di A. Lalomia
Il dibattito su crescita e occupazione in tempo di crisi si è arricchito di un prezioso volumetto L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa 1 . Ne sono autori due giovani ma già autorevoli economisti italiani, Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, che con il loro pamphlet hanno sollecitato una serie di riflessioni originali ed acute
sulle politiche adottate dall’Unione Europea per far fronte all’emergenza economica e sulla stessa fragilità della costruzione comunitaria, che rischia di disgregarsi a causa proprio dell’incapacità di affrontare in
modo concreto ed equo la crisi.
Ciò che ritengo particolarmente importante
dell’opera dei due autori è il fatto di aver ‘riattualizzato’ John Maynard Keynes, di avergli restituito un ruolo di centralità
all’interno del dibattito economico, di averlo proposto come ragionevole e valida
alternativa alle politiche fallimentari che si stanno portando avanti da anni
per cercare di spegnere l’incendio che sta devastando le economie di intere
aree del continente europeo.
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John Maynard Keynes |
Adesso che anche la Confindustria ha espresso
il suo netto dissenso su queste politiche, auspicando interventi che sono in
linea con il pensiero di Keynes, questo gigante dell’economia riacquista quel primato che gli è stato negato per anni, anche sull’onda emotiva di stolti ed
infondati pregiudizi politici, per cui lo studioso britannico è stato
etichettato (e in certi ambienti
continua ad essere etichettato) come il sostenitore di un’economia
para-marxista. In realtà, solo chi è in malafede o non conosce nulla del pensiero di Keynes può
esprimere giudizi così superficiali e beceri. Keynes
-con buona pace di quanti continuano a definirlo comunista- è
uno strenuo difensore del sistema capitalistico, ma si rende conto che questo sistema, in quanto intrinsecamente instabile, è minato da
contraddizioni e da errori, che alla lunga potrebbero implicarne l’implosione. Egli propone quindi che, proprio nei momenti di crisi economica, lo
Stato, anziché ritirarsi e lasciare al mercato il compito di autoregolamentarsi, intervenga energicamente per indirizzare l’economia verso sentieri virtuosi, che consentano un
riassorbimento della disoccupazione, il massiccio sostegno della domanda
creando soprattutto nuovi posti di lavoro, l’introduzione di norme severe in
campo finanziario contro la speculazione, la tutela dei risparmiatori, una
selezione della platea di contribuenti, imponendo aliquote fiscali più robuste
ai detentori di grandi patrimoni, l’ampliamento del welfare.
Indicazioni che Franklin Delano Roosevelt cercherà di mettere in pratica, incontrando però forti
ostilità in alcuni ambienti legati al grande capitale, compresa una parte della
Corte Suprema.
Di alcuni dei temi affrontati nel testo ho parlato con Marco Passarella 2 , già docente presso l’Università di Bergamo e attualmente ricercatore presso la prestigiosa Leeds University Business School.
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Note
1 Qui per la lettura di alcune pagine del saggio.
Sulle diverse strategie per uscire dalla crisi seguendo gli insegnamenti di Keynes, consiglio senz'altro l'ottimo Keynes blog. A proposito dell'economista britannico, vorrei segnalare questo video storico, dove Keynes illustra i benefici derivanti dalla sospensione del Gold Standard.
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1. Quasi tutte le recensioni del libro lodano la
vostra competenza e il vostro sforzo di
rendere comprensibili al grande pubblico anche concetti non sempre facili.
In effetti, il saggio, oltre ad adottare una prospettiva originale rispetto a quella del pensiero economico prevalente, ad essere ben strutturato, agile
ma rigoroso, ricco di dati, è chiaro, scorrevole, con un linguaggio sobrio ma
elegante, didatticamente magistrale, direi. In alcune recensioni,
però (p.e. qui),
si fa notare che definire ‘di
destra’ l’austerità non corrisponde al
vero, perché, ad esempio (come peraltro
ricordate voi stessi), Enrico Berlinguer
già nel 1977 "lanciò la parola d'ordine dell’ ‘austerità’ in
contrapposizione ad un modello di sviluppo «fondato su quella
artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi,
di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle riserve, di dissesto
finanziario» ". Per non parlare del fatto che la linea del rigore finanziario
perseguita dall’attuale governo è sostenuta dallo stesso Presidente della Repubblica e da
autorevoli esponenti di partiti certo non di destra
(penso ad esempio ad Ichino).
