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domenica 8 gennaio 2017

I perché di una scelta. Intervista a Umberto Gentiloni Silveri sul suo "Bombardare Auschwitz".



di A. Lalomia

Tra i punti più controversi del secondo conflitto mondiale, quello relativo alla mancata distruzione dei lager nazisti da parte degli Alleati rappresenta senza dubbio uno dei più delicati e ancora oggi poco dibattuti.                                   Forse non è un caso che nella sterminata bibliografia su questa guerra le opere che cerchino di fare piena luce sui motivi che spinsero i vertici anglo-americani  -e in particolare quelli statunitensi-  a rimandare oltre ogni ragionevole esigenza bellica la scelta di colpire i campi, siano relativamente poche. È troppo pensare che a trattenere quantomeno alcuni storici dall’addentrarsi in questo terreno abbia giocato  (e continui tuttora a giocare)  anche la consapevolezza che per un’analisi veramente completa dei fatti sarebbe stato necessario (e sarebbe tuttora necessario) aprire degli armadi che custodiscono da decenni verità e segreti imbarazzanti, e che comunque è meglio non pubblicizzare troppo ?  1
Al tentativo di ricostruire in modo rigoroso e autorevole il complesso scenario che ha permesso al regime nazista di mantenere in piena attività alcuni lager sin quasi agli ultimi giorni di guerra (tra l’indifferenza e certe motivazioni degli Alleati su cui si potrebbe discutere), Umberto Gentiloni Silveri 2  ha fornito un importante contributo con il saggio Bombardare Auschwitz. Perché si poteva fare, perché non è stato fatto , edito da Mondadori e accolto molto favorevolmente dalla critica  4   e dal pubblico.
Quella che segue è l’intervista che Gentiloni Silveri -che ringrazio pubblicamente- mi ha concesso.

