Nel 2004 una commissione del Parlamento europeo tanto brigò che gli fu negata la carica di commissario per la giustizia, la libertà e la sicurezza, discriminandolo sulla base delle sue convinzioni religiose e morali, ma Rocco Buttiglione non ha mai cessato di essere un fervente europeista. Tutta la sua carriera politica si è svolta in ambito italiano, dove è stato due volte ministro, deputato in cinque legislature (compresa quella attuale) e senatore in una, tranne un passaggio di due anni, fra il 1999 e il 2001, nel Parlamento europeo. Sulla diagnosi delle cause della crisi a più fronti che attanaglia l’Europa e sulle soluzioni ha idee chiare e distinte.
Per decenni l’Unione Europea ha rappresentato un sogno realizzabile di democrazia, pace e prosperità. Oggi la prosperità non è più assicurata, come si vede nel caso della Grecia e delle altre economie dell’Europa meridionale, la pace è in pericolo, come si vede con la guerra in Ucraina, e la democrazia rischia di diventare irrilevante nel momento in cui tutte le politiche più importanti vengono decise a Bruxelles. Come siamo arrivati a questo punto e qual è il percorso per uscirne?
Dopo la grande stagione dei padri fondatori (De Gasperi, Adenauer e Schumann), negli anni Ottanta, col pontificato di Giovanni Paolo II, noi abbiamo avuto una straordinaria spinta a riscoprire le ragioni dell’unità dell’Europa, che è un’unità prima di tutto culturale, e solo dopo economica. Queste ragioni sono state presentate nella forma di una nuova evangelizzazione, che ha riattualizzato l’incontro con la fede cristiana che ha costituito i popoli europei come tali e le relazioni di fraternità che li hanno fatti diventare una famiglia di popoli. Questa riscoperta della fede cristiana ha prodotto una grande testimonianza di fronte al comunismo, che ne ha causato il crollo. La più grande potenza poliziesca del mondo è crollata di fronte a una testimonianza disarmata.
Quando è accaduto questo, in Europa una classe politica responsabile, incarnata da Helmut Kohl, ha saputo attingere a quella energia morale per realizzare un grande progetto politico, che doveva legare indissolubilmente la Germania all’Occidente. Col crollo dell’Unione Sovietica era inevitabile che la Germania tornasse a muoversi verso est, col rischio di spaccare l’Europa con la nascita di un nuovo impero tedesco nel suo centro. Invece Kohl ha optato per una Germania europea, anziché per un’Europa tedesca, e ha voluto l’euro come strumento per legare saldamente la Germania all’Europa occidentale. L’allargamento dell’Unione a est non rappresentava un’espansione, ma una riunificazione dell’Europa: erano i popoli dell’Est che andavano verso l’Europa, e non la Germania che andava verso est. È stato un grande successo. Ricordate l’Europa nel 1990: i popoli dell’Est avevano perso le sicurezze che, pur nell’indigenza, il comunismo garantiva, e un nuovo sistema economico ancora non c’era. Il pericolo che l’Europa centro-orientale si spaccasse in due, con alcuni paesi che andavano con Berlino e altri che sarebbero tornati sotto l’ala di Mosca, carichi di risentimento, non appena la Russia fosse tornata ad essere una potenza di livello mondiale, era fortissimo. Invece sono riusciti a costruire, col nostro aiuto, sistemi funzionanti e ad avviare uno straordinario sviluppo economico che ha dato speranza a milioni di persone.
Questa serie di successi poi si è interrotta e sono iniziate le sconfitte. Fra il 1998 e il 2005 ne abbiamo incassate una serie. Prima si è deciso di tenere i valori cristiani fuori dalla costituzione europea, poi i popoli hanno rifiutato la costituzione. Una logica unisce i due fatti: se non ci unisce la fede cristiana, cos’è che tiene insieme l’Europa? Perché mai dovrei sentirmi fratello, tanto per dire, di un bulgaro? Venuta meno la spinta ideale, è venuta meno anche la spinta politica. E così abbiamo avuto quindici anni contrassegnati dagli egoismi nazionali, durante i quali la cifra dell’Europa è stata non la comune tradizione cristiana, ma la fine di tutti i valori, e il massimo che si è riusciti a esprimere è stata l’apertura ai diritti Lgbt. L’Europa è come un magnifico castello con dentro opere d’arte, mobili e tappezzerie stupende, ma al quale manca il tetto. Finché c’è il sole può funzionare, ma quando piove va tutto in rovina. La pioggia è arrivata, con la crisi finanziaria ed economica. Davanti alla crisi L’Europa è apparsa indifesa, priva di spirito di solidarietà e di voglia di reagire.