Per quanto mi riguarda, il titolo mi sembra più che altro una garbata provocazione, rivolta forse più a certi ambienti della sinistra, che hanno accettato e continuano ad
accettare frettolosamente misure finanziarie molto discutibili (e che finora hanno aggravato lo scenario generale), piuttosto che
alla destra. Sarebbe, infatti, ingeneroso etichettare
la destra come una forza politica senza alcuna distinzione interna, come un blocco
reazionario compatto e pregiudizialmente ostile nei confronti dei ceti più deboli. Al riguardo, vorrei ricordare che un economista del calibro di
Antonio Martino, tra i più fedeli seguaci delle teorie di Milton Friedman (che considera come il suo maestro) e ben poco sensibile al messaggio di J. M. Keynes, si è più volte espresso contro la decisione di ‘costituzionalizzare’ il
pareggio di bilancio, definendo la decisione del governo una vera e propria sciocchezza -che oltretutto, vorrei aggiungere, non
ha minimamente rassicurato i mercati, né allentato in modo definitivo la morsa dello spread. (Per inciso, Martino, a
fronte della debolezza dell’Euro, auspica il ritorno alla lira.) Il pareggio del bilancio, il mantra della Destra Storica (ottenuto con il tributo odiosissimo della
‘tassa sul macinato’) e dell’attuale
leadership politico-finanziaria europea, significa poco o nulla e, anzi, si
rivela una misura sterile, demagogica, del tutto controproducente, irrazionale
e autolesionista (un autentico boomerang), se si risolve soltanto in nuovi,
pesanti tributi, tagli (ma non alle spese forsennate della politica nazionale e degli enti locali),
privatizzazioni attuate senza logica, compressione dei diritti sindacali, non solo
non crea nuove opportunità di lavoro, ma,
al contrario, punta in modo quasi maniacale sui licenziamenti, non colpisce i grandi
capitali, i privilegi, e mantiene
inalterati gli sprechi e le disuguaglianze.
Esso equivale soprattutto a bruciare
redditi che potrebbero alimentare la domanda (che quindi
rimarrà fiacca, con ulteriore indebolimento delle aziende, che saranno
costrette a rinunciare agli investimenti e, anzi, ad espellere ancora di più la forza lavoro in eccesso), redditi su cui il fisco
potrebbe imporre prelievi significativi, finalizzati proprio al pareggio del
bilancio. Alla luce di tale premessa -e di altri ragionamenti che voi sviluppate
con grande lucidità nel testo-, non sarebbe stato più opportuno dare al libro il titolo L’austerità
è demenziale e sta distruggendo
l’Europa ? E questo con tutto il
rispetto per chi soffre di disturbi del comportamento.
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La sede della BCE a Francoforte |
Partiamo
dal titolo. Non possiamo nascondere che la nostra scelta abbia (anche) una
valenza provocatoria. In effetti, a partire dagli anni novanta le esperienze di
governo delle forze di centrosinistra in Italia (si pensi ai governi Amato,
Ciampi, Dini, Prodi e d’Alema), in Europa (si pensi, a titolo di esempio, al
governo Schroeder in Germania o al governo Zapatero in Spagna) e negli Stati
Uniti (si pensi alla doppia amministrazione Clinton), sono, infatti, state tutte
contrassegnate da una particolare attenzione per il "rigore" dei
conti pubblici. Anche dopo lo scoppio della crisi cominciata nell’estate del
2007, le maggiori forze del socialismo europeo hanno preferito aderire
acriticamente alla litania rigorista proveniente dalla Banca Centrale Europea (d’ora
in poi BCE) e dal governo conservatore tedesco, anziché proporre una autonoma
analisi critica delle cause ultime delle difficoltà dell’Eurozona. Quando definiamo
quelle politiche "di destra" ci proponiamo, perciò, di andare oltre
la mera topologia parlamentare. In particolare, le politiche di "austerità"
sono di destra per due ragioni, una di ordine politico-antropologico, ed una di
ordine economico-sociale. Anzitutto, la cultura
dell’austerità è di destra perché ingenera nelle classi lavoratrici una
accettazione acritica del peggioramento delle proprie condizioni materiali.
Tale condizione viene riguardata come l’esito di leggi economiche "naturali"
("non si può vivere al di sopra dei propri mezzi"), perciò incontestabili
e, in ogni caso, immodificabili. Quel che è peggio, essa induce un
atteggiamento passivo nei confronti delle politiche adottate dalle classi
dominanti per scaricare il peso della crisi sui lavoratori e gli strati sociali
più deboli. La cultura dell’austerità è, dunque, di destra nel senso che essa veicola
una concezione conservatrice, restauratrice, a tratti reazionaria, dei rapporti
sociali. D’altra parte, le politiche
di austerità sono di destra proprio perché esse perseguono la risoluzione della
crisi mediante una via che passa per l’inferno della disoccupazione di massa,
della precarizzazione delle condizioni di lavoro, della distruzione dello stato
sociale, della deflazione competitiva e, perciò, della stessa messa in
discussione dell’unità europea.