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Note

1   Mi riferisco ad esempio alle opinioni antisemite  -e comunque poco sensibili alle ragioni della comunità ebraica-  di prestigiose figure del mondo della finanza e dell’industria statunitense. Com’è noto, uno dei più ferventi seguaci dell’ideologia nazista  –con particolare riguardo proprio all’antisemitismo-  è stato Henry Ford, finanziatore dello stesso partito nazista.  Si può dire anzi che la principale opera di Henry Ford, The International Jew (1920; pubblicato in tedesco nel 1921) e in italiano nel 1938, abbia rappresentato una delle maggiori fonti d’ispirazione per la stesura del Mein Kampf.  (A proposito di quest'ultimo testo, vorrei segnalare l'articolo di Gentiloni Silveri apparso sulla "Stampa"  del 16-12-15 : Settant'anni dopo siamo pronti a leggere il Mein Kampf ?)
Le simpatie naziste di Ford vennero generosamente ricambiate da Hitler e d’altra parte  (singolare coincidenza…) i suoi stabilimenti in Germania furono risparmiati (per un discreto periodo) dai bombardamenti alleati.     
Ma il coinvolgimento dell’industria e della finanza USA nel riarmo e nello sforzo bellico tedesco (in contrasto, quindi, con gli interessi del loro stesso Paese, cioè gli Stati Uniti, a cui peraltro, in diversi casi, offrivano piena collaborazione), oltre alla Ford, riguardò anche altri colossi dell’economia americana, come risulta tra l’altro dai video presenti nella playlist del mio canale youtube .                                                                               In pratica, aziende leader USA  lavorarono  (almeno per un certo periodo) sia per le forze armate del loro Paese, sia per i loro nemici, cioè i nazisti, con forte disappunto di Roosevelt, che più di una volta biasimò il comportamento irresponsabile di queste corporation.        
In realtà, l’antisemitismo, negli Stati Uniti, annoverava anche altre illustri personalità, quali ad esempio l’aviatore Charles Lindbergh, il poeta Ezra Pound e l’insospettabile Walt Disney (anche se i cartoon di quest’ultimo diedero un contributo non irrilevante alla propaganda antinazista).           
Insomma, i simpatizzanti dell’ideologia nazista e antisemita, nell’America del New Deal, non furono certamente pochi, come del resto sembrano documentare anche i video sui gruppi nazisti operanti nel Paese in questo periodo. E d'altronde, si tratta di una realtà che non deve sorprendere, quando si pensi che il KKK, nato con l'obiettivo specifico di contrastare l'emancipazione della comunità nera, ben presto incluse tra i suoi nemici gli ebrei e in seguito anche i cattolici. Inoltre, va considerato che all'inizio degli Anni Trenta, una parte consistente (circa un quarto) della popolazione degli Stati Uniti era di origine tedesca e rappresentava quindi, almeno potenzialmente, un serbatoio di adesioni filo-naziste certo non trascurabile. Tale componente sarebbe diventata ancora più minacciosa dopo l''immigrazione in America di fanatici nazisti. Questi ultimi, malgrado i tentativi delle autorità statunitensi di contrastare il German American Bund di Fritz Kuhn, cercarono di convertire alla causa hitleriana anche quegli americani di origine tedesca prima indifferenti o addirittura scettici nei confronti della ''nuova Germania'.  
A ben vedere, comunque, anche in certi ambienti dell’amministrazione Roosevelt si respirava un clima antisemita e comunque la percezione del pericolo che correvano gli ebrei in Europa, a seguito dell’ascesa del nazismo al potere, era decisamente bassa. Basti pensare che tra il 1933 e il 1940   -come risulta tra l’altro da questa cartina -  soltanto 90.000 ebrei tedeschi ottennero il permesso di entrare negli Stati Uniti, a fronte di un numero di richiedenti assai più alto e della maggiore disponibilità offerta da altri governi ad accogliere gli ebrei in fuga dall’Europa.
Contro il clima di terrore che dalla Germina di Hitler rischiava di dilagare anche negli Stati Uniti, cercò a più riprese di schierarsi il Congresso Ebraico Americano.  Si veda ad esempio questo breve filmato su una manifestazione organizzata dal Congresso a Manhattan già nel 1933, poco dopo la nomina di Hitler a cancelliere. Ma forse, più che gli esempi riportati sopra, per capire davvero i motivi che sono alla base del modesto impegno mostrato dall’America di Roosevelt nel fronteggiare la persecuzione degli ebrei da parte del regime nazista, è più utile la testimonianza che David A. Harris  (Executive Director dell’American Jewish Committee)  rese il 19 marzo 2009 alla competente Sottocommissione (per l’Immigrazione, la Cittadinanza, i Rifugiati, la Sicurezza delle Frontiere, il Diritto Internazionale)  della Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti. Si tratta di un documento particolarmente drammatico, di cui mi limito a riportare solo alcuni passi (corsivi e sottolineature miei): “ […]   But the Roosevelt era included one great failing. As a nation, we did far less to rescue Jews, who were targeted for extinction by the Nazi juggernaut, than we could and should have.
Who was to blame? Frankly, it would be easier, and much shorter, to list who was not  to blame.
The reasons, excuses, and defenses for those who failed to act could fill volumes.
However sensitive President Roosevelt might have been to the Jews’ plight, and there is reason to believe that he was, domestic politics at the time made it difficult for him to act.
He was fearful of inciting the fertile ground of domestic anti-Semitism and facing the wrath of widespread nativist sentiment, both attested to by public opinion polls at the time. Moreover, he was convinced, once the U.S. entered the war, that the best way to help Europe’s Jews was to vanquish the Nazis as quickly as possible, without any so-called distraction or diversion of resources.
The Congress, while including some Members who desperately wanted to help beleaguered Jews, could not overcome the resistance of restrictionist colleagues, who, reflecting the popular mood, were unwilling to revisit strict immigration laws adopted in 1924, leaving those laws intact throughout the period under discussion here.
The State Department, plagued by the bureaucratic instinct for inertia and legalism at its worst, not to mention a tissue-thin facade that barely concealed the anti-Semitism of some of its key decision-makers, was the last place in Washington to look for help.
The general public was certainly not clamoring for the gates to be opened. Fearful of more newcomers, who were seen as threats to scarce jobs, and influenced the hysteria wrought by demagogues like Father Charles Coughlin, who railed against the Jews in his popular radio broadcasts, the American people exerted little pressure on elected officials to do something dramatic to help Europe’s embattled Jews.
In fact, a 1942 survey, cited by Leonard Dinnerstein in Antisemitism in America, found that Americans rated Jews as the third greatest “menace” to the country, behind only Germans and Japanese, the country’s sworn wartime enemies. By 1944, Jews had moved to the top of the list, with 24 percent of Americans believing that Jews posed the greatest danger.
With notably few exceptions, the media did not experience its proudest moment, either. In such leading newspapers and opinion-molders as the New York Times, stories about the plight of Hitler’s victims were often brief and buried, and editorials were few and far between. They hardly contributed to an understanding of, much less a popular outrage against, what was taking place in Europe, even as the grisly facts of the Nazi eliminationist plans emerged.
[ … ]  In May 1939, a passenger liner, the St. Louis, set sail from Hamburg with over 900 Jewish refugees. It was destined for Cuba, but, on arrival, Cuban officials cancelled the transit visas that had been issued to the passengers and refused to let all but a tiny handful disembark. The ship then headed for the coast of Florida, coming so close that the refugees could see the lights of Miami, but U.S. officials callously refused to let it enter a port and discharge its passengers. Rather, the ship was sent back to Europe. More than a quarter of the passengers, it is known, were subsequently killed by the Nazis.  
[…]
Un’ultima annotazione. Anche il cinema si è occupato del sentimento antisemita presente a livello popolare negli Stati Uniti della lunga presidenza Roosevelt. Vorrei citare soltanto un titolo : I giovani leoni . Nei due minuti compresi tra 1.16. e 1.18 emerge un classico campionario di sproloqui antisemiti.

