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sabato 2 dicembre 2017

Immigrazione. Un'analisi controtendenza.


La teoria economica classica afferma che l’afflusso netto di immigrazione, come il libero commercio, porta beneficio alla popolazione autoctona dopo un certo periodo di tempo. Ma la ricerca più recente sta aprendo grossi interrogativi sulla questione, mentre le reali conseguenze sociali e politiche dell’apertura delle frontiere nazionali suggeriscono altresì l’opportunità di mettere dei limiti all’immigrazione.

La sociologia, l’antropologia e la storia hanno fatto grandi progressi nel dibattito sull’immigrazione. Sembra che l’Homo oeconomicus, che vive solamente per guadagnarsi il pane, sia stato messo da parte in favore di uno per il quale il senso di appartenenza è almeno tanto importante quanto il mangiare.

Questo ci fa dubitare del fatto che l’ostilità verso l’immigrazione di massa sia una mera protesta verso la perdita di posti di lavoro, la depressione dei salari e la crescita delle disuguaglianze. L’economia ha certamento giocato una parte nel rilancio delle identità politiche, ma la crisi di identità non può essere espunta semplicemente attraverso le riforme economiche. Il benessere economico non è equivalente al benessere sociale.



Iniziamo però dal campo economico, usando il Regno Unito – che si sta apprestando a uscire dalla UE – come caso di studio. Tra il 1991 e il 2013 in Gran Bretagna c’è stato un afflusso netto di 4,9 milioni di immigrati nati all’estero.

La teoria economica classica afferma che l’afflusso netto di immigrazione, come il libero commercio, porta beneficio alla popolazione autoctona dopo un certo periodo di tempo. L’argomento è che se si aumenta la quantità di forza lavoro, i prezzi (e i salari) diminuiranno. Questo aumenterà i profitti. L’aumento nei profitti porterà a maggiori investimenti, il che aumenterà la domanda di lavoro, giungendo alla fine a capovolgere l’iniziale caduta dei salari. L’immigrazione permetterebbe dunque a una popolazione più ampia di godere degli stessi standard di vita di cui godeva inizialmente una popolazione più piccola – e questo significherebbe un chiaro miglioramento del benessere totale.

Un recente studio dell’economista Robert Rowthorn della Cambridge University, però, ha mostrato che questo argomento è pieno di limiti. I cosiddetti effetti temporanei in termini di spiazzamento dei lavoratori autoctoni e la caduta dei salari può durare per cinque o dieci anni, mentre i benefici si realizzano solo assumendo che non ci sia recessione. E anche se non c’è recessione, se c’è un afflusso continuo di immigrati, anziché un aumento una tantum nella dimensione della forza lavoro, allora la richiesta di forza lavoro potrebbe essere cronicamente inferiore rispetto alla sua offerta. “L’affermazione secondo la quale gli immigrati portano via i posti di lavoro ai lavoratori autoctoni e ne deprimono i salari“, dice Rowthorn, “può essere esagerata, ma non sempre è falsa“.

Un secondo argomento economico è che l’immigrazione ringiovanisce la forza lavoro e stabilizza le finanze pubbliche, perché i giovani lavoratori importati generano il gettito fiscale necessario a sostenere un crescente numero di pensioni. La popolazione del Regno Unito dovrebbe superare i 70 milioni di individui prima della fine del prossimo decennio, comportando un aumento di 3,6 milioni, ovvero del 5,5 percento, grazie all’immigrazione netta e a un surplus di nascite rispetto alle morti tra i nuovi arrivati.


Rowthorn rifiuta questo argomento. “Il ringiovanimento attraverso l’immigrazione è come la corsa di un criceto nella ruota“, dice. “Per mantenere una riduzione permanente del tasso di dipendenza c’è bisogno di un afflusso interminabile di immigrati. Una volta che l’afflusso si interrompe, la struttura demografica si capovolge e torna alla sua traiettoria iniziale“. Un afflusso inferiore e un’età di pensionamento più alta sarebbero una soluzione migliore nel caso di una popolazione che invecchia.