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Franklin Delano Roosevelt |
2. Come già accennato sopra, il debito sovrano
non è il vero problema -basti pensare al Giappone, che ha un debito ben più alto del
nostro, ma non è al centro di speculazioni- e inserire il pareggio del bilancio in Costituzione serve a ben poco. Questa verità elementare
(pareggio del bilancio) era stata
capita molto bene da J. M. Keynes e F. D. Roosevelt cercò di metterla in
pratica, pur tra mille difficoltà creategli dal grande capitale, che estendeva
la sua influenza anche su settori della Corte Suprema.
A parte quanto evidenziato in altri punti del testo, che cosa
alimenta, secondo lei, questo estenuante leit-motiv,
secondo cui, appunto, bisogna aggredire la spesa pubblica, altrimenti si perde
credibilità a livello internazionale e quindi nessuno comprerà più i nostri bond, né investirà nel nostro Paese e di conseguenza lo Stato
non potrà più pagare il suoi dipendenti ? Una certa sclerosi mentale, per cui, arrivati
ad un certa età, le idee diventano sbiadite, confuse, disordinate, i nostri leader non hanno più la forza o il coraggio di rinunciare ai cari e rassicuranti schemi che hanno accompagnato la loro vita ? I diktat
della Germania, che quanto ad autentico -non quello che dichiara, considerato
da molti falso (d’altronde, non è l’unica a dire
le bugie)- debito pubblico, non sta certo meglio
di noi e inoltre pratica una politica salariale su cui si potrebbe discutere) ? Doppi
fini di casta, su cui si preferisce glissare ?
Eppure i risultati del rigore parlano chiaro. Tagli e tasse (ma solo, le seconde, per i ceti medio-bassi, perché il
grande capitale è rimasto praticamente indenne)
non hanno risolto granché, causando anzi un crollo dei consumi e degli
investimenti, un aumento della disoccupazione, un’ulteriore compromissione di quel che rimane del
welfare (basti pensare all’accanimento contro le pensioni), il
persistere di un forte disavanzo pubblico, un inasprimento delle tensioni
sociali e fughe disperate nell’annientamento della propria persona. Le banche, già aiutate
generosamente con montagne di fondi pubblici
(cioè con i nostri soldi), erogano sempre meno prestiti sia alle imprese (il
numero dei fallimenti è aumentato in misura impressionante) che ai singoli.
Per quanto riguarda l’Italia, gli ultimi dati del MEF sono fin
troppo espliciti: nel primo
trimestre del 2012 le entrate fiscali
sono aumentate soltanto dello 0,7% rispetto allo scorso anno e sono addirittura
diminuite del 6,2% nel mese di marzo; gli incassi relativi all’IVA hanno subito
una flessione dello 0,1% nel primo trimestre 2012 e dell’1,8% a marzo (malgrado
l’aumento dell’inflazione, superiore ormai al 3%). Queste cifre indicano chiaramente che
l’Italia si è ormai avvitata in una spirale recessiva che rischia di diventare
ingovernabile, caratterizzata in particolare da una forte caduta
della
domanda.
E malgrado questo,
contro ogni evidenza, si continua imperterriti in politiche restrittive,
destinate a peggiorare la situazione.
Quello
dell’Eurozona è un problema di deficit estero, non di deficit del bilancio statale.
