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lunedì 5 settembre 2016

Mongolia. I parchi naturali mettono in pericolo la comunità Dukha ?

Ganbat e Tumursukh sono due uomini di circa 50 anni, nati nello stesso villaggio nel mezzo della taiga. In questa foresta innevata ai margini settentrionali della Mongolia, a pochi chilometri dalla Russia, alci e linci sono più numerosi degli uomini. Per raggiungere la loro remota regione bisogna attraversare il lago Hovsgol, nel nord del paese, e percorrere la steppa per un paio di giorni senza incontrare nessuno. Padri di famiglia rispettati dai loro pari, Ganbat e Tumursukh hanno dedicato la loro vita a questa vasta distesa di foresta boreale, la taiga. E i loro occhi si illuminano quando ne parlano.


«Sono fiero di essere nato nella taiga», racconta Tumursukh seduto al tavolo di un caffè di Ulan Bator, capitale della Mongolia, a due passi dagli uffici del ministero dell’Ambiente, per cui lavora. «Mio padre mi ci portava da quando ero bambino, e mi ha insegnato a conoscerla e ad amarla. Quando sono partito per studiare nella capitale ha cominciato a mancarmi. Ho aspettato parecchi anni prima di realizzare il mio sogno: essere nominato dal ministero dell’Ambiente responsabile per la protezione della regione di Hovsgol. Così nel 1987 ho potuto creare la prima area protetta e salvaguardare una parte della regione dallo sfruttamento minerario. Negli anni Ottanta le prime industrie cominciarono a installarsi, scavando la montagna per prendere il fosforo. Lottiamo per preservare la nostra natura da questo tipo di minacce perché la taiga, che ospita fiori rari, l’alce, l’orso e lo stambecco, è preziosa e fragile. Il governo lo ha capito e ha deciso di conservarla». 
Ganbat siede accanto a sua moglie nella capanna fatta di tronchi dove aspetta che l’inverno passi, e racconta: «La taiga è la nostra vita. Non sappiamo fare altro che vivere con e per lei. Da sempre ci prendiamo cura della natura in cui viviamo, è quello che i nostri antenati ci hanno insegnato. Il nostro ruolo è quello di rispettarla e mostrare il nostro amore verso di lei. Ci prendiamo cura delle nostre renne da prima che la Mongolia esistesse come stato, sono il motivo del nostro orgoglio».
La taiga, dove tutto sembra sospeso in un inverno immobile, è un ecosistema molto delicato. Ganbat e Tumursukh ne sono coscienti e lottano ciascuno quotidianamente per la sua sopravvivenza. Ma al di là dell’amore condiviso per questa terra, tutto sembra dividere i due uomini, tanto che oggi combattono una personale guerra fredda tra loro.
Tumursukh viene da una famiglia mongola, l’etnia dominante nel paese, e dopo aver terminato gli studi è diventato un alto funzionario dello stato. Responsabile delle riserve naturali della regione di Hovsgol si batte ogni giorno contro ciò che minaccia l’ecosistema della taiga ed è diventato uno dei più ferventi oppositori dell’estrazione mineraria incontrollata. La Mongolia deve a questa industria il successo economico degli ultimi anni, un boom che ha portato il paese nella stessa classe economica di Cina e Indonesia. Ma a questa industria deve anche la degradazione del suo ambiente naturale.

