di A. Lalomia
Tra i punti più controversi del secondo
conflitto mondiale, quello relativo alla mancata distruzione dei
lager nazisti da parte degli Alleati rappresenta senza dubbio uno dei più
delicati e ancora oggi poco dibattuti. Forse non è un caso che nella
sterminata bibliografia su questa guerra le opere che cerchino
di fare piena luce sui motivi che spinsero i vertici anglo-americani -e in particolare quelli statunitensi- a rimandare oltre ogni ragionevole esigenza
bellica la scelta di colpire i campi, siano relativamente poche. È troppo
pensare che a trattenere quantomeno alcuni storici dall’addentrarsi in questo terreno abbia giocato (e continui tuttora a
giocare) anche la consapevolezza che per
un’analisi veramente completa dei fatti sarebbe stato necessario (e sarebbe
tuttora necessario) aprire degli armadi che custodiscono da decenni verità e segreti
imbarazzanti, e che comunque è meglio non pubblicizzare troppo ? 1
Al tentativo di ricostruire in modo
rigoroso e autorevole il complesso scenario che ha permesso al regime nazista
di mantenere in piena attività alcuni lager sin quasi agli ultimi giorni di
guerra (tra l’indifferenza e certe motivazioni degli Alleati su cui si potrebbe
discutere), Umberto Gentiloni Silveri 2 ha
fornito un importante contributo con il saggio Bombardare Auschwitz. Perché si poteva fare, perché non è stato fatto 3 , edito da Mondadori e accolto molto favorevolmente dalla critica 4 e
dal pubblico.
Quella che segue è l’intervista che
Gentiloni Silveri -che ringrazio pubblicamente- mi ha concesso.
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Note
1 Mi riferisco ad esempio alle opinioni
antisemite -e comunque poco sensibili
alle ragioni della
comunità ebraica- di prestigiose figure
del mondo della finanza e dell’industria statunitense. Com’è noto, uno dei più ferventi seguaci dell’ideologia nazista –con
particolare riguardo proprio all’antisemitismo-
è stato Henry Ford, finanziatore dello stesso partito nazista.
Si può dire anzi che la principale opera
di Henry Ford, The International Jew (1920; pubblicato in tedesco nel 1921) e in italiano nel 1938,
abbia rappresentato una delle
maggiori fonti d’ispirazione per la stesura del Mein Kampf. (A proposito di quest'ultimo testo, vorrei segnalare l'articolo di Gentiloni Silveri apparso sulla "Stampa" del 16-12-15 : Settant'anni dopo siamo pronti a leggere il Mein Kampf ?)
Le simpatie naziste di Ford vennero
generosamente ricambiate da Hitler e d’altra parte (singolare coincidenza…) i suoi stabilimenti in
Germania furono risparmiati (per un discreto
periodo) dai bombardamenti alleati.
Ma il coinvolgimento dell’industria e della finanza USA nel riarmo e nello sforzo bellico tedesco (in contrasto, quindi, con gli interessi del loro stesso Paese, cioè gli Stati Uniti, a cui peraltro, in diversi casi, offrivano piena collaborazione), oltre alla Ford, riguardò anche altri colossi dell’economia americana, come risulta tra l’altro dai video presenti nella playlist del mio canale youtube . In pratica, aziende leader USA lavorarono (almeno per un certo periodo) sia per le forze armate del loro Paese, sia per i loro nemici, cioè i nazisti, con forte disappunto di Roosevelt, che più di una volta biasimò il comportamento irresponsabile di queste corporation.
In realtà, l’antisemitismo, negli Stati Uniti, annoverava anche altre illustri personalità, quali ad esempio l’aviatore Charles Lindbergh, il poeta Ezra Pound e l’insospettabile Walt Disney (anche se i cartoon di quest’ultimo diedero un contributo non irrilevante alla propaganda antinazista).