Detto in termini semplici, il divario competitivo tra economie "forti"
(o "centrali") del Nord-Europa ed economie "deboli" (o "periferiche")
del Sud-Europa si è tradotto, dall’introduzione dell’euro, in surplus
sistematici della bilancia commerciale (e più in generale della bilancia dei
pagamenti) dei primi, e in deficit, altrettanto sistematici, delle esportazioni
nette (ma anche in oneri crescenti sui capitali esteri) dei secondi. Tali
deficit hanno riguardato, anzitutto, il settore privato e solo in un secondo
momento, a causa dei salvataggi bancari, dei cosiddetti "stabilizzatori
automatici" (sussidi di disoccupazione, ecc.) e dell’aumento dei tassi di
interesse reali sui titoli del debito, si sono ripercossi sui bilanci dei
settori pubblici dei paesi deboli. Il fatto è che l’adozione della valuta unica
implicava, per definizione, l’impossibilità di aggiustamento del cambio per i
paesi che vi aderivano. Sennonché, i divari nazionali nella dinamica del costo
del lavoro per unità di prodotto (ossia nel rapporto tra salario per unità di
lavoro e prodotto per unità di lavoro) non potevano che tradursi in squilibri
crescenti dei conti esteri, e dunque in una sofferenza debitoria anch’essa
crescente del settore privato (compreso il settore bancario) dei paesi che non
fossero riusciti a tenere il passo dell’economia più forte, quella tedesca. In
tal senso, la crisi americana cominciata nell’estate del 2007 ha certamente
rappresentato l’elemento di innesco della crisi europea, ma non ne costituisce
la causa prima. Con riferimento a quest’ultima, l’adozione di politiche di austerità,
ossia di provvedimenti di restrizione fiscale (taglio delle spesa pubblica
corrente e aumento della pressione fiscale) e di ulteriore precarizzazione del
mercato del lavoro, non deve essere considerata "irrazionale". Essa,
ha, invece, lo scopo preciso di perseguire il riequilibrio della bilancia dei
pagamenti mediante una compressione, ad un tempo, dei consumi interni e del
costo del lavoro, generando per questa via una riduzione delle importazioni ed
un aumento delle esportazioni. Tale politica, se applicata in un piccolo paese
esportatore dotato di sovranità valutaria, per quanto "costosa" sul
piano sociale, può effettivamente portare ad un miglioramento della bilancia
commerciale e, per questa via, ad una riduzione del debito estero. Essa si
rivela, tuttavia, una ricetta dai soli effetti recessivi nella misura in cui si
tenti di applicarla, come si sta facendo, ad un’intera area valutaria (quella
dell’Euro) il cui saldo commerciale consolidato con il resto del
mondo è tendenzialmente nullo. Ma, di nuovo, l’irrazionalità è solo apparente:
in questo caso, l’austerità predicata dalla BCE diviene, infatti, funzionale ad
un disegno complessivo di ristrutturazione del sistema produttivo europeo ad
uso e consumo dei capitali dei paesi "forti", e in particolare dell’industria
tedesca.
3. Lo
scenario che ha disegnato è molto suggestivo.
Tuttavia, secondo altri studiosi, le cause della crisi economica, a livello europeo, sono
molteplici.
Per esempio, si è fatto osservare che la crisi è iniziata più o meno a partire dall’adozione dell’Euro e
dall’ingresso della Cina nella WTO, un’opportunità che le ha permesso di agire in piena
libertà su tutti i mercati, in particolare sotto il profilo delle esportazioni di
manufatti, in un regime di concorrenza sleale che questo paese pratica ormai da
anni. In effetti, non è un mistero per nessuno che la Cina, con le sue
esportazioni di merci spesso scadenti ma altamente competitive sul piano del
prezzo (grazie al ricorso al dumping, a costi di produzione più bassi anche per
l’assenza di un vero interlocutore sindacale, al controllo poliziesco
sulla società), ha messo in ginocchio
interi comparti produttivi, come ad esempio quello tessile italiano. (Resta da
chiedersi, peraltro, come sia possibile che ad un membro della WTO -con l’obbligo, quindi, di rispettare i diritti umani, civili e
politici- sia consentito mantenere un regime di puro stampo dittatoriale, dove il ricorso alla tortura, così come il traffico degli organi dei ‘giustiziati’, spesso per motivi politici o
religiosi, rappresentano la norma. Per non parlare
dell’occupazione militare del Tibet.)
Alla ‘questione cinese’
vanno aggiunte le pratiche spregiudicate di grosse banche USA, la
crisi dei subprime, la politica dei prestiti facili, politica che ha costretto
il Tesoro americano a sostenere massicciamente interi comparti produttivi, a
partire da quello bancario ed automobilistico, aumentando però ancora di più il
deficit pubblico. Senza contare l’enorme massa di derivati che vaga a livello
planetario, che è stimata intorno ai 700.000 miliardi di dollari e i giudizi,
tanto negativi quanto sommari e spesso strumentali, emessi dalle agenzie di rating (al centro peraltro di indagini giudiziarie avviate sia in Italia che in
altri paesi).
Il sostanziale fallimento della moneta unica europea avrebbe
acuito ancora di più le difficoltà di buona parte delle economie
dell’Eurozona. D’altra parte, l’indebitamento pubblico statunitense sarebbe
all’origine della cautela con cui Washington si muove nei confronti di
Pechino, visto che, com’è noto, quest’ultima detiene il più grosso
pacchetto estero di titoli di stato americani. Insomma, la Cina non solo non aiuterà i paesi a rischio di
default, come si sottolinea nel libro
(e infatti si è visto quanto siano serviti i patetici tentativi del passato governo, ma anche dell’attuale esecutivo, di
convincere la finanza cinese ad acquistare i nostri bond), ma sembra che stia
facendo di tutto per accelerare la crisi, in una prospettiva che
dovrebbe permetterle, alla fine, di impadronirsi di quei gioielli dell’economia
europea che non sono ancora in suo possesso. In quest’ottica, l’economia viene concepita
come uno strumento alternativo per raggiungere obiettivi che in passato si
ottenevano soltanto con il ricorso alle armi. Anche
se non si vuole accettare la teoria di un piano costruito a tavolino dai vertici di Pechino per mettere le mani
sui centri nevralgici dell'economia di interi paesi, viene da chiedersi da dove provengano gli enormi
flussi di capitali con cui si acquistano
-in contanti, un dato non trascurabile- , in Europa come
in altre aree geografiche, intere aziende con migliaia di
dipendenti e decine di migliaia di esercizi commerciali.