2 Qui, l’ area personale dell’A. sul portale dell’Università “La Sapienza” di Roma, dove si può leggere l’imponente elenco  delle sue pubblicazioni .              

3   Qui  per la lettura del primo capitolo del volume.                                                                                              Non è un caso, forse, che il titolo del libro di Gentiloni Silveri si riferisca espressamente ad Auschwitz, visto che proprio questa località  (in ragione del ruolo centrale svolto dalla struttura nel progetto di sterminio di intere comunità)  è diventata il simbolo stesso del genocidio attuato dai nazisti.

4   Recensioni e video sul libro  (e in generale su Gentiloni Silveri)  sono riportati al termine dell’intervista.

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1. Se ho capito bene la sua tesi, lei sostiene che gli Alleati  (e quindi soprattutto gli Americani, perché sono stati loro a dare il maggior contributo per la vittoria) abbiano deciso di non agire contro i lager per evitare una dispersione di forze e di mezzi, che dovevano servire per conquistare la Germania e abbattere il regime nazista. Mi perdoni la domanda:  ma possibile che nessun politico americano o inglese, così come non uno dei generali alleati, non comprendesse che una volta abbattuto il nazismo gli Alleati avrebbero trovato i lager ormai chiusi dagli stessi tedeschi  (perché non avevano più nessuno da sterminare) ?