Perciò, anche con risultati ottimi, come evitare una recessione, l’argomento economico a favore di un’immigrazione su larga scala difficilmente può dirsi decisivo. Perciò il vero nocciolo della questione resta il suo impatto sociale. Da questo punto di vista, se da un lato c’è il noto beneficio dovuto all’incontro tra le diversità, dall’altro c’è il rischio di una perdita di coesione sociale.

David Goodhart, ex editore della rivista Prospect, ha sostenuto la tesi di una limitazione dell’immigrazione da un punto di vista socialdemocratico. Goodhart non prende posizione sul fatto che la diversità culturale sia intrinsecamente o moralmente buona o cattiva. Dà semplicemente per scontato che la maggior parte delle persone preferisca vivere con altre persone a loro simili, e che i politici debbano assecondare questa loro preferenza. Un’atteggiamento “laissez-faire” sulla composizione della popolazione di un paese è tanto insostenibile quanto l’indifferenza alla sua dimensione.

Per Goodhart il nocciolo dell’avversione dei liberali al controllo dell’immigrazione è la loro visione individualista della società. Non riuscendo a comprendere l’attaccamento delle persone verso le comunità nelle quali sono radicate, etichettano come irrazionale o razzista qualsiasi avversione all’immigrazione.

L’eccessivo ottimismo dei liberali sulla facilità di integrare gli immigrati deriva dalla stessa fonte: la società è vista come niente altro che un insieme di individui, per cui l’integrazione è un non-problema. Certo, dice Goodhart, gli immigrati non devono per forza abbandonare del tutto le loro tradizioni, ma “esiste una cosa chiamata società“, e se essi non faranno uno sforzo per appartenervi, i cittadini autoctoni troveranno difficile considerare i nuovi arrivati come parte della loro “comunità immaginata“.

Un afflusso troppo rapido di immigrati indebolisce i legami di solidarietà e, nel lungo termine, erode i legami affettivi che sono indispensabili per sostenere lo stato sociale. “Le persone saranno sempre favorevoli verso le loro famiglie e le loro comunità“, dice Goodhart, ed “è compito di un liberalismo realistico sforzarsi di trovare una definizione di comunità che sia abbastanza ampia da includere persone con diversi retroterra culturali, ma senza essere talmente ampia da diventare priva di significato“.

I liberali e i liberisti lottano fianco a fianco per sostenere un’immigrazione senza alcuna restrizione. Molti politici liberali vedono gli stati nazionali e la lealtà verso di essi come ostacoli a una maggiore integrazione politica dell’umanità. Si appellano a doveri morali che si estendono ben oltre i confini fisici e culturali delle nazioni.

Ad essere in discussione è il più antico dibattito nelle scienze sociali. Le comunità possono essere create semplicemente dalla politica e dai mercati, o presuppongono innanzitutto un senso di appartenenza?

A me sembra che chiunque ragioni su tali questioni debba concordare con Goodhart che la cittadinanza, per la maggior parte delle persone, sia qualcosa dentro la quale si nasce. I valori nascono da una particolare storia e da una particolare geografia. Se la composizione di una società viene modificata troppo rapidamente, ciò getta le persone alla deriva rispetto alla loro storia, e le rende prive di radici. L’ansia dei liberali di non sembrare razzisti impedisce loro di comprendere queste verità. L’inevitabile conseguenza è l’esplosione di ciò che ora viene definito populismo.

La conclusione politica da trarre è abbastanza semplice, ma vale la pena ripeterla. La tolleranza della persone verso il cambiamento e l’adattamento non deve essere forzata oltre il limite, per quanto questo possa cambiare da paese a paese. In particolare, l’immigrazione non dovrebbe essere spinta oltre un certo punto, altrimenti innescherà inevitabilmente reazioni ostili. I politici che non riescono a “controllare le frontiere” non meritano la fiducia della loro gente.


Henry Througha, Project Syndicate, Qualche scomoda verità sull'immigrazione, "Voci dall'estero", 28-11-17.