L’atteggiamento
degli italiani e degli europei in genere nei confronti della Cina è un indice
di quanto i vecchi pregiudizi colonialisti, con "l’altro da sé"
costantemente descritto come "barbaro" o "selvaggio", non
abbiano mai realmente abbandonato il Vecchio Continente. Mi faccia dire che
trovo particolarmente curioso (ma sintomatico) che la concorrenza venga
definita come "sleale" soltanto quando è il tessile italiano a
soccombere di fronte alla concorrenza cinese, mentre, naturalmente, la stessa
questione non veniva sollevata quando erano i prodotti tessili italiani a
sbaragliare la concorrenza internazionale grazie al bassissimo costo del lavoro
(che ci vede tutt’ora agli ultimi posti tra i paesi avanzati, addirittura
dietro a Grecia e Portogallo), ad orari di lavoro massacranti, e ad un’evasione
fiscale endemica e politicamente tollerata. Che le produzioni cinesi siano
limitate a magliette di bassa qualità e giocattoli è un altro mito da sfatare:
la verità è che la Cina ci surclassa, ormai, su tutti i fronti, comprese le
produzioni ad alto contenuto tecnologico. Sul Tibet e suoi diritti umani,
invito, poi ad un approfondimento che vada oltre la retorica manichea (e tutt’altro
che disinteressata) della cinematografia, quella sì davvero scadentissima,
hollywoodiana. Andrebbe, ad esempio, ricordato che il regime dei Lama ha rappresentato
per secoli una teocrazia feudale e reazionaria, segnata dall’uso sistematico
della tortura e della mutilazione, con un tasso di mortalità infantile tra i
più alti al mondo e un tasso di scolarizzazione tra i più bassi. Così come
andrebbe ricordato che la regione del Tibet è parte integrante della Cina da,
ad esempio, molto prima che esistesse uno stato italiano unitario, e che tale
unità territoriale è stata messa in discussione dalle potenze occidentali,
guarda caso, soltanto dopo la rivoluzione comunista. Insomma, se volessimo
davvero approfondire la nostra conoscenza delle contraddizioni, reali e
apparenti, di una gigantesca nazione-continente come quella cinese, le sorprese
non mancherebbero. Tornando alla crisi dell’Eurozona, certo la Cina non ci
salverà, perché, per ragioni di "tenuta interna", non potrà
rappresentare per molti anni ancora un mercato di sbocco (netto) per le
produzioni e per i capitali europei. Escludo, però, che la dirigenza cinese sia
interessata ad un’intensificazione della crisi europea: i governanti cinesi
agiscono sempre con una prospettiva di medio-lungo termine, non amano, anche
per ragioni culturali, gli shock economici e politici, e di certo sanno bene
che il loro paese ha ancora bisogno della domanda europea. No, davvero non è la
Cina il nostro problema.
4. Vorrei precisare che
l’annotazione sul tessile che ho fatto nella domanda precedente era puramente
esemplificativa e comunque direttamente legata alla realtà italiana. Quanto al dumping, mi sembra che sia ritenuto illegale dalla stessa WTO. Sul Tibet
(e forse anche su alcuni aspetti della realtà interna cinese), credo che le nostre posizioni siano destinate a non convergere, alla luce anche delle esplicite, reiterate, veementi denunce di Amnesty International e di altre agenzie che si occupano di
diritti umani. Ma potremmo anche
discutere su una certa demonizzazione del colonialismo, presentato quasi sempre come fonte di tutti i mali dei paesi in via di sviluppo o
emergenti.
Ciò premesso, torniamo invece a ciò che ci unisce, e in
particolare a J. M. Keynes. Il ruolo attivo dello Stato, nel nostro Paese, ha significato, e
significa, anche il controllo di pacchetti azionari di maggioranza di imprese considerate
strategiche (a partire da Finmeccanica,
ENI, Enel) e un esercito di dipendenti
pubblici, che in Italia ha raggiunto però già livelli considerevoli, e a fronte del quale non corrispondono servizi adeguati (basti pensare a come funzionano molti
ospedali, le ASL, le ferrovie e i trasporti pubblici in generale, le poste, per non parlare della burocrazia, che continua a pesare come un intollerabile fardello su moltissimi cittadini) .