Insomma, i simpatizzanti dell’ideologia nazista e antisemita, nell’America del New Deal, non furono certamente pochi, come del resto sembrano documentare anche i video sui gruppi nazisti operanti nel Paese in questo periodo. E d'altronde, si tratta di una realtà che non deve sorprendere, quando si pensi che il KKK, nato con l'obiettivo specifico di contrastare l'emancipazione della comunità nera, ben presto incluse tra i suoi nemici gli ebrei e in seguito anche i cattolici. Inoltre, va considerato che all'inizio degli Anni Trenta, una parte consistente (circa un quarto) della popolazione degli Stati Uniti era di origine tedesca e rappresentava quindi, almeno potenzialmente, un serbatoio di adesioni filo-naziste certo non trascurabile. Tale componente sarebbe diventata ancora più minacciosa dopo l''immigrazione in America di fanatici nazisti. Questi ultimi, malgrado i tentativi delle autorità statunitensi di contrastare il German American Bund di Fritz Kuhn, cercarono di convertire alla causa hitleriana anche quegli americani di origine tedesca prima indifferenti o addirittura scettici nei confronti della ''nuova Germania'.
A ben vedere, comunque, anche in certi ambienti dell’amministrazione Roosevelt si respirava un clima antisemita e comunque la percezione del pericolo che correvano gli ebrei in Europa, a seguito dell’ascesa del nazismo al potere, era decisamente bassa. Basti pensare che tra il 1933 e il 1940 -come risulta tra l’altro da questa cartina - soltanto 90.000 ebrei tedeschi ottennero il permesso di entrare negli Stati Uniti, a fronte di un numero di richiedenti assai più alto e della maggiore disponibilità offerta da altri governi ad accogliere gli ebrei in fuga dall’Europa.
Contro il clima di terrore che dalla Germina di Hitler rischiava di dilagare anche negli Stati Uniti, cercò a più riprese di schierarsi il Congresso Ebraico Americano. Si veda ad esempio questo breve filmato su una manifestazione organizzata dal Congresso a Manhattan già nel 1933, poco dopo la nomina di Hitler a cancelliere. Ma forse, più che gli esempi riportati sopra, per capire davvero i motivi che sono alla base del modesto impegno mostrato dall’America di Roosevelt nel fronteggiare la persecuzione degli ebrei da parte del regime nazista, è più utile la testimonianza che David A. Harris (Executive Director dell’American Jewish Committee) rese il 19 marzo 2009 alla competente Sottocommissione (per l’Immigrazione, la Cittadinanza, i Rifugiati, la Sicurezza delle Frontiere, il Diritto Internazionale) della Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti. Si tratta di un documento particolarmente drammatico, di cui mi limito a riportare solo alcuni passi (corsivi e sottolineature miei): “ […] But the Roosevelt era included one great failing. As a nation, we did far less to rescue Jews, who were targeted for extinction by the Nazi juggernaut, than we could and should have.
Ma il coinvolgimento dell’industria e della finanza USA nel riarmo e nello sforzo bellico tedesco (in contrasto, quindi, con gli interessi del loro stesso Paese, cioè gli Stati Uniti, a cui peraltro, in diversi casi, offrivano piena collaborazione), oltre alla Ford, riguardò anche altri colossi dell’economia americana, come risulta tra l’altro dai video presenti nella playlist del mio canale youtube . In pratica, aziende leader USA lavorarono (almeno per un certo periodo) sia per le forze armate del loro Paese, sia per i loro nemici, cioè i nazisti, con forte disappunto di Roosevelt, che più di una volta biasimò il comportamento irresponsabile di queste corporation.
In realtà, l’antisemitismo, negli Stati Uniti, annoverava anche altre illustri personalità, quali ad esempio l’aviatore Charles Lindbergh, il poeta Ezra Pound e l’insospettabile Walt Disney (anche se i cartoon di quest’ultimo diedero un contributo non irrilevante alla propaganda antinazista).
Insomma, i simpatizzanti dell’ideologia nazista e antisemita, nell’America del New Deal, non furono certamente pochi, come del resto sembrano documentare anche i video sui gruppi nazisti operanti nel Paese in questo periodo. E d'altronde, si tratta di una realtà che non deve sorprendere, quando si pensi che il KKK, nato con l'obiettivo specifico di contrastare l'emancipazione della comunità nera, ben presto incluse tra i suoi nemici gli ebrei e in seguito anche i cattolici. Inoltre, va considerato che all'inizio degli Anni Trenta, una parte consistente (circa un quarto) della popolazione degli Stati Uniti era di origine tedesca e rappresentava quindi, almeno potenzialmente, un serbatoio di adesioni filo-naziste certo non trascurabile. Tale componente sarebbe diventata ancora più minacciosa dopo l''immigrazione in America di fanatici nazisti. Questi ultimi, malgrado i tentativi delle autorità statunitensi di contrastare il German American Bund di Fritz Kuhn, cercarono di convertire alla causa hitleriana anche quegli americani di origine tedesca prima indifferenti o addirittura scettici nei confronti della ''nuova Germania'.
A ben vedere, comunque, anche in certi ambienti dell’amministrazione Roosevelt si respirava un clima antisemita e comunque la percezione del pericolo che correvano gli ebrei in Europa, a seguito dell’ascesa del nazismo al potere, era decisamente bassa. Basti pensare che tra il 1933 e il 1940 -come risulta tra l’altro da questa cartina - soltanto 90.000 ebrei tedeschi ottennero il permesso di entrare negli Stati Uniti, a fronte di un numero di richiedenti assai più alto e della maggiore disponibilità offerta da altri governi ad accogliere gli ebrei in fuga dall’Europa.
Contro il clima di terrore che dalla Germina di Hitler rischiava di dilagare anche negli Stati Uniti, cercò a più riprese di schierarsi il Congresso Ebraico Americano. Si veda ad esempio questo breve filmato su una manifestazione organizzata dal Congresso a Manhattan già nel 1933, poco dopo la nomina di Hitler a cancelliere. Ma forse, più che gli esempi riportati sopra, per capire davvero i motivi che sono alla base del modesto impegno mostrato dall’America di Roosevelt nel fronteggiare la persecuzione degli ebrei da parte del regime nazista, è più utile la testimonianza che David A. Harris (Executive Director dell’American Jewish Committee) rese il 19 marzo 2009 alla competente Sottocommissione (per l’Immigrazione, la Cittadinanza, i Rifugiati, la Sicurezza delle Frontiere, il Diritto Internazionale) della Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti. Si tratta di un documento particolarmente drammatico, di cui mi limito a riportare solo alcuni passi (corsivi e sottolineature miei): “ […] But the Roosevelt era included one great failing. As a nation, we did far less to rescue Jews, who were targeted for extinction by the Nazi juggernaut, than we could and should have.
Who was to blame? Frankly, it would be easier, and
much shorter, to list who was not to blame.
The reasons, excuses, and defenses for those who failed to act could fill volumes.
However sensitive President Roosevelt might have been to the Jews’ plight, and there is reason to believe that he was, domestic politics at the time made it difficult for him to act.
He was fearful of inciting the fertile ground of domestic anti-Semitism and facing the wrath of widespread nativist sentiment, both attested to by public opinion polls at the time. Moreover, he was convinced, once the U.S. entered the war, that the best way to help Europe’s Jews was to vanquish the Nazis as quickly as possible, without any so-called distraction or diversion of resources.
The Congress, while including some Members who desperately wanted to help beleaguered Jews, could not overcome the resistance of restrictionist colleagues, who, reflecting the popular mood, were unwilling to revisit strict immigration laws adopted in 1924, leaving those laws intact throughout the period under discussion here.
The State Department, plagued by the bureaucratic instinct for inertia and legalism at its worst, not to mention a tissue-thin facade that barely concealed the anti-Semitism of some of its key decision-makers, was the last place in Washington to look for help.
The general public was certainly not clamoring for the gates to be opened. Fearful of more newcomers, who were seen as threats to scarce jobs, and influenced the hysteria wrought by demagogues like Father Charles Coughlin, who railed against the Jews in his popular radio broadcasts, the American people exerted little pressure on elected officials to do something dramatic to help Europe’s embattled Jews.
In fact, a 1942 survey, cited by Leonard Dinnerstein in Antisemitism in America, found that Americans rated Jews as the third greatest “menace” to the country, behind only Germans and Japanese, the country’s sworn wartime enemies. By 1944, Jews had moved to the top of the list, with 24 percent of Americans believing that Jews posed the greatest danger.
With notably few exceptions, the media did not experience its proudest moment, either. In such leading newspapers and opinion-molders as the New York Times, stories about the plight of Hitler’s victims were often brief and buried, and editorials were few and far between. They hardly contributed to an understanding of, much less a popular outrage against, what was taking place in Europe, even as the grisly facts of the Nazi eliminationist plans emerged.
[ … ] In May 1939, a passenger liner, the St. Louis, set sail from Hamburg with over 900 Jewish refugees. It was destined for Cuba, but, on arrival, Cuban officials cancelled the transit visas that had been issued to the passengers and refused to let all but a tiny handful disembark. The ship then headed for the coast of Florida, coming so close that the refugees could see the lights of Miami, but U.S. officials callously refused to let it enter a port and discharge its passengers. Rather, the ship was sent back to Europe. More than a quarter of the passengers, it is known, were subsequently killed by the Nazis. […]
The reasons, excuses, and defenses for those who failed to act could fill volumes.