È una domanda complessa che richiede una risposta articolata. Alla base vi sono due elementi che affronteremo immagino in questa intervista: il primo afferisce al grado di consapevolezza tra gli Alti Comandi Alleati – e nelle opinioni pubbliche dei paesi aderenti alle Nazioni Unite – della politica di sterminio. A questo livello, per rispondere alla sua domanda è necessario comprendere cosa effettivamente fosse noto. Se parliamo di cosa si sapeva, dobbiamo definire i destinatari: un conto sono i canali riservati d’intelligence, i messaggi sparsi e confusi che circolano in Europa; altro è invece riferirsi a un quadro certo e verificabile di classi dirigenti o magari di opinioni pubbliche più vaste. Così come un’altra discriminante è data dalla tempistica: quando effettivamente gli Alti Comandi capiscono pienamente cosa sta succedendo in Europa?  Il secondo piano della riflessione   – che soprattutto dal 1944 si ricollega al primo –  è riconducibile alla strategia Alleata per la quale la vittoria finale e la caduta di Hitler sono le uniche vere garanzie per liberare l’Europa  – e con essa tutti i popoli perseguitati –  dal nazismo. Su questi due piani di riflessione nel libro provo a effettuare una ricostruzione dei fatti e a fornire qualche spunto di riflessione sul senso complessivo della vittoria alleata del 1945.


2.  Lei riconosce che gli Alleati avrebbero potuto avviare una campagna di bombardamenti per distruggere i lager a partire dall’estate del 1944  (dopo la deportazione degli ebrei ungheresi). Come mai non prima ?  Eppure, l’esistenza dei campi era ben nota anche prima di questa data, grazie anche al continuo flusso di notizie che la Chiesa Cattolica trasmetteva verso le capitali del mondo libero. Della stessa Conferenza Wannsee del 20 gennaio 1942 (che doveva rimanere nel più assoluto segreto), iniziarono a trapelare notizie pochi mesi dopo il suo svolgimento.  D’altronde, nell’introduzione del suo libro, è scritto che “Di ciò che stava  accadendo nei campi di concentramento si sapeva molto  (almeno dal 1942) ; eppure la macchina dello sterminio nazista è rimasta in piedi…” .


 Jan Karski
F. D. Roosevelt
Diversi storici hanno indagato e discusso a lungo su cosa effettivamente fosse a conoscenza dell’universo concentrazionario tra chi stava pianificando la conduzione della fase conclusiva della seconda guerra mondiale. Penso in particolare ai lavori di Martin Gilbert e Richard Breitman. Sappiamo che almeno dal 1942 (secondo Breitman già dall’anno prima) circolano informazioni con telegrammi e lettere di denuncia. Tuttavia si dà loro poco peso e per vari motivi: la confusione di un contesto come una guerra totale dagli esiti incerti e imprevedibili, l’incredulità diffusa per contenuti così sconvolgenti, non ricevibili con un semplice passaggio di comunicazioni. Quando ad esempio Jan Karski  – membro della Resistenza polacca, le cui memorie sono state finalmente tradotte in italiano nel volume La mia testimonianza davanti al mondo –  incontra alla fine di luglio del 1943 a Washington il presidente Roosevelt,  riesce a trasmettergli la propria diretta testimonianza dell’orrore. La reazione di Roosevelt tuttavia è ancora incerta.   
 Felix Frankfurter
In quegli stessi giorni, un altro colloquio di Karski con un giudice della corte suprema, Felix Frankfurter, si chiude con una frase disarmante: «Complimenti, ma non posso credervi». E alle obiezioni di chi seguiva il confronto con partecipazione il giudice puntualizzò: «Non ho detto che questo giovanotto stia mentendo. Ho detto che non posso credergli. C’è una differenza». Una differenza che diventa un confine invalicabile, un ostacolo insormontabile. In pochi giorni aveva incontrato il Presidente degli Stati Uniti, un giudice federale e tra gli altri: Herbert Hoover, Cordell Hull, Henry Stimson, Adolfe Berle, gli arcivescovi Spelman, Mooney e Strich oltre al delegato apostolico vaticano; ma il suo racconto rimase una straordinaria denuncia a cui nessuno volle dar seguito. 
Rudolf Wrba
(Walter Rosenberg)
In questo contesto possiamo comunque provare a  fissare “un prima e un dopo”, legato alla diffusione del cosiddetto Rapporto Vrba: l’opera di due coraggiosi ebrei slovacchi che fuggono da Auschwitz e raccontano al mondo ciò che i loro occhi avevano visto. Siamo nella primavera 1944.  
È in questo momento che il cerchio delle alternative possibili comincia a delinearsi con maggiore chiarezza e l’ipotesi del bombardamento diventa una possibilità concreta. Nell’estate del 1944 maturano due condizioni parallele ma entrambe necessarie: la consapevolezza della gravità della questione ai massimi livelli politici degli Alti Comandi Alleati e la possibilità logistica di fare decollare aerei che dal sud Italia arrivino a bombardare Auschwitz. È una finestra breve, all’interno della quale si muovono diverse tensioni e anche strategie differenti riguardo all’impiego dei mezzi militari per giungere al più presto alla sconfitta del nazismo in Europa.