Secondo lei, è possibile conciliare un potenziamento del ruolo
dello Stato in termini di occupazione e comunque di supporto
alle
imprese che vogliono assumere, con beni e servizi che siano concorrenziali, sul
piano del prezzo e della qualità, rispetto a quelli offerti dai privati ? Altrimenti si rischia soltanto di dilapidare
immensi capitali pubblici per creare occupazione sostanzialmente parassitaria e
comunque improduttiva, secondo una visione di statalismo oppressivo che francamente non mi sembra più accettabile. Io mi chiedo spesso, ad esempio, per quale motivo ci si ostini a
non privatizzare la RAI e a scaricare sui contribuenti il peso dei suoi
debiti (per le spese folli che fa) con l’odioso
balzello del canone.
A parte la patrimoniale
(v. oltre) e il sostegno a chi vuole investire in Borsa (oggi negletta da ampie fasce dei risparmiatori, una
realtà che considero scandalosa), quali modi concreti per uscire
dalla crisi esistono e in quali tempi, a suo giudizio, si potrebbe tornare,
adottandoli, alle condizioni precedenti ?
Quali insegnamenti di Keynes e di uno dei suoi interpreti più
originali, Hyman P. Minsky, che da
anni aveva anticipato la crisi attuale -un economista di cui lei è uno degli
studiosi più autorevoli e al quale lo scorso anno la Fondazione A. J. Zaninoni e il Dipartimento di Scienze economiche
"Hyman P. Minsky" dell'Università di Bergamo hanno dedicato un
convegno, con la sua partecipazione (qui per ascoltare la registrazione del suo
brillante intervento )-, si potrebbero seguire ?
La
logica del ragionamento di Keynes è semplice e inconfutabile. Dato che è il
volume effettivo della domanda di beni e di servizi a vincolarne la produzione,
e dato che la domanda espressa dallo Stato può sopperire, specie in momenti di
crisi, alla carenza di investimenti privati, le politiche fiscali (leggi: di
spesa) dovrebbero sempre avere natura anti-ciclica. Diversamente, non soltanto esse
finiscono per accentuare le tendenze cicliche, ma difficilmente sono in grado
di raggiungere gli obiettivi dichiarati. Ad esempio, il tentativo di comprimere
il deficit pubblico mediante politiche di tagli alla spesa e/o di aumento della
pressione fiscale produce una caduta della domanda aggregata, dei redditi e
della capacità di spesa dei soggetti economici, e dunque dello stesso gettito
fiscale, che può più che compensare i "risparmi" legati alla riduzione
di spesa o/o all’aumento delle aliquote. In tempi di crisi, la soluzione non
può essere, dunque, "meno spesa" o "più tasse" – senza
contare che, come è stato sottolineato in precedenza, e come ormai viene quasi
unanimemente riconosciuto nel dibattito accademico internazionale, le cause
ultime della crisi sono da ricondursi agli squilibri esteri dei paesi-membri
dell’Eurozona, e non ad un loro presunto eccesso di indebitamento pubblico. La via
d’uscita dalla crisi deve, invece, passare attraverso una maggiore presenza del
settore pubblico, non soltanto in veste di fornitore di ultima istanza della
domanda di beni e di servizi, ma nel ruolo di vero e proprio "pianificatore"
dell’investimento sociale. In particolare, lo Stato dovrebbe assumere il ruolo
di datore di lavoro di prima istanza della forza-lavoro inoccupata,
impegnandosi direttamente nella produzione di quei beni collettivi (si pensi
all’infrastrutturazione del territorio e ai servizi di rete, ma anche al
credito e alle assicurazioni) la cui produzione non può essere delegata alla
logica del profitto privato. A ben vedere, è questo, in tema di politica
economica, il vero elemento di innovazione della riflessione di Minsky rispetto
a quella di Keynes, e rappresenta un punto di contatto possibile tra la
tradizione di pensiero liberale-keynesiana e quella radicale-marxista.
