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domenica 31 luglio 2016

La giustizia italiana è lenta come una lumaca ?

È l’ultimo paradossale paradosso della giustizia italiana. Ogni giorno, nelle aule di qualche tribunale civile, ci sono giudici che devono decidere se un cittadino abbia diritto a essere risarcito per la lentezza di altri giudici. Ma nello stesso giorno, nelle aule dei tribunali amministrativi regionali, altri giudici processano l’amministrazione dello Stato, colpevole di non aver pagato ad altri cittadini un risarcimento che un giudice civile aveva già riconosciuto fosse dovuto.

Non è uno scioglilingua, non è un assurdo gioco dell’oca: è l’ultima follia della legge Pinto, varata nel 2001 dal governo Amato proprio per fare argine a migliaia di richieste di danni per la lentezza dei processi penali e civili, presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La legge Pinto stabilisce quale sia «la corretta durata dei processi» individuandola in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado, in un anno per la Cassazione. Il problema è che la giustizia italiana non rispetta quasi mai quei criteri. Così il numero di cause basate sulla legge Pinto è in continuo aumento: i ricorsi erano stati 3.580 nel 2003, sono saliti a 49.730 nel 2010, a 53.320 nel 2011, a 52.481 nel 2012, a 45.159 nel 2013, l’ultimo anno con dati ufficiali. E anche i costi aumentano. I radicali stimano che il danno provocato dalla legge Pinto sui conti pubblici sia di circa 1 miliardo.


Un muro di gomma e di vergogna


Ovviamente il governo italiano fa di tutto per non pagare quel che dovrebbe. Fa melina, come si dice in gergo calcistico: oppone un muro di gomma, inevitabilmente giudiziario. Altrettanto inevitabilmente, le vittime della “giustizia lumaca” insistono e fanno causa una seconda volta, aprendo un nuovo contenzioso. Negli ultimi anni, il processo per il mancato risarcimento dopo un processo è diventato la regola e ha prodotto un disastroso effetto a catena: i Tar sono sommersi dai ricorsi di cittadini in lotta contro il ministero della Giustizia che non paga.


Nel 2003 i provvedimenti emessi dai giudici amministrativi erano stati 40; nel 2010 erano già 189. Da allora è stata un’escalation: 1.021 sentenze nel 2012; 2.178 nel 2013, 4.102 nel 2014, 6.522 nel 2015. Alla fine del giugno di quest’anno siamo già arrivati a 3.792 provvedimenti. Si calcola che un processo amministrativo su otto, ormai, riguardi i contenziosi tra cittadini e il ministero.

Insomma, è una follia, un mostro che si autoalimenta. Sono convinto che se cercassimo di far capire questo paradosso a un americano, o a un inglese, non ci riusciremmo. Forse non ci arriverebbe nemmeno un cittadino del Burkina Faso, paese la cui giustizia non ha mai avuto (diciamo così) un Cesare Beccaria. Ma oltre che una follia è anche una vergogna. Cui di recente s’è aggiunta l’indecorosa furbata della legge di stabilità 2016, che ha modificato la legge Pinto solo per renderne più difficile l’applicazione. Se ne sono accorti i radicali, nessun altro ha protestato. I giornali non ne hanno scritto (tranne Tempi, a gennaio, e Panorama). Insomma, si è cercato di risolvere il problema alla fonte: se la legge Pinto costa troppo, oltre a non pagare, rendiamo più difficili anche le regole per avviare una richiesta d’indennizzo.

I trucchi adottati sono insidiosi: per avere diritto al ricorso, l’imputato di un processo penale deve presentare «un’istanza di accelerazione delle udienze almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole di durata». Quando il suo giudizio arriva in Cassazione, l’imputato «deve fare istanza due mesi prima dello spirare del termine». Chi vuole fare ricorso deve stare lì con il cronometro per calcolare il momento giusto. In attesa di un giudice a Berlino. O magari in Burkina Faso.