3. Perché gli Alleati non hanno neanche bombardato le linee ferroviarie attraverso le quali avveniva il trasferimento dei deportati nei lager ?  Eppure, mi sembra che più di una volta i bombardamenti alleati abbiano distrutto centri abitati, siti industriali, aree militari quasi a ridosso di queste stesse linee ferroviarie. Come si può giustificare una scelta del genere ?
Foto aerea di Auschwitz
(settembre 1944)

Sono questioni distinte e come tali vanno affrontate. Le celebri foto scattate nel 1944 dall’aviazione alleata in volo su Auschwitz e sui tre campi che ne compongono la struttura logistica entrano a fare parte dei tanti dossier di documentazione e conoscenza del territorio predisposti in quelle settimane di guerra per colpire le industrie e gli apparati produttivi a sostegno delle forze naziste. Quelle foto, scattate dai ricognitori americani, arrivano nelle mani dei comandi Alleati dove sono lette a partire da quell’obiettivo (individuare gli apparati industriali) e, elemento non trascurabile in questo contesto, da quel livello di consapevolezza della politica di deportazione e sterminio di cui parlavo prima. Oltretutto, negli anni Quaranta non c’erano i metodi di ingrandimento degli scatti utili a spiegare con esattezza quanto stesse avvenendo a terra e di permettere agli ufficiali americani di comprendere come quella lunga fila di persone che si intravede nelle foto fosse in realtà in attesa di dirigersi verso le camere a gas. La tecnologia consentirà di leggere meglio e, voglio sottolinearlo, diversamente quelle foto molto più tardi. Non a caso, quando negli anni Settanta riemergono dagli archivi militari americani quelle foto entrano a fare parte non di un dossier utile a un raid aereo, ma dell’insieme delle prove sulla conoscibilità della Shoah. Diventano il tassello di un mosaico di conferme importanti che incrocia e sovrappone - in uno di quei giochi di specchi -  alle celebri immagini dell’Album di Auschwitz in cui due fotografi nazisti documentano, da terra e proprio negli stessi momenti, l’ultimo tragitto di un convoglio di ebrei ungheresi giunto a Birkenau. Nel mio libro provo a ricostruire la storia del ritrovamento delle foto, il ruolo di alcuni ex agenti della Cia e le dinamiche di presentazione e utilizzo delle stesse di fronte all’opinione pubblica mondiale.  
 L'Album di Auschwitz