5. L'Euro stenta sempre più visibilmente a reggere sotto il peso delle sue contraddizioni. Il suo sostanziale fallimento non è
nient’altro che la logica conclusione di un’idea sbagliata sul piano teorico,
un’idea che è stata messa in pratica in modo semplicistico, maldestro e frettoloso, con
una serie di improvvisazioni che riflettevano e riflettono la deplorevole
incapacità di molti paesi europei di mettersi d’accordo anche su temi di
fondamentale importanza, ma che limitano la sovranità nazionale, quali ad
esempio il fisco e le politiche salariali. Per non parlare poi
del fatto che l’adozione della moneta unica doveva essere seguita, in tempi
brevi, da un’integrazione economica e politica, cioè da un governo europeo (di cui tuttora non si vede nemmeno l’ombra). Una
varietà incredibile di politiche finanziarie, di modelli di welfare e assenza di un governo federale: ecco
quello che esiste oggi. Il destino di questa moneta, in sostanza, era segnato
sin dall’inizio, il suo fallimento era stato già annunciato da anni, come ha dimostrato
Wynne Godley, il quale, vent’anni fa, evidenziava in modo esplicito le carenze,
le ambiguità e i difetti del Trattato di
Maastricht, giudicando impossibile il successo di quanto si auspicava in esso. Per citare le sue parole : “La lacuna
incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per
l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non
esiste un qualunque progetto analogo, in termini comunitari, di governo
centrale. Semplicemente ci dovrebbe essere un sistema di istituzioni che
soddisfi a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente
esercitate dai governi centrali dei singoli paesi membri”. L’indebolimento dell’attuale governance comunitaria, a partire dalla BCE, che comunque non possiede gli strumenti per riforme
incisive, sta facendo il resto, compromettendo la stessa figura dell’attuale
Presidente, che pure, all’inizio del suo mandato, aveva fatto nascere speranze
ed aspettative, riducendo subito il tasso di sconto. Secondo lei, è ancora possibile rimediare a
questa politica superficiale, dilettantesca, pasticciata, ottusa ? Ed eventualmente in che modo ? Ridiscutendo i trattati costitutivi,
rinegoziando molti punti, approntando soprattutto un sistema
di investimenti pubblici e meccanismi di coordinamento delle politiche bancarie,
fiscali e salariali ? Che altro ? O
non è preferibile uscire subito dalla zona euro
(almeno si potrebbe svalutare la propria moneta), rischiando però la disintegrazione
dell’intero edificio comunitario ?
Se
la priorità è quella di salvare l’Unione Monetaria Europea, allora il primo
passo dovrebbe essere quello di modificare lo statuto della BCE. Questa
dovrebbe abbandonare l’obiettivo unico della stabilità dei prezzi, a favore di
quelli della piena occupazione della forza-lavoro e della stabilizzazione dei
valori finanziari. A tal fine, alla BCE dovrebbe essere concesso di intervenire
illimitatamente sui mercati primari dei titoli del debito pubblico per
stabilizzarne il corso e dunque i rendimenti. Ciò consentirebbe alle economie
periferiche di ridurre l’onere sul debito e di destinare tali risorse ad
investimento pubblico (meglio se in infrastrutture, formazione e ricerca). Il
rischio di tensioni inflazionistiche (che non siano da shock sui fattori di costo) è, in questa fase, praticamente nullo,
mentre basterebbe il semplice annuncio che la BCE è disposta ad attivare le
contromisure necessarie a contrastare efficacemente la speculazione sui debiti
sovrani per mettere fine ad ogni turbolenza sui titoli di Stato. Naturalmente, anche
una volta adottati tali provvedimenti, rimarrebbe pressoché inalterato il
problema del divario competitivo tra centro e periferie dell’Eurozona. Al fine
di ridurre gli squilibri commerciali e finanziari, si renderebbero, perciò,
necessari sia un piano massiccio di investimenti pubblici nelle economie
deboli, teso ad accrescerne la produttività del lavoro, sia un piano di
rilancio dell’occupazione e della domanda interna all’Eurozona, che, infine, un
meccanismo di riequilibrio dei differenziali salariali e inflattivi. Gli ultimi
due obiettivi potrebbero essere efficacemente perseguiti mediante l’introduzione
di uno "standard salariale europeo" che, ad un tempo, risollevi la
quota-salari sul PIL dell’Eurozona ed ancori la crescita dei salari nominali di
ciascun paese-membro all’andamento della bilancia commerciale. Per una
descrizione dettagliata di tale meccanismo rinvio al testo de "L’austerità
è di destra". La stessa efficacia degli Eurobond è, del resto, legata all’introduzione
di meccanismi del tipo appena descritto, nonché ad una maggiore integrazione
fiscale europea, che garantisca un flusso costante di trasferimenti dalle
economie forti a quelle deboli. In assenza di tale integrazione, lo strumento degli
Eurobond potrebbe, infatti, finire per contribuire ad estendere il "contagio"
finanziario all’intera area valutaria, anziché a mitigarne la portata. Quanto
all’annoso dilemma "Euro sì, Euro no", il punto è che il nostro
governo dovrebbe concordare con gli altri governi dei paesi periferici, Francia
inclusa, una via d’uscita. Se, infatti, la politica di potenza tedesca non
desse cenni di cambiamento, allora per il nostro e per gli altri paesi del Sud
l’unica soluzione per evitare la totale desertificazione produttiva sarebbe non
soltanto quella di un’uscita pilotata dalla moneta unica, ma anche una
ridefinizione degli stessi accordi di libera circolazione delle merci e dei
capitali con le altre economie dell’unione. Come abbiamo scritto nel libro, il
rilancio dell’unità europea potrebbe dover passare attraverso la chiara
evocazione dei rischi legati al suo totale fallimento.
