochi a poter reggere il confronto c’è Stephen King, che però ha avuto più tempo per accumularle: ha iniziato a pubblicare negli anni Settanta diventando subito famoso, mentre il primo successo importante di Patterson èRicorda Maggie Rose – da cui è stato tratto il film Nella morsa del ragno, con Morgan Freeman – uscito nel 1993).
Ogni anno Forbes mette insieme anche la lista degli scrittori più pagati. Quella del 2016 non è ancora uscita, ma in quella del 2015 Patterson era al primo posto, seguito da John Green, autore di Colpa delle stelle, con 23 milioni di euro, e Veronica Roth, autrice della trilogiaDivergent, con più di 20 milioni di euro. Sia Green che Roth scrivono libri del cosiddetto genere “Young Adult”, o “YA”, cioè quei libri per ragazzi tra i 14 e i 20 anni che variano dal fantasy e dalla fantascienza, ai romanzi rosa: è un genere che sta avendo molto successo commerciale negli ultimi anni, anche tra i lettori adulti, in parte grazie alla popolarità data a questi romanzi dagli adattamenti cinematografici. Patterson comunque ha battuto di molto i guadagni di questi autori, con 80 milioni di euro guadagnati tra il giugno del 2014 e il giugno del 2015.
Perché lo scrittore James Patterson guadagna tanto, "Il Post", 15-07-16.

giovedì 14 luglio 2016

Che fare della casa natale di Hitler ?

Da qualche giorno in Austria si discute di che fine debba fare la casa dove nel 1889 nacque Adolf Hitler e che si trova a Braunau am Inn, nel nord del paese. L’attuale proprietaria si è sempre rifiutata di venderla, ma la coalizione di governo vuole presentare un progetto di legge per espropriarla. Se la proposta verrà votata dal Parlamento austriaco, la destinazione della casa sarà decisa da una commissione composta da 12 persone provenienti dalla politica, dalla pubblica amministrazione, dalle università e dalla società civile.
Il governo è preoccupato che la casa possa diventare un luogo di pellegrinaggio per i neonazisti. Il ministro degli Interni, Wolfgang Sobotka, ha dunque proposto di demolirla; altri, come il vicecancelliere Reinhold Mitterlehner, vorrebbero trasformarla in un museo o creare al suo interno un progetto con valore educativo. Altri ancora, invece, per togliere al luogo ogni senso storico e politico, hanno proposto di aprire al suo interno un supermercato o una stazione dei pompieri.
Fino al 1956 la casa è stata la sede della biblioteca civica; poi venne restituita all’ex proprietaria, che l’ha messa in affitto e che si è sempre rifiutata di venderla. Lo stato ha preso in affitto la casa a partire dal 1972 e attualmente paga circa 4.800 euro al mese. Negli ultimi anni l’edificio ha ospitato un’organizzazione che lavora con le persone disabili, ma è vuota e inutilizzata dal 2011 perché la proprietaria, a cui spetta l’ultima parola, ha ripetutamente respinto le proposte fatte dallo stato per il suo utilizzo. Fuori dalla casa, su suolo pubblico e non sulla facciata perché la proprietaria ha negato anche questa richiesta, c’è una targa commemorativa con scritto: «Per la pace, la libertà e la democrazia, mai più il fascismo. Milioni di morti ricordano». Non compare il nome di Hitler, che nacque lì dopo che la famiglia affittò la casa dagli antenati dell’attuale proprietaria e vi abitò solo per poche settimane, prima di trasferirsi a un altro indirizzo.

La casa di Hitler in Austria è un problema, "Il Post", 13-07-16.

Una libreria decisamente particolare.

Molti siti e riviste specializzati in architettura hanno pubblicato le immagini della libreria Zhongshuge di Hangzhou, nell’est della Cina, che ha aperto ad aprile ed è notevole per il design degli interni, particolarmente complesso. La libreria si trova nel quartiere di Binjiang, vicino al fiume Qiantang che attraversa la città. Già dalla strada si possono vedere molti dei libri in vendita, disposti su un muro trasparente. Gli architetti dello studio XL-MUSE di Shangai, che hanno progettato il negozio, hanno disposto gli scaffali in modo da dare l’idea di “una conversazione oltre il tempo” tra i libri; hanno inoltre posizionato degli specchi sul soffitto per dare l’impressione che le pile di libri si moltiplichino all’infinito.
La libreria ha quasi ovunque i colori caldi di una vecchia biblioteca: il pavimento ha il parquet e gli scaffali in legno sono illuminati da luci calde, così come i numerosi tavoli da lettura disponibili. C’è anche una sala tutta bianca con i libri disposti attorno a colonne: rappresentano gli alberi della “foresta dei libri”, dove le persone possono camminare per imparare e scoprire cose nuove. Come gli alberi producono ossigeno che serve per respirare, così le colonne sono una fonte di conoscenza.

C’è anche una parte dedicata ai libri per bambini, dal design molto ricercato: i soffitti sono anche qui ricoperti di specchi mentre gli scaffali sono a forma di nave dei pirati, giostra e mongolfiera, e sul pavimento c’è un disegno del Sistema Solare.
Le immagini della libreria Zhongshuge sono circolate molto sui social network cinesi, insieme a commenti enfatici che la definiscono “la più bella libreria del mondo”. Non sono però mancate le critiche: da un lato secondo alcuni la libreria è pensata solo per le persone ricche e non per gli studenti, altri invece si sono lamentati dell’assortimento, in cui ci sarebbero solo biografie di politici cinesi, guide di self-help e un paio di romanzi di Jane Austen.
Una libreria piena di specchi, "Il Post", 13-07-16.

martedì 12 luglio 2016

Chi ha dipinto quel quadro ?

