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mercoledì 3 agosto 2016

Olimpiadi ? No, grazie.

Carly Carioli, una giornalista di Boston, ha raccontato sulNew York Times Magazine la storia di come un piccolo gruppo di attivisti è riuscito a bloccare la candidatura di Boston alle Olimpiadi del 2024, sconfiggendo le personalità più influenti della città: dai grandi uomini d’affari ai politici locali. È una storia che esemplifica un fenomeno sempre più noto e di cui si è parlato anche in Italia in seguito alla candidatura di Roma ai Giochi olimpici del 2024: ospitare le Olimpiadi non solo non è un guadagno, ma produce debiti, riempie le città ospitanti di edifici cherimangono spesso inutilizzati e finisce con il distrarre per anni il dibattito pubblico dalle vere emergenze cittadine.


Il protagonista della storia di Carioli si chiama Chris Dempsey, «il tipo di persona che uno si aspetterebbe di trovare tra i sostenitori della candidatura alle Olimpiadi». Dempsey è un consulente che lavora per la società Bain & Company, un tempo guidata all’ex candidato repubblicano alle presidenziali Mitt Romney. Già all’epoca delle prime discussioni sulla candidatura di Boston, nel 2013, Dempsey era una figura piuttosto conosciuta nell’ambiente politico di Boston. Era stato assistente del segretario ai Trasporti durante l’amministrazione di Deval Patrick, l’ex governatore del Massachusetts (lo stato dove si trova Boston); ed è un amico ed ex collega di Rich Davey, l’amministratore del comitato “Boston 2024″, il principale gruppo a sostegno della candidatura di Boston alle Olimpiadi.
Inizialmente, Dempsey era favorevole al progetto, anche perché, almeno sulla carta, i promotori delle Olimpiadi hanno degli ottimi argomenti a loro favore. La manifestazione porta con sé miliardi di euro in investimenti e permette la riqualificazione delle aree urbane più svantaggiate. Secondo quello che è oramai diventato un luogo comune, le Olimpiadi hanno l’effetto di aumentare a lungo termine gli investimenti privati e il turismo. Per un mese, la città ospitante è al centro dell’attenzione mediatica mondiale e questo, almeno in teoria, non può non avere un impatto positivo in termini di pubblicità.
Inoltre, nel dicembre del 2014, il Comitato Olimpico Internazionale (IOC) aveva annunciato il piano “Agenda 2020“, una serie di riforme che hanno lo scopo di rendere le Olimpiadi più sostenibili e più interessanti anche per le piccole città. Si tratta, scrive Carioli, «di un riconoscimento delle critiche che sono state rivolte al comitato in seguito agli eccessi come quelli di Pechino 2008, che secondo molti hanno trasformato le Olimpiadi in una vetrina per città piene di soldi e uno spreco di tempo per tutti gli altri». Secondo alcune stime, le Olimpiadi di Pechino sono costate 40 miliardi di dollari. Quelle di Atene nel 2004 ne sono costate 11, quelle di Sydney 1,3 e quelle di Barcellona 6,1. Il programma 2020 aveva l’obbiettivo di limitare le spese eccessive e di riportare la manifestazione a una dimensione più equilibrata. Le Olimpiadi del 2024, le prime che dovrebbero implementare completamente la nuova agenda, in teoria sarebbero state perfette per Boston, una città di poco meno di 650 mila abitanti: il progetto presentato dal comitato promotore andava proprio in questa direzione e prevedeva spese basse e strutture a impatto ridotto, tra cui per esempio uno stadio temporaneo, da smontare a fine manifestazione.
Ma per quanto tutto sembrasse a favore dei giochi di Boston, Dempsey racconta che più ci pensava, più l’idea gli sembrava assurda. Per quanto ridotte e sostenibili, le Olimpiadi sono pur sempre le Olimpiadi. Una vittoria della candidatura di Boston avrebbe significato «togliere tempo e attenzione a temi come l’educazione e le abitazioni per i più poveri e spenderlo su questioni come: “Dove andrà il velodromo? Chi lo pagherà?” Per me divenne molto chiaro che, se avesse vinto il Comitato 2024, per i dieci anni successivi l’unico tema su cui si sarebbe discusso sarebbero state le Olimpiadi». Dempsey, invece, ritiene che la città di Boston abbia altri problemi che meritano l’attenzione della politica e della cittadinanza, come ad esempio il suo sistema dei trasporti pubblici in crisi e la mancanza di alloggi popolari. Così, alla fine del 2014, Dempsey insieme al suo amico Liam Kerr, responsabile dell’educazione per il partito democratico del Massachusetts, formò il comitato “No Olimpiadi di Boston 2024″.