6. A parte quanto evidenziato sopra sulla
costruzione comunitaria, quali altri provvedimenti, a livello europeo e nazionale, si
dovrebbero adottare per combattere la crisi, senza aggravare ancora di più gli squilibri sociali ?
Una riforma del sistema monetario internazionale, che però richiederebbe tempi biblici, viste le difficoltà per trovare punti d’intesa ?
La Tobin Tax, apparentemente
più rapida da realizzare, ma altrettanto problematica quanto all’efficacia,
perché richiede la collaborazione di tutti i paesi ?
La lotta all’evasione ?
La riforma del sistema fiscale (un sistema considerato tra i più iniqui in Europa) che preveda anche l’abolizione
del sostituto d’imposta (auspicata, per esempio, da Antonio Martino) ?
La patrimoniale, più volte invocata da Giuliano Amato e da
Warren Buffett ? In effetti, sembrerebbe essere la soluzione migliore, visto che
è stata già adottata -o è sul punto di
essere adottata- in altri contesti
geo-politici. Mi riferisco soprattutto
alla recente decisione del governo liberale dell’Ontario, di introdurre una sovrattassa
del 2 % su chi guadagna piu'
di 500.000 dollari all'anno. La misura, anche se colpisce
soltanto lo 0,2 % (circa 22.000 unità),
dei contribuenti della provincia canadese, dovrebbe servire (con nuove entrate
pari a 470.000.000 di
dollari a partire dal 2013) a ridurre il
deficit del bilancio e a riportarlo in
una situazione di parità entro cinque anni. Dopo di che verrebbe tolta. Purtroppo, in altri paesi, a cominciare dal nostro, non tutti sono
così virtuosi come il miliardario americano e il governo di Ottawa, anche se Luca di Montezemolo si è espresso più volte a favore di tale
misura.
Quali sono, secondo lei, i motivi di questa consistente, e spiacevole per noi, diversità ? E inoltre, in quale prospettiva andrebbe
inquadrato tale provvedimento ?
Imposte solo sui redditi o anche sui capitali ? E a partire da quale cifra e in che
percentuale ? Infine: condivide o
respinge l’idea che se si usasse la leva tributaria per i grandi patrimoni (quelli, per intenderci, superiori al milione
di €), appunto con un prelievo forzoso, questi stessi capitali prenderebbero la
via dell’estero ? Una dichiarazione quantomeno incauta e che certo non
contribuisce a dare ai nostri servizi di controllo tributario quell’immagine di
professionalità e di efficienza che dovrebbero meritare.
Una
maggiore equità fiscale, con una redistribuzione del carico dai redditi da
lavoro e dai consumi di base, ai redditi da capitale e alle rendite (nonché ai
consumi di lusso) è non solo moralmente auspicabile, ma potrebbe contribuire a
rinvigorire la domanda interna del nostro paese. L’idea che i capitali non
debbano e non possano essere tassati "perché altrimenti scappano" è non
solo naïve, ma empiricamente
infondata. Un discorso analogo può essere fatto per l’imposta sui grandi
patrimoni che, di nuovo, risponde all’esigenza, economicamente razionale, di
spostare il peso della tassazione dai flussi di reddito ai fondi inattivi di
ricchezza. Deve, però, essere chiaro che agire a valle delle disuguaglianze è un
provvedimento necessario, ma non sufficiente a produrre un reale avanzamento dei
rapporti sociali. Ciò di cui abbiamo bisogno è, infatti, che lo Stato torni a
svolgere un ruolo di primo piano non soltanto nella redistribuzione, ma anche
nel processo di creazione delle ricchezza. È necessario, cioè, ripristinare,
ovvero ripensare ex-novo, la
possibilità di un controllo democratico su "cosa, quanto e come" si
produce annualmente nel nostro e negli altri paesi europei. È, in fondo, questa
ritrovata "modernità del piano" il messaggio più inattuale, e perciò anche
più politicamente cogente, de "L’austerità è di destra".