However sensitive President Roosevelt might have been to the Jews’ plight, and there is reason to believe that he was, domestic politics at the time made it difficult for him to act.
He was fearful of inciting the fertile ground of domestic anti-Semitism and facing the wrath of widespread nativist sentiment, both attested to by public opinion polls at the time. Moreover, he was convinced, once the U.S. entered the war, that the best way to help Europe’s Jews was to vanquish the Nazis as quickly as possible, without any so-called distraction or diversion of resources.
The Congress, while including some Members who desperately wanted to help beleaguered Jews, could not overcome the resistance of restrictionist colleagues, who, reflecting the popular mood, were unwilling to revisit strict immigration laws adopted in 1924, leaving those laws intact throughout the period under discussion here.
The State Department, plagued by the bureaucratic instinct for inertia and legalism at its worst, not to mention a tissue-thin facade that barely concealed the anti-Semitism of some of its key decision-makers, was the last place in Washington to look for help.
The general public was certainly not clamoring for the gates to be opened. Fearful of more newcomers, who were seen as threats to scarce jobs, and influenced the hysteria wrought by demagogues like Father Charles Coughlin, who railed against the Jews in his popular radio broadcasts, the American people exerted little pressure on elected officials to do something dramatic to help Europe’s embattled Jews.
In fact, a 1942 survey, cited by Leonard Dinnerstein in Antisemitism in America, found that Americans rated Jews as the third greatest “menace” to the country, behind only Germans and Japanese, the country’s sworn wartime enemies. By 1944, Jews had moved to the top of the list, with 24 percent of Americans believing that Jews posed the greatest danger.
With notably few exceptions, the media did not experience its proudest moment, either. In such leading newspapers and opinion-molders as the New York Times, stories about the plight of Hitler’s victims were often brief and buried, and editorials were few and far between. They hardly contributed to an understanding of, much less a popular outrage against, what was taking place in Europe, even as the grisly facts of the Nazi eliminationist plans emerged.
[ … ] In May 1939, a passenger liner, the St. Louis, set sail from Hamburg with over 900 Jewish refugees. It was destined for Cuba, but, on arrival, Cuban officials cancelled the transit visas that had been issued to the passengers and refused to let all but a tiny handful disembark. The ship then headed for the coast of Florida, coming so close that the refugees could see the lights of Miami, but U.S. officials callously refused to let it enter a port and discharge its passengers. Rather, the ship was sent back to Europe. More than a quarter of the passengers, it is known, were subsequently killed by the Nazis. […]
Un’ultima
annotazione. Anche il cinema si è occupato del sentimento antisemita presente a livello popolare negli Stati Uniti
della lunga presidenza Roosevelt. Vorrei citare soltanto un titolo : I giovani leoni .
Nei due minuti compresi tra 1.16. e 1.18 emerge un classico campionario di sproloqui antisemiti.
2 Qui,
l’ area personale dell’A. sul portale dell’Università “La Sapienza” di Roma, dove
si può leggere l’imponente elenco delle sue pubblicazioni .
3 Qui per la lettura del primo capitolo del
volume. Non è un caso, forse, che il titolo del
libro di Gentiloni Silveri si riferisca espressamente ad Auschwitz, visto che proprio
questa località (in ragione del ruolo centrale svolto dalla
struttura nel progetto di sterminio di intere comunità) è diventata il simbolo stesso del
genocidio attuato dai nazisti.
4 Recensioni e video sul libro (e in generale su Gentiloni Silveri) sono riportati al termine dell’intervista.
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1. Se ho capito bene la sua tesi, lei
sostiene che gli Alleati (e quindi soprattutto
gli Americani, perché sono stati loro a dare il maggior contributo per la
vittoria) abbiano deciso di non agire contro i lager per evitare una dispersione
di forze e di mezzi, che dovevano servire per conquistare la
Germania e abbattere il regime nazista. Mi perdoni la domanda: ma possibile che nessun politico americano o
inglese, così come non uno dei generali alleati, non comprendesse che una volta
abbattuto il nazismo gli Alleati avrebbero trovato i lager ormai chiusi dagli stessi tedeschi (perché non avevano più nessuno da sterminare)
?
È una
domanda complessa che richiede una risposta articolata. Alla base vi sono due elementi
che affronteremo immagino in questa intervista: il primo afferisce al grado di
consapevolezza tra gli Alti Comandi Alleati – e nelle opinioni pubbliche dei
paesi aderenti alle Nazioni Unite – della politica di sterminio. A questo
livello, per rispondere alla sua domanda è necessario comprendere cosa effettivamente
fosse noto. Se parliamo di cosa si sapeva, dobbiamo definire i destinatari: un
conto sono i canali riservati d’intelligence, i messaggi sparsi e confusi che
circolano in Europa; altro è invece riferirsi a un quadro certo e verificabile
di classi dirigenti o magari di opinioni pubbliche più vaste. Così come
un’altra discriminante è data dalla tempistica: quando effettivamente gli Alti Comandi
capiscono pienamente cosa sta succedendo in Europa? Il secondo piano della riflessione – che soprattutto dal 1944 si ricollega al
primo – è riconducibile alla strategia Alleata
per la quale la vittoria finale e la caduta di Hitler sono le uniche vere
garanzie per liberare l’Europa – e con essa tutti i popoli perseguitati – dal
nazismo. Su questi due piani di riflessione nel libro provo a effettuare una
ricostruzione dei fatti e a fornire qualche spunto di riflessione sul senso
complessivo della vittoria alleata del 1945.
Jan Karski |
F. D. Roosevelt |
Felix Frankfurter |
Rudolf Wrba (Walter Rosenberg) |
È in questo momento che il cerchio delle alternative possibili comincia a delinearsi con maggiore chiarezza e l’ipotesi del bombardamento diventa una possibilità concreta. Nell’estate del 1944 maturano due condizioni parallele ma entrambe necessarie: la consapevolezza della gravità della questione ai massimi livelli politici degli Alti Comandi Alleati e la possibilità logistica di fare decollare aerei che dal sud Italia arrivino a bombardare Auschwitz. È una finestra breve, all’interno della quale si muovono diverse tensioni e anche strategie differenti riguardo all’impiego dei mezzi militari per giungere al più presto alla sconfitta del nazismo in Europa.
3. Perché gli Alleati non hanno
neanche bombardato le linee ferroviarie attraverso le quali avveniva il
trasferimento dei deportati nei lager ? Eppure,
mi sembra che più di una volta i bombardamenti alleati abbiano distrutto centri
abitati, siti industriali, aree militari quasi a ridosso di queste stesse linee
ferroviarie. Come si può giustificare una scelta del genere ?
Sono
questioni distinte e come tali vanno affrontate. Le celebri foto scattate nel
1944 dall’aviazione alleata in volo su Auschwitz e sui tre campi che ne
compongono la struttura logistica entrano a fare parte dei tanti dossier di
documentazione e conoscenza del territorio predisposti in quelle settimane di
guerra per colpire le industrie e gli apparati produttivi a sostegno delle
forze naziste. Quelle foto, scattate dai ricognitori americani, arrivano nelle
mani dei comandi Alleati dove sono lette a partire da quell’obiettivo
(individuare gli apparati industriali) e, elemento non trascurabile in questo
contesto, da quel livello di consapevolezza della politica di deportazione e
sterminio di cui parlavo prima. Oltretutto, negli anni Quaranta non c’erano i
metodi di ingrandimento degli scatti utili a spiegare con esattezza quanto
stesse avvenendo a terra e di permettere agli ufficiali americani di
comprendere come quella lunga fila di persone che si intravede nelle foto fosse
in realtà in attesa di dirigersi verso le camere a gas. La tecnologia
consentirà di leggere meglio e, voglio sottolinearlo, diversamente quelle foto
molto più tardi. Non a caso, quando negli anni Settanta riemergono dagli
archivi militari americani quelle foto entrano a fare parte non di un dossier
utile a un raid aereo, ma dell’insieme delle prove sulla conoscibilità della
Shoah. Diventano il tassello di un mosaico di conferme importanti che incrocia
e sovrappone - in uno di quei giochi di specchi - alle celebri immagini dell’Album di Auschwitz in cui due fotografi
nazisti documentano, da terra e proprio negli stessi momenti, l’ultimo tragitto
di un convoglio di ebrei ungheresi giunto a Birkenau. Nel mio libro provo a
ricostruire la storia del ritrovamento delle foto, il ruolo di alcuni ex agenti
della Cia e le dinamiche di presentazione e utilizzo delle stesse di fronte
all’opinione pubblica mondiale.
L'Album di Auschwitz |
4. Al di là di ogni considerazione, resta
comunque da chiedersi come mai gli Alleati abbiano deciso di
gettare nel calderone infernale della guerra migliaia di aerei e migliaia e
migliaia di piloti per raggiungere obiettivi che non possono certo
considerarsi particolarmente importanti sul piano militare. Mi riferisco ad
esempio al bombardamento di Dresda del 13 febbraio 1945, che coinvolse migliaia
di aerei alleati (non pochi dei quali vennero abbattuti dalla contraerea) e che
causò almeno centomila vittime e la distruzione pressoché
totale di quella che veniva giudicata a ragione come una perla della cultura
tedesca, certamente non un obiettivo militare strategico, visto che non
ospitava né impianti industriali, né siti militari di rilievo. Gli Alleati, per giustificarsi degli orrori
che avevano commesso in questa come in altre occasioni, dissero
che l’azione rientrava nel piano di bombardamenti che
avrebbero dovuto piegare la resistenza della popolazione tedesca, spingendola a
ribellarsi a Hitler per porre termine al conflitto (altrimenti sarebbero stati annientati tutti).
In realtà, com’è noto, questo ragionamento era del tutto teorico. Infatti, i
bombardamenti ‘terroristici’ e inutili degli Alleati spinsero alla resistenza
anche quei tedeschi che non avevano alcuna simpatia per il nazismo. Non occorre essere
simpatizzanti di David Irving per non stupirsi del fatto che ragionamenti così elementari
non siano stati compresi da personalità che
erano al vertice delle istituzioni dei paesi democratici.
Ma passiamo ad altro.
Come hanno giudicato i vertici del nazismo
e delle forze armate tedesche l’inerzia degli Alleati nei confronti dei
lager ? È lecito affermare che tale
inerzia sia stata interpretata come una specie di indifferenza degli Alleati
stessi verso l’azione di genocidio che stavano compiendo ?
È una domanda che può trovare una
risposta sul piano del metodo storico soltanto alla luce delle considerazioni
che facevo sul contesto, la tempistica e la modalità con cui le notizie della
Shoah arrivano ai comandi Alleati e sulle scelte militari fatte nell’unica
reale opportunità di bombardamento possibile secondo lo stato della nostra
conoscenza delle fonti: l’estate del 1944. In questo modo si spiega la
strategia per giungere alla vittoria finale, alla resa incondizionata del
nemico. La seconda guerra mondiale, per la sua natura, non ammette vie di mezzo
o compromessi; la posta in palio non è solo legata alla conquista di territori
o alla ridefinizione dei rapporti di forza. E’ il destino del genere umano a
essere scosso dal nuovo ordine mondiale proposto dal Terzo Reich. Così la
coalizione delle Nazioni Unite vuole giungere alla salvezza per tutti
attraverso la vittoria finale, obiettivo dal quale non possono essere distolte
forze, intelligenze, energie che vengono giudicate necessarie. Dopo lo sbarco in
Normandia bisogna giungere a Berlino nel più breve tempo possibile: quella,
nell’ottica degli alti comandi, sarebbe stata la data della liberazione dalla
minaccia nazista, anche per chi dai nazisti era perseguitato. Non si tratta
dunque di indifferenza. Al contrario, è la ricerca della via migliore per
sconfiggere il carnefice. Tuttavia, e su questo provo a dire qualcosa nelle
conclusioni del mio volume, rimane intatta l’impressione che se quella finestra
dell’estate del 1944 fosse stata sfruttata, quando oramai i livelli politici
più alti delle Nazioni Unite avevano capito meglio cosa stesse avvenendo, forse
gli effetti pratici sulla macchina dello sterminio sarebbero stati poco
significativi, ma la vittoria alleata del maggio 1945 si sarebbe potuta giovare
di un riflesso etico e civile più solido.
5. Sia nel Regno Unito che negli USA sono sempre
esistite consistenti comunità di ebrei, che sin dall’avvento del nazismo si
sono consolidate a
causa dell’esilio di non pochi tedeschi (basti
pensare alla famiglia Freud). Queste comunità
-che verosimilmente dovevano conoscere quanto accadeva nei campi-
hanno cercato di spingere il potere politico (americano o inglese) ad
agire con fermezza, per mettere fine al genocidio ?
È una questione
difficilmente risolvibile in poche battute. Una delle spiegazioni può essere
ricercata nel livello di consapevolezza allora presente in Europa e America
sulla effettiva politica di sterminio posta in essere dai nazisti; non
dimentichiamo che le prime testimonianze sullo sterminio che cominciano a
diffondersi in Europa sono ritenute inattendibili anche dagli esponenti di
primo piano di alcune comunità ebraiche che nei mesi seguenti saranno vittime
dello sterminio. Inoltre, come ricordavo, è necessario confrontare questi
diversi livelli di consapevolezza con la tempistica della loro diffusione e con
quel contesto strategico proprio della seconda guerra mondiale di cui ho
provato a darle una breve sintesi nella risposta precedente.
6. Dopo la fine della guerra, in
che paese -e quando- si è sollevata con particolare
enfasi la questione del mancato bombardamento dei campi ? Nello specifico: qual è
stato il dibattito negli Stati Uniti sull’atteggiamento di F. D. Roosevelt verso la questione
ebraica, un tema al centro, per esempio, di FDR and the Jews , di R.
Breitmann e A. Lichtman , nonché di FDR and the
Holocaust: A Breach of Faith, di R. Medoff. E inoltre: Simon
Wiesenthal ha mai espresso opinioni al riguardo ?
Anche
questo è un tema molto delicato. Uno dei capitoli del libro è dedicato alla
raccolta delle testimonianze di chi c’era, cercando di descrivere come i sopravvissuti ricordino i momenti in cui sentivano in
lontananza il rombo degli aerei. Molti testimoni hanno lasciato ricordi e
impressioni di quei momenti. Sono attimi nei quali si mescolano diverse
tensioni emotive, il ricordo personale degli uomini tende a mescolarsi con la
ricostruzione dei fatti. Anche in questo le loro testimonianze – alcune raccolte
direttamente, altre riprese dall’ampia bibliografia sull’argomento – sono un
bene prezioso, un tassello imprescindibile di quel mosaico costitutivo della
nostra conoscenza dell’Olocausto. Oltretutto, l’attesa e la speranza dei
bombardamenti, espressa da quasi tutti i testimoni di allora, ci aiuta a comprendere
meglio la tragicità dell’Universo concentrazionario. Elie Wiesel, ne La notte, ha scritto con partecipazione e coinvolgimento
dell’arrivo degli apparecchi in cielo:
«Allora
cominciammo a sentire gli aeroplani. Quasi subito le baracche si misero a
tremare. Bombardano Buna! Gridò qualcuno. Io pensavo a mio padre. Ma ero
ugualmente felice. Vedere la fabbrica consumarsi nell’incendio, che vendetta!».
A costo di restare sotto le macerie del
bombardamento, anche lui non ha tentennamenti: «Nessuno di noi aveva paura,
eppure se una bomba fosse cascata sui blocchi
avrebbe fatto centinaia di vittime in un colpo solo. Ma non temevamo più la
morte, e in ogni caso non quel tipo di morte. Ogni bomba che esplodeva ci
riempiva di gioia, ci ridava fiducia nella vita». Anche per questo, quando a
partire dagli anni Sessanta sono cominciate a strutturarsi le testimonianze dei
sopravvissuti, il tema del mancato bombardamento Alleato è stato non di rado
uno dei maggiori motivi di tensione tra i testimoni per il mancato
bombardamento. Di questo ne dò ampio resoconto nel mio libro. Anche se nessuno
dei sopravvissuti, vorrei dirlo chiaramente in modo da fugare ogni dubbio, ha
mai creduto di potere porre per questo sullo stesso piano gli alleati con i
carnefici.
Elie Wiesel |
7. Posso chiederle com’è andato
l’incontro del 14 maggio alla Fiera del Libro di Torino ? .
Un bell’incontro. Con
un confronto di merito anche con chi era in sala, tra i partecipanti oltre alle
sorelle Bucci c’erano dei rappresentanti del Museo di Auschwitz che hanno preso
la parola. Colpisce l’interesse che va ben al di là degli addetti ai lavori. Un
segnale positivo.
8. Ritiene che sul tema delle responsabilità
degli Alleati nell’impedire l’Olocausto ci sia ancora qualcosa da scoprire ?
E ancora: ritiene che questa vicenda (l’inerzia degli Alleati nei confronti di quanto accadeva nei lager), possa insegnare qualcosa ? Per esempio, che gli Alleati, nel secondo conflitto mondiale (per limitarci a questo), hanno commesso errori su errori, che solo con grande reticenza vengono riportati alla luce e chiamati con il loro nome. Mai come in questo caso, forse, è valida l’affermazione secondo cui la Storia è scritta dai vincitori.
E ancora: ritiene che questa vicenda (l’inerzia degli Alleati nei confronti di quanto accadeva nei lager), possa insegnare qualcosa ? Per esempio, che gli Alleati, nel secondo conflitto mondiale (per limitarci a questo), hanno commesso errori su errori, che solo con grande reticenza vengono riportati alla luce e chiamati con il loro nome. Mai come in questo caso, forse, è valida l’affermazione secondo cui la Storia è scritta dai vincitori.
Il
metodo storico ci spinge a comprendere non a giudicare. Certo, come dicevo
prima, durante la guerra è stato sottovalutato il peso di quelle notizie e,
come ho detto, sarebbe stato possibile intervenire nell’estate del 1944. Ma non
è stato fatto; oggi, più di ieri, ha senso chiedersi il perché cercando
possibili risposte. Questo non significa avere un intento revisionistico, nel
senso deteriore e fuorviante del termine, né mettere sullo stesso piano i
carnefici con i liberatori, come per un lungo periodo è sembrato essere di moda
in Italia. La ricerca storica su questi argomenti deve continuare, ma in ogni
caso non può in nessun modo sminuire il peso e l’importanza del sacrificio
compiuti da centinaia di migliaia dei giovani degli eserciti alleati impegnati
nella liberazione dell’Europa dal nazi-fascismo; la maggiore consapevolezza di
quei fatti può, al contrario, essere utile per comprendere le valenze e le
compatibilità di quel sacrificio.
9. Come si inserisce questo suo
volume all’interno della sua produzione scientifica?
È parte del mio
tentativo di capire le dinamiche del Novecento, in Italia e nel mondo. Ho sempre
guardato alla storia come a un’opportunità per misurarsi su una funzione e un
impegno civile.
10. Il libro è stato presentato
nelle scuole superiori e nelle università ? Ha riscontrato
molto interesse nel pubblico ?.
Fortunatamente sì. È
non lo dico (solo) per motivi editoriali, ma perché è questo il modo migliore
per continuare a tenere viva l’attenzione su un tema, la Shoah, su cui i
riflettori non dovrebbero mai spegnersi.
11. Come trova, sul piano della
preparazione di base, gli studenti che sostengono gli esami con lei ? Ritiene che la scuola superiore faccia
abbastanza (in questo come in altri
settori) ?
La scuola e
l’Università italiana attraversano, e non da oggi, un periodo di sofferenza.
Chi vive e lavora in questo mondo si rende perfettamente conto della necessità
di nuovi investimenti per incrementare le risorse o, quanto meno, per
migliorare l’utilizzo di quelle che ci sono. Questo non significa
necessariamente assumere più docenti; può invece volere dire, ad esempio,
mettere quelli che ci sono in condizione di migliorare la ricerca, la formazione
e l’aggiornamento, oppure investire sulle infrastrutture materiali e
immateriali delle nostre scuole e Università, per permettere agli studenti di
approfondire questioni, tematiche e problemi con gli strumenti più adeguati e
aggiornati che oggi molti loro coetanei nel mondo hanno a disposizione.
12. Ci sono molti studenti che le
chiedono la tesi sul tema dell’Olocausto e più in generale sulla questione ebraica ?
Non mi sono mai posto
questa domanda. Oltretutto, credo sia sbagliato leggere le politiche di
sterminio sistematico come una questione a sé stante, un argomento da separare
rispetto alle vicende della seconda guerra mondiale. Per capire veramente l’Olocausto,
oltre evidentemente alla conoscenza di quei fatti specifici che ne compongono una
tela molto intricata, è necessario conoscere e capire l’insieme dei processi
politici, sociali ed economici del Novecento in Europa e nel mondo. In estrema
sintesi: non si capisce la guerra se non si comprende la Shoah e viceversa. Il
filo conduttore non può che essere l’indagine sulla storia dell’Europa di
quegli anni e, credo, anche dei secoli precedenti.
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Bibliografia
Umberto Gentiloni Silveri,
Bombardare Auschwitz, Mondadori 2015.
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Video relativi
al libro
e ad altre
opere di Gentiloni Silveri
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