La politica dell’Unione Europea è stata propagandata in questi anni come “la promozione di una sempre maggiore integrazione ed unità europea”, ma questa integrazione non la vediamo quando i problemi riguardano i paesi più deboli, come nel caso dell’ondata migratoria che investe Italia e Grecia o del tema della mutualizzazione del debito. Non sarebbe allora meglio rinunciare alla retorica e tornare ai più modesti obiettivi del Trattato di Roma del 1957 e di quello per il Mercato Unico del 1986: aumento degli scambi economici nel continente e collaborazione fra stati sovrani?
Sarebbe la morte. Col ritorno ai blocchi commerciali chiusi e alle rivalità intracontinentali, tutte le tensioni del mondo si scaricherebbero sull’Europa, come nel secolo XVI tutte le tensioni d’Europa si scaricarono sull’Italia che non aveva risolto la questione della sua integrazione come stato nazionale. L’abbiamo pagata con tre secoli di servitù e povertà. No, bisogna andare avanti e riprendere il programma di sempre maggiore integrazione. In parte lo stiamo riprendendo, perché dal punto di vista tecnico tutte le misure prese contro la crisi finanziaria sono misure di maggiore integrazione. Però bisogna dargli anche una linea politica. Bisogna andare avanti non soltanto perché non c’è alternativa, ma perché ritroviamo le ragioni. Occorre tornare al grande progetto che è appartenuto culturalmente a Giovanni Paolo II e politicamente a Helmut Kohl, e portarlo a compimento.
Non sarebbe più realistica un’Europa a geometria variabile? Possiamo immaginare una dis-integrazione controllata che produca un’Europa a più velocità?
L’Europa è già a più velocità. Le nazioni dell’euro hanno evidentemente in comune più interessi che non le altre. Vediamo di costruire un nocciolo forte dell’Europa formato dai paesi dell’euro, che faccia passi veloci verso l’unità politica. Abbiamo bisogno di una politica economica comune. Puoi mutualizzare il debito solo se poni un freno efficace al diritto di spendere senza limiti attraverso un’autorità comune di bilancio, e se hai una politica di investimenti comune, che porti l’Europa a primeggiare nei settori del digitale, dei nuovi materiali, delle nuove tecnologie, cioè quelli dove abbiamo un vantaggio competitivo sui paesi emergenti. Occorre tornare all’agenda di Lisbona del 2000, che è rimasta inattuata perché è mancata la sponda politica.
Il dramma greco di questi giorni potrebbe sfociare in una crisi irreversibile dell’euro. Quale sarebbe allora la soluzione migliore? L’uscita verso l’alto della Germania e dei suoi soci, con la creazione di due valute? Oppure l’uscita verso il basso dei paesi in crisi, che potrebbero allora far ripartire la crescita con le svalutazioni competitive della loro valuta nazionale?
L’inflazione è una brutta bestia che è facile tirare fuori dalla gabbia, ma poi è difficile farcela rientrare. I paesi del Sud che escono volontariamente dall’euro non ce li vedo proprio, e comunque l’Italia dovrebbe capire che la sua è un’economia del Nord. La soluzione è più sovranità europea, un governo comune legittimato dal voto popolare, un ministro delle Finanze europeo che toglie agli stati il diritto di indebitarsi a volontà. A quel punto una ragionevole mutualizzazione del debito diventa possibile. Non solo la Germania, ma nemmeno l’Italia mutualizzerebbe un debito che non controlla.
Ma si può immaginare una volontà da parte della Germania e della Francia, i due paesi più importanti, di andare in questa direzione?