Peter Doig è uno dei pittori viventi più conosciuti e quotati al mondo. È nato a Edimburgo ma è cresciuto tra Trinidad, l’isola più a sud dei Caraibi, e il Canada. Di recente Doig è finito sui giornali per un motivo che non riguarda uno dei suoi successi artistici, come era accaduto in passato per le sue vendite record alla casa d’aste londinese Sotheby’s: è stato citato in giudizio da un uomo che sostiene di essere in possesso di un suo quadro di grande valore, quadro che però Doig sostiene di non avere mai dipinto. E un tribunale statunitense ha deciso che per vincere la causa Doig deve dimostrare di non avere mai realizzato quell’opera. Non era mai successa prima una cosa del genere: il New York Times ha parlato di “uno dei casi di autenticazione artistica più strani nella storia recente”.
Questo è il quadro.
L’uomo che ha fatto causa a Doig – e che chiede 5 milioni di dollari di danni, e una dichiarazione del tribunale che sostenga che il quadro sia autentico – si chiama Robert Fletcher, ha 62 anni ed è un’ex guardia carceraria del Thunder Bay Correctional Center, una prigione che si trova a circa 15 ore di macchina a nord-ovest di Toronto. Fletcher sostiene di avere conosciuto Doig nel 1975, quando l’artista stava frequentando un corso di arte alla Lakehead University, a Thunder Bay, in Ontario; sostiene anche che a un certo punto Doig fu incarcerato nella struttura in cui Fletcher lavorava per un’accusa legata all’uso di LSD, e che proprio in quel periodo lo vide realizzare il quadro, una tela in acrilico di un deserto roccioso, senza titolo. Il quadro è firmato “Pete Doige 76”, un nome leggermente diverso da quello del famoso pittore scozzese.
Fletcher ha raccontato di avere comprato il quadro per 100 dollari proprio da “Pete Doige”, senza sospettare nulla del suo valore reale. Cinque anni fa, ha detto Fletcher, un suo amico ha notato il quadro e gli ha detto che secondo lui era stato fatto da un artista famoso. Fletcher è andato a cercare dei video di Doig su internet: ha riconosciuto le espressioni facciali e lo stile di quello che lui sostiene essere l’autore del quadro. Ha così deciso di contattare una galleria d’arte in Ontario: lui e il direttore della galleria, Peter Bartlow, hanno analizzato meglio il quadro e hanno concluso che contiene molti tratti tipici delle opere di Doig, per esempio il paesaggio disegnato a strisce orizzontali e la presenza di uno specchio d’acqua e di tronchi sporgenti. I due hanno anche mandato un’immagine del quadro a un’esperta di Sotheby’s, che ha riconosciuto lo stile di Doig, ma che poi ha specificato al tribunale di non avere autenticato formalmente l’opera.
Doig ha fatto una ricostruzione diversa dei fatti. Ha detto che nel 1976, l’anno in cui Fletcher sostiene sia stato realizzato il quadro, lui viveva a Toronto, non era mai andato a Thunder Bay e non era mai stato incarcerato. Doig ha anche detto di avere cominciato a dipingere su tela solo dalla fine del 1979 e di avere individuato insieme al suo avvocato il vero autore di quel quadro. Sarebbe un uomo chiamato Peter Edward Doige, morto nel 2012: la sorella, Marilyn Doige Bovard, ha confermato che nella seconda metà degli anni Settanta Doige frequentava la Lakehead University, che aveva trascorso un periodo a Thunder Bay e che dipingeva. Un ex insegnante di arte della prigione in cui lavorava Fletcher ha riconosciuto Doige in una foto della sorella: ha detto che l’uomo incarcerato per uso di LSD in quel periodo e che dipinse il quadro senza titolo fu proprio lui, Doige, e non Doig (il New York Times ha fatto delle ricerche per capire se Doig fosse mai stato incarcerato al Thunder Bay Correctional Center, senza però trovare informazioni precedenti al 1985).

Bartlow, il direttore della galleria d’arte a cui si è rivolto Fletcher, sostenne inizialmente che Doig volesse disconoscere la sua opera perché era imbarazzato di quel periodo della sua vita; ma Doig non ha mai negato l’uso di LSD in passato. Ora, scrive il New York Times, Bartlow sostiene che Doig non voglia ammettere di avere usato lo stesso stile e le stesse composizioni per quarant’anni. Il processo comincerà il mese prossimo di fronte a una Corte distrettuale dell’Illinois. Anche se dovesse vincere Fletcher, non è detto che al quadro verrà attribuito un valore alto, visto che è stato disconosciuto dal suo autore; ma sarebbe comunque una decisione che avrebbe delle ripercussioni sul mondo dell’arte e che in futuro potrebbe impedire ad artisti che non hanno le disponibilità finanziarie di Doig – e che non sono in grado di portare avanti una causa così complicata – di togliere il loro nome su lavori di altri.
Di chi è quel quadro ?, "Il Post", 12-07-16.