  
4.  Al di là di ogni considerazione, resta comunque da chiedersi come mai gli Alleati abbiano deciso di gettare nel calderone infernale della guerra migliaia di aerei e migliaia e migliaia di piloti per raggiungere obiettivi che non possono certo considerarsi particolarmente importanti sul piano militare. Mi riferisco ad esempio al bombardamento di Dresda del 13 febbraio 1945, che coinvolse migliaia di aerei alleati (non pochi dei quali vennero abbattuti dalla contraerea) e che causò almeno centomila vittime e la distruzione pressoché totale di quella che veniva giudicata a ragione come una perla della cultura tedesca, certamente non un obiettivo militare strategico, visto che non ospitava né impianti industriali, né siti militari di rilievo.  Gli Alleati, per giustificarsi degli orrori che avevano commesso in questa come in altre occasioni, dissero che l’azione rientrava nel piano di bombardamenti che avrebbero dovuto piegare la resistenza della popolazione tedesca, spingendola a ribellarsi a Hitler per porre termine al conflitto  (altrimenti sarebbero stati annientati tutti). In realtà, com’è noto, questo ragionamento era del tutto teorico. Infatti, i bombardamenti ‘terroristici’ e inutili degli Alleati spinsero alla resistenza anche quei tedeschi che non avevano alcuna simpatia per il nazismo. Non occorre essere simpatizzanti di David Irving per non stupirsi del fatto che ragionamenti così elementari non siano stati compresi da personalità che erano al vertice delle istituzioni dei paesi democratici.
Ma passiamo ad altro.
Come hanno giudicato i vertici del nazismo e delle forze armate tedesche l’inerzia degli Alleati nei confronti dei lager ?  È lecito affermare che tale inerzia sia stata interpretata come una specie di indifferenza degli Alleati stessi verso l’azione di genocidio che stavano compiendo ?

È una domanda che può trovare una risposta sul piano del metodo storico soltanto alla luce delle considerazioni che facevo sul contesto, la tempistica e la modalità con cui le notizie della Shoah arrivano ai comandi Alleati e sulle scelte militari fatte nell’unica reale opportunità di bombardamento possibile secondo lo stato della nostra conoscenza delle fonti: l’estate del 1944. In questo modo si spiega la strategia per giungere alla vittoria finale, alla resa incondizionata del nemico. La seconda guerra mondiale, per la sua natura, non ammette vie di mezzo o compromessi; la posta in palio non è solo legata alla conquista di territori o alla ridefinizione dei rapporti di forza. E’ il destino del genere umano a essere scosso dal nuovo ordine mondiale proposto dal Terzo Reich. Così la coalizione delle Nazioni Unite vuole giungere alla salvezza per tutti attraverso la vittoria finale, obiettivo dal quale non possono essere distolte forze, intelligenze, energie che vengono giudicate necessarie. Dopo lo sbarco in Normandia bisogna giungere a Berlino nel più breve tempo possibile: quella, nell’ottica degli alti comandi, sarebbe stata la data della liberazione dalla minaccia nazista, anche per chi dai nazisti era perseguitato. Non si tratta dunque di indifferenza. Al contrario, è la ricerca della via migliore per sconfiggere il carnefice. Tuttavia, e su questo provo a dire qualcosa nelle conclusioni del mio volume, rimane intatta l’impressione che se quella finestra dell’estate del 1944 fosse stata sfruttata, quando oramai i livelli politici più alti delle Nazioni Unite avevano capito meglio cosa stesse avvenendo, forse gli effetti pratici sulla macchina dello sterminio sarebbero stati poco significativi, ma la vittoria alleata del maggio 1945 si sarebbe potuta giovare di un riflesso etico e civile più solido.


5.  Sia nel Regno Unito che negli USA sono sempre esistite consistenti comunità di ebrei, che sin dall’avvento del nazismo si sono consolidate  a causa dell’esilio di non pochi tedeschi (basti pensare alla famiglia Freud). Queste comunità  -che verosimilmente dovevano conoscere quanto accadeva    nei campi-  hanno cercato di spingere il potere politico (americano o inglese) ad agire con fermezza, per mettere fine al genocidio ?

È una questione difficilmente risolvibile in poche battute. Una delle spiegazioni può essere ricercata nel livello di consapevolezza allora presente in Europa e America sulla effettiva politica di sterminio posta in essere dai nazisti; non dimentichiamo che le prime testimonianze sullo sterminio che cominciano a diffondersi in Europa sono ritenute inattendibili anche dagli esponenti di primo piano di alcune comunità ebraiche che nei mesi seguenti saranno vittime dello sterminio. Inoltre, come ricordavo, è necessario confrontare questi diversi livelli di consapevolezza con la tempistica della loro diffusione e con quel contesto strategico proprio della seconda guerra mondiale di cui ho provato a darle una breve sintesi nella risposta precedente.