Nessuno gliel’ha proposto seriamente. La Germania è un grande paese, dove ci sono quelli di “Alternativa per la Germania” che vorrebbero uscire dall’euro e fare da soli, e quelli che sono sinceramente europeisti come lo era Helmut Kohl. La timida svolta di Angela Merkel a cui stiamo assistendo è un effetto della linea Kohl-Juncker-Draghi. Anche la Germania può essere messa in minoranza, ma occorre avere argomenti, molte alleanze, e magari nell’alleanza deve esserci anche un pezzo di Germania, minoritario ma importante. Il problema è creare un’opinione europea che ragiona in termini di bene comune dell’Europa, come c’era al tempo di Giovanni Paolo II e di Helmut Kohl. Dobbiamo riuscire a ricrearla, perché non c’è altra via di salvezza. La crisi dell’Europa comincia quando, dopo la morte di papa Wojtyla, si affievolisce l’idea della nuova evangelizzazione: era quella l’anima dell’Europa.
La crisi dell’Ucraina ha posto l’Europa davanti a due problemi che fino all’anno scorso aveva fatto finta che non esistessero. Quello del rapporto con una Russia che non ha nessuna intenzione di farsi fagocitare dall’Occidente, e quello dei confini finali dell’Unione Europea, che fino all’anno scorso ragionava come se in linea di principio potesse estendersi al mondo intero. Ora non più. Cosa bisogna capire di questi due problemi per poterli affrontare?
Io credo che Putin sarebbe lieto di essere fagocitato dall’Europa, ma la verità è che noi lo abbiamo cacciato. Giovanni Paolo II aveva chiarissimo che l’Europa respira con due polmoni, quello occidentale e quello orientale. Quando governava Kohl fu condotta una politica volta a favorire la democratizzazione della Russia e la sua transizione verso un’economia moderna ed efficiente. Si ipotizzò la creazione di Comunità di stati indipendenti (Csi) dell’ex Unione Sovietica che poi si sarebbe federata con l’Unione Europea sotto il tetto comune del Consiglio d’Europa. Oggi è difficile tornare a quell’idea, perché un paese come l’Ucraina avrebbe grandi difficoltà a formare una Csi con la Russia. Ai russi noi dobbiamo dire “giù le mani dall’Ucraina”, ma anche “in Europa c’è posto per voi”. Noi sappiamo che la Russia è europea e non la vogliamo scacciare dall’Europa, ma con una politica meschina, orientata solo dagli interessi del gas e del petrolio, abbiamo generato nel popolo russo l’idea che non li vogliamo. Poi dobbiamo affrontare la questione dell’Ucraina: Putin deve rinunciare alle sue mire espansionistiche, ma Poroshenko deve capire la questione delle minoranze russofone. Non puoi conservare l’unità dell’Ucraina senza una costituzione ampiamente federale, che riconosca ai russofoni tutti i loro diritti e li tranquillizzi sul fatto che non esiste una volontà di opprimerli. Dobbiamo parlare con Poroshenko, perché anche la dirigenza ucraina ha fatto molti errori.
E i confini dell’Europa? L’Europa ha confini suoi o deve aprirsi all’infinito a tutti coloro che accettano i suoi princìpi e i suoi valori?
L’Europa deve riunire tutti i paesi che condividono i suoi princìpi e valori, ma questi princìpi e valori non sono una dichiarazione astratta, bensì coincidono con una storia. Esistono paesi che condividono una storia, e questa storia è la storia del cristianesimo in Europa: è questo che definisce storicamente l’Europa. I valori diventano concreti attraverso facce, uomini, storie. Non è la stessa cosa imparare il valore del femminile attraverso Dante o attraverso Shakespeare, immaginiamoci poi se ci spostiamo a migliaia di chilometri di distanza. Il patriottismo non è legato alle costituzioni, è legato alla storia, alla cultura, alla lingua, alla fede. Esiste una famiglia di popoli che sono i popoli europei. Tutti i popoli europei hanno il diritto di entrare nell’Unione Europea, i popoli non europei no. Quando saremo maturi abbastanza, inventeremo forme di collaborazione e andremo verso quella governance globale in cui l’Europa reggerà i destini del mondo insieme con gli Stati Uniti, la Cina, l’India, eccetera. Dobbiamo realizzare la nostra integrazione continentale e poi dialogare con gli altri.