La loro era una battaglia che sembrava destinata a fallire: «Con un budget virtualmente inesistente – scrive Carioli – e un team di tre volontari, l’organizzazione si preparava ad affrontare una coalizione che includeva i principali uomini d’affari della città, filantropi, politici e leggende dello sport locale». Il loro arsenale, continua Carioli, comprendeva poco più di «un account Twitter, un sito e una presentazione Power Point». Ma nella loro battaglia avevano anche degli alleati importanti: «un crescente numero di ricerche accademiche che dimostrano come le Olimpiadi sono veleno per le città». Gli spettacolari fallimenti delle Olimpiadi di Atene, il costo immenso di Pechino e l’insuccesso di altre grandi manifestazioni internazionali, come l’Esposizione Universale di Hannover, hanno attirato l’interesse di accademici ed esperti che hanno iniziato a studiare gli effetti di questi eventi sulle città che le ospitano. Uno dei principali studi è stato realizzato proprio da un ricercatore del Massachusetts, Andrew Zimbalist, autore di “Circus Maximus: The Economic Gamble Behind Hosting the Olympics and the World Cup“, nominato dall’Economist miglior saggio di economia del 2015.
Il libro di Zimbalist è stato pubblicato proprio mentre il comitato di Dempsey riusciva ad attirare attenzione sul dibattito sull’opportunità di ospitare la manifestazione, e smentisce quasi tutti i più diffusi luoghi comuni sulle Olimpiadi. I guadagni dichiarati dai comitati organizzatori, ad esempio, spesso sono frutto di sussidi pubblici mascherati. Le maggiori presenze turistiche in genere vengono compensate dai costi per le misure di sicurezza aggiuntive e dai problemi causati dalla congestione. Inoltre, le Olimpiadi spesso producono un aumento delle disuguaglianze, perché le strutture sportive vengono costruite in zone destinate all’edilizia popolare. Infine, Zimbalist scrive che non è dimostrato un collegamento tra Olimpiadi e aumento degli investimenti esteri a lungo termine.
All’inizio, Dempsey e gli altri membri del comitato usarono gli argomenti economici per persuadere i gruppi di interesse, come gli albergatori, mentre con il grande pubblico usarono soprattutto l’argomento del costo/opportunità: organizzare le Olimpiadi avrebbe distolto l’attenzione dai veri problemi della città. Ma dopo aver ricevuto il consiglio di alcuni amici, cambiarono in parte la loro linea d’attacco e iniziarono a sottolineare una clausola che il Comitato Olimpico Internazionale è quasi sempre riuscita a imporre alle città ospitanti, ossia che qualunque aumento di costi imprevisto della manifestazione debba essere coperto dall’amministrazione locale.
Si tratta di una tra le più importanti clausole con cui lo IOC si assicura un elevato controllo sulla gestione e sul finanziamento delle Olimpiadi e deriva dal fatto che ci sono molte città in competizione le une tra le altre e quindi per il Comitato Olimpico è relativamente facile imporre condizioni ad esso vantaggiose. Sono clausole spesso tenute nascoste al pubblico durante i negoziati tra le amministrazioni locali e lo IOC, che restano a lungo riservati. Quando però al pubblico diviene chiaro che spetterà ai contribuenti ripianare le perdite delle Olimpiadi andate male, in genere l’appoggio per la manifestazione precipita. Il 75 per cento degli abitanti di Chicago era a favore della candidatura alle Olimpiadi del 2016, ma il sostegno è crollato sotto il 50 per cento quando è diventato chiaro che l’amministrazione avrebbe dovuto garantire le spese della manifestazione.
A Boston, il supporto per Olimpiadi non è mai stato particolarmente forte: il livello più alto è stato il 51-55 per cento del gennaio 2015. Da allora non ha fatto che calare. Il lavoro del comitato di Dempsey e la gestione maldestra dei negoziati da parte del comitato “Boston 2024″, con dettagli riservati e scomodi pubblicati regolarmente dai giornali locali e dai giornalisti d’inchiesta, hanno eroso costantemente il consenso alla manifestazione. La campagna è stata breve e combattuta duramente. Il presidente del Comitato Olimpico degli Stati Uniti, Scott Balckmun, schierato a favore della manifestazione, descrisse quel periodo come: «Il momento più impegnativo e faticoso della mia carriera professionale». A luglio del 2015, appena sette mesi dopo la presentazione formale della candidatura, la città annunciò ufficialmente che si sarebbe ritirata dalla gara