6. Dopo la fine della guerra, in che paese  -e quando-  si è sollevata con particolare enfasi la questione del mancato bombardamento dei campi ?  Nello specifico: qual è stato il dibattito negli Stati Uniti sull’atteggiamento di F. D. Roosevelt verso la questione ebraica, un tema al centro, per esempio, di FDR and the Jews , di R. Breitmann e A. Lichtman , nonché   di FDR and the Holocaust: A Breach of Faith, di R. Medoff. E inoltre: Simon Wiesenthal ha mai espresso opinioni al riguardo ?

Anche questo è un tema molto delicato. Uno dei capitoli del libro è dedicato alla raccolta delle testimonianze di chi c’era, cercando di descrivere come i sopravvissuti ricordino i momenti in cui sentivano in lontananza il rombo degli aerei. Molti testimoni hanno lasciato ricordi e impressioni di quei momenti. Sono attimi nei quali si mescolano diverse tensioni emotive, il ricordo personale degli uomini tende a mescolarsi con la ricostruzione dei fatti. Anche in questo le loro testimonianze – alcune raccolte direttamente, altre riprese dall’ampia bibliografia sull’argomento – sono un bene prezioso, un tassello imprescindibile di quel mosaico costitutivo della nostra conoscenza dell’Olocausto. Oltretutto, l’attesa e la speranza dei bombardamenti, espressa da quasi tutti i testimoni di allora, ci aiuta a comprendere meglio la tragicità dell’Universo concentrazionario. Elie Wiesel, ne  La notte, ha scritto con parteci­pazione e coinvolgimento dell’arrivo degli apparecchi in cielo:  
Elie Wiesel
«Allora cominciammo a sentire gli aeroplani. Quasi subi­to le baracche si misero a tremare. Bombardano Buna! Gri­dò qualcuno. Io pensavo a mio padre. Ma ero ugualmen­te felice. Vedere la fabbrica consumarsi nell’incendio, che vendetta!».  A costo di restare sotto le macerie del bombarda­mento, anche lui non ha tentennamenti: «Nessuno di noi aveva paura, eppure se una bomba fosse cascata sui bloc­chi avrebbe fatto centinaia di vittime in un colpo solo. Ma non temevamo più la morte, e in ogni caso non quel tipo di morte. Ogni bomba che esplodeva ci riempiva di gioia, ci ridava fiducia nella vita». Anche per questo, quando a partire dagli anni Sessanta sono cominciate a strutturarsi le testimonianze dei sopravvissuti, il tema del mancato bombardamento Alleato è stato non di rado uno dei maggiori motivi di tensione tra i testimoni per il mancato bombardamento. Di questo ne dò ampio resoconto nel mio libro. Anche se nessuno dei sopravvissuti, vorrei dirlo chiaramente in modo da fugare ogni dubbio, ha mai creduto di potere porre per questo sullo stesso piano gli alleati con i carnefici.


7. Posso chiederle com’è andato l’incontro del 14 maggio alla Fiera del Libro di Torino ? .

Un bell’incontro. Con un confronto di merito anche con chi era in sala, tra i partecipanti oltre alle sorelle Bucci c’erano dei rappresentanti del Museo di Auschwitz che hanno preso la parola. Colpisce l’interesse che va ben al di là degli addetti ai lavori. Un segnale positivo.


8.  Ritiene che sul tema delle responsabilità degli Alleati nell’impedire l’Olocausto ci sia ancora qualcosa da scoprire ?                            
E ancora: ritiene che questa vicenda (l’inerzia degli Alleati nei confronti di quanto accadeva nei lager), possa insegnare qualcosa ?  Per esempio, che gli Alleati, nel secondo conflitto mondiale  (per limitarci a questo), hanno commesso errori su errori, che solo con grande reticenza vengono riportati alla luce e chiamati con il loro nome.  Mai come in questo caso, forse, è valida l’affermazione secondo cui la Storia è scritta dai vincitori. 

Il metodo storico ci spinge a comprendere non a giudicare. Certo, come dicevo prima, durante la guerra è stato sottovalutato il peso di quelle notizie e, come ho detto, sarebbe stato possibile intervenire nell’estate del 1944. Ma non è stato fatto; oggi, più di ieri, ha senso chiedersi il perché cercando possibili risposte. Questo non significa avere un intento revisionistico, nel senso deteriore e fuorviante del termine, né mettere sullo stesso piano i carnefici con i liberatori, come per un lungo periodo è sembrato essere di moda in Italia. La ricerca storica su questi argomenti deve continuare, ma in ogni caso non può in nessun modo sminuire il peso e l’importanza del sacrificio compiuti da centinaia di migliaia dei giovani degli eserciti alleati impegnati nella liberazione dell’Europa dal nazi-fascismo; la maggiore consapevolezza di quei fatti può, al contrario, essere utile per comprendere le valenze e le compatibilità di quel sacrificio. 

9. Come si inserisce questo suo volume all’interno della sua produzione scientifica?

È parte del mio tentativo di capire le dinamiche del Novecento, in Italia e nel mondo. Ho sempre guardato alla storia come a un’opportunità per misurarsi su una funzione e un impegno civile.


10. Il libro è stato presentato nelle scuole superiori e nelle università ?  Ha riscontrato molto interesse nel pubblico ?. 

Fortunatamente sì. È non lo dico (solo) per motivi editoriali, ma perché è questo il modo migliore per continuare a tenere viva l’attenzione su un tema, la Shoah, su cui i riflettori non dovrebbero mai spegnersi.


11. Come trova, sul piano della preparazione di base, gli studenti che sostengono gli esami con lei ?  Ritiene che la scuola superiore faccia abbastanza  (in questo come in altri settori) ?

La scuola e l’Università italiana attraversano, e non da oggi, un periodo di sofferenza. Chi vive e lavora in questo mondo si rende perfettamente conto della necessità di nuovi investimenti per incrementare le risorse o, quanto meno, per migliorare l’utilizzo di quelle che ci sono. Questo non significa necessariamente assumere più docenti; può invece volere dire, ad esempio, mettere quelli che ci sono in condizione di migliorare la ricerca, la formazione e l’aggiornamento, oppure investire sulle infrastrutture materiali e immateriali delle nostre scuole e Università, per permettere agli studenti di approfondire questioni, tematiche e problemi con gli strumenti più adeguati e aggiornati che oggi molti loro coetanei nel mondo hanno a disposizione.


12. Ci sono molti studenti che le chiedono la tesi sul tema dell’Olocausto e più in generale sulla questione ebraica ?

Non mi sono mai posto questa domanda. Oltretutto, credo sia sbagliato leggere le politiche di sterminio sistematico come una questione a sé stante, un argomento da separare rispetto alle vicende della seconda guerra mondiale. Per capire veramente l’Olocausto, oltre evidentemente alla conoscenza di quei fatti specifici che ne compongono una tela molto intricata, è necessario conoscere e capire l’insieme dei processi politici, sociali ed economici del Novecento in Europa e nel mondo. In estrema sintesi: non si capisce la guerra se non si comprende la Shoah e viceversa. Il filo conduttore non può che essere l’indagine sulla storia dell’Europa di quegli anni e, credo, anche dei secoli precedenti.
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      Bibliografia


Umberto Gentiloni Silveri,
Bombardare Auschwitz, Mondadori 2015.

















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Video relativi al libro
e ad altre opere di Gentiloni Silveri
















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