Ganbat è un Dukha, uno dei più piccoli gruppi etnici del pianeta, che conta all’incirca 250 persone entro i confini della Mongolia. Pastore nomade di renne, cacciatore e in qualche modo garante della tradizione del suo popolo, è sempre rimasto nella taiga dove veglia sulle proprie renne e sulle terre in cui pascolano. È ormai l’uomo più anziano nell’accampamento e per questo è rispettato dal gruppo come saggio. Originari della Russia, i Dukha (chiamati anche Tsaatan in lingua mongola) sono più vicini ai Sami – i pastori di renne che vivono nel nord della penisola scandinava, oltre il circolo polare artico, comunemente chiamati “lapponi” – che ai mongoli semi sedentari della steppa che vivono nelle yurte, le abitazioni con forma circolare che possono essere smontate e spostate tipiche dell’Asia centrale. Nomadi delle montagne, i Dukha si spostano con i loro ortz, tende a forma di cono rovesciato molto simili ai tepee dei nativi americani, seguendo i cicli migratori delle renne: questi animali non possono vivere in fondo alle valli e nella steppa, dove le temperature sono più alte; il solo habitat favorevole per loro è quello delle montagne del nord della Mongolia.
I Dukha vivono in questo ambiente per tutto l’anno a temperature che possono scendere sotto i -40 gradi e sopravvivono grazie alla caccia e alla raccolta di piante spontanee; un’altra fonte di cibo per loro è il latte delle renne, utilizzato nel tè o per la produzione di formaggio. Non praticano l’agricoltura e si limitano a mangiare carne di renna solo quando un animale smette di essere utile alla produzione di latte e al trasporto.
Questi elementi, assieme alla lingua e ai costumi, fanno dei Dukha un’etnia a parte rispetto alla popolazione mongola, che ha abitudini diverse. I Dukha si stanziarono dalla Russia in territorio mongolo a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. «I nostri padri avevano l’abitudine di migrare dove volevano nella taiga» ricorda Buyantogtoh, sorella di Ganbat e anziana del gruppo. «Non conoscevamo frontiere, e ci recavamo là dove le renne trovavano pascoli sufficienti a sfamarle. Poi è arrivata la guerra, e i soldati russi hanno voluto reclutare i nostri uomini per andare a combattere lontano da casa. Siamo fuggiti a sud, nelle montagne mongole, e quando la frontiera è stata chiusa siamo rimasti da questa parte».

Da cacciatori di stato a bracconieri

I Dukha raccontano che le relazioni con lo stato mongolo furono inizialmente positive. Non essendosi mai allontanati dalla taiga erano rimasti un gruppo a parte rispetto agli abitanti delle valli e della steppa e si distinguevano per la loro grande conoscenza del territorio. Per questo furono assunti come “cacciatori di stato” nel sistema comunista dell’epoca, produttivista e utilitarista.
Oltsen è oggi uno dei cacciatori migliori del clan, capace di affrontare gli orsi in cerca di cibo che a volte minacciano le renne e i loro guardiani mentre attraversano la foresta. «Mio padre era cacciatore per lo stato. Cacciava, poi scendeva nei villaggi per portare la carne e le pelli, e ritornava con la farina e la verdura», racconta con orgoglio. «Poi è diventato più difficile, ma abbiamo continuato il commercio delle pelli e della carne quando c’era l’occasione. In seguito sono venuti anche alcuni turisti, e potevamo vendere loro le pelli e gli oggetti d’artigianato».
Più tardi la situazione diventò problematica: quando i Dukha rimasero gli unici pastori nomadi di renne nel paese, furono marginalizzati. Ma è stato soprattutto negli ultimi cinque anni, a partire dal 2011, che la situazione è cambiata drasticamente per loro. Parlando degli agenti dello stato incaricati della conservazione Oltsen spiega: «Sono venuti e ci hanno detto di aver studiato la taiga per 10 anni. Non li avevamo mai incontrati. Ci hanno spiegato che il nostro territorio sarebbe diventato una riserva nazionale, con nuove regole da rispettare. Avevano deciso che non potevamo più cacciare, e che il pascolo delle renne era limitato a tre zone solamente. Abbiamo perso il diritto di pascolare oltre il fiume Tengis e la valle di Gugned. Ma come possiamo vivere se non possiamo più cacciare e far pascolare gli animali? Ci hanno proibito di portare con noi i cani da pastore, per essere sicuri che non li usassimo per cacciare. Ma qui ci sono i lupi, hanno ucciso già 12 renne quest’anno. Non possediamo altro che le nostre renne, è nostro compito prendercene cura!».
La Riserva Nazionale di Tengis-Shishged obbedisce alle leggi dello stato, che vieta la caccia, la pesca, il taglio degli alberi e impone transumanze limitate, per proteggere la biodiversità. E recentemente ha incaricato delle guardie forestali di monitorare l’area. È facile immaginare come le relazioni tra le guardie, giovani diplomati venuti dalla capitale, e i Dukha, che vivono nella taiga da centinaia di anni, abbiano rapidamente causato dei problemi. «Non ci lasciano in pace. Ci seguono, stanno sempre sui nostri passi per assicurarsi che i nostri figli non vadano a caccia», racconta Buyantogtoh mentre cucina un pane tradizionale nel suo ortz, mentre fuori il vento soffia a 20 gradi sotto zero. «Abbiamo bisogno di cacciare per vivere, di avere la legna per riscaldarci e cucinare, di accedere ai nostri pascoli con le renne. Se ci proibiscono di farlo, ci proibiscono di essere liberi». Oltsen dice: «Vogliono fare di noi dei mongoli della steppa? Perché senza caccia e senza renne perdiamo la nostra cultura, abbiamo paura che questo accada».

In effetti i timori dei Dukha sembrano fondati. Qualche mese fa cinque uomini del clan sono stati denunciati e arrestati per bracconaggio dalle guardie forestali. Il figlio di Ganbat era parte del gruppo. «Sono partiti per andare al commissariato in città e devono ancora tornare. Non abbiamo veicoli per andare e i soldi per farli restare a lungo in città» racconta Ganbat. «Abbiamo tutti paura, non sappiamo cosa possa accadere». Il commissariato e il tribunale si trovano a Murun, capoluogo della regione di Hovsgol, raggiungibile in uno o due giorni di fuoristrada, e altrettanti a cavallo o a dorso di renna. Murun è una città, e in quanto tale è ostile per i nomadi Dukha. I cinque uomini arrestati rischiano fino a cinque anni di prigione e una multa di 9mila euro per aver infranto il regolamento del parco. Il responsabile del dipartimento investigativo di Murun conferma: «Il parco ha emesso la denuncia contro di loro per bracconaggio. Sono stati presi in flagrante. Qui in Mongolia la legge si applica a tutti, i Dukha non sono al di sopra dei cittadini mongoli».

Diritti umani e protezione dell’ambiente, il tassello mancante

La legge è uguale per tutti ma la situazione è complicata. Varie organizzazioni internazionali tra cui le Nazioni Unite lavorano da anni per risolvere i problemi di convivenza delle popolazioni indigene di tutto il mondo e gli scontri che nascono per via del loro attaccamento alla terra e dei loro costumi. I casi mediatici riguardanti le popolazioni dell’Amazzonia e i loro scontri con le industrie che sfruttano il suolo su cui cresce la foresta, ad esempio, hanno fatto conoscere al grande pubblico questi difensori “tradizionali” della giungla amazzonica. A livello internazionale sono state proposte e ratificate diverse convenzioni che riconoscono diritti specifici alle popolazioni indigene per le quali la terra costituisce l’unica ricchezza, e anche la Mongolia ne ha firmate alcune. Bisogna davvero scegliere tra la protezione di un ambiente fragile come la taiga e la conservazione di una cultura altrettanto fragile come quella dei Dukha?
Sembra di assistere a un dialogo tra sordi. «I Dukha non capiscono il nostro lavoro. Il nostro obiettivo è quello di preservare la taiga creando aree fortemente protette, dove l’attività dell’uomo deve essere proibita per evitare la distruzione della natura. Queste aree sono da conservare per le generazioni future. Se non creassimo questi parchi, le risorse dei Dukha scomparirebbero. Non lo permetteremo» sbotta Tumursukh. È di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti in cui ha raccolto dei fondi da donatori privati e ufficializzato un partenariato con Yosemite, il parco americano che è una delle prime aree protette al mondo, meno noto per essere stato creato su terre ancestrali di popolazioni indigene oggi scomparse.
Una delle iniziative private per finanziare il parco nato nella taiga si chiama “Rally for Rangers”: raccoglie fondi per la salvaguardia della taiga mongola attraverso la vendita di tour motociclistici nella taiga stessa. Una contraddizione, rafforzata anche dalla descrizione che promuove l’iniziativa: “La cultura sciamanica dei Dukha è unica al mondo ed è una delle poche che ancora sopravvive”. Non per molto, se il parco e i suoi finanziatori impediscono il perpetuarsi delle attività indigene tradizionali. L’iniziativa ha permesso di acquistare delle moto per facilitare le operazioni di pattugliamento. Ganbat racconta: «Ci stanno ancora più addosso. Vorremmo che la nostra voce fosse ascoltata, vogliamo continuare a vivere nella nostra terra».
Nel 2014 il presidente mongolo Tsakhiagiin Elbegdorj ha ascoltato i problemi della popolazione indigena della taiga e ha emesso un decreto presidenziale per la distribuzione di una sorta di “stipendio indigeno”, 70 dollari (poco più di 60 euro) a persona al mese per ogni appartenente all’etnia Dukha. Secondo loro però 2 dollari al giorno sono una magra consolazione se si pensa che il parco li priva del diritto a vivere delle risorse del territorio, a cacciare, pascolare le renne e utilizzare i siti sacri della loro tradizione sciamanica – e quindi, in altri termini, non permette loro di essere Dukha. Se da un lato il clan si dice contento dello stipendio che riceve e che lo aiuta effettivamente a vivere, dall’altro questa soluzione non è sufficiente.  Buyantogtoh dice: «Non ho paura di loro, e neanche delle loro moto. Con o senza di loro noi conserviamo la nostra foresta». Oltsen, che ha 27 anni ed è fiero della cultura Dukha, difende a sua volta le usanze della propria etnia: «Non so fare altro che vivere qui. Ma conosco la taiga meglio di qualsiasi altra persona, ogni angolo di queste montagne, i suoi animali; gli mostriamo il rispetto che i nostri padri ci hanno insegnato. Comunichiamo con la natura. Se parto per cacciare e non vedo che pochi animali, questo significa che la natura non è pronta a farmi un dono e devo aspettare».
Ganbat suggerisce che si potrebbe trovare una soluzione attraverso il dialogo: «Perché non sono venuti a parlarci? Gli avremmo detto cosa proteggere e dove si trovano gli animali di solito. E di quali terre abbiamo bisogno per le renne. Perché non possiamo lavorare insieme?». Questo appello fa eco a quelli di numerose comunità indigene in tutto il mondo. Almeno in questo i Dukha non sono soli: le popolazioni indigene rappresentano infatti circa 370 milioni di persone nei cinque continenti. In comune hanno questo forte attaccamento alla terra. Vivono negli stessi paesaggi ed ecosistemi che le ONG della conservazione internazionale cercano di salvare dallo sfruttamento industriale, a volte ai danni dei più deboli.
Recentemente la Mongolia ha fatto un passo in avanti adottando una nuova legge sulle “Aree culturali protette”, che potrebbero essere gestite dalle comunità locali per contribuire a salvaguardarne la cultura. Oyungerel Tsedevdamba, un tempo ministro della Cultura e scrittrice, ha fortemente voluto e promosso l’adozione di questa legge: «La Mongolia deve conservare il proprio retaggio culturale e aiutare i popoli che lo desiderano a conservare i loro modi di vita tradizionali. In un’area culturale protetta la caccia, seppur regolamentata, dovrebbe poter essere autorizzata nella sua forma di pratica culturale». Sulla carta sembra promettente per i Dukha, anche se oggi Tsedevdamba non è più ministro e i Dukha sembrano aver perso la loro unica alleata politica. La legge in ogni caso non è stata ancora applicata e i Dukha sembrano non essere a conoscenza della sua esistenza.
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Questo reportage è stato realizzato con il sostegno dell’European Journalism Centre (EJC) all’interno del programma Innovation in Development Reporting Grant Programme e Internews’ Environmental Journalism Network (EJN) attraverso il programma InfoCongo, ed è stato pubblicato anche in inglese sulGuardian e su Nouvel Obs in francese. I testi e i video sono di Marine Gauthier, le foto e le mappe di Riccardo Pravettoni. Altri due reportage finanziati dall’EJC – uno realizzato nella Repubblica Democratica del Congo, uno in Cile – saranno pubblicati nei prossimi giorni: insieme i tre articoli fanno parte di un progetto intitolato Reserved!. La ricerca di Marine Gauthier e Riccardo Pravettoni sarà presentata in occasione dell’IUCN World Conservation Congress (1-10 settembre 2016), il congresso annuale delle Nazioni Unite sulla conservazione della natura, che si svolge alle Isole Hawaii.
Marine Gauthier e Riccardo Pravettoni,  Non è facile essere pastori nomadi in Mongolia, "Il Post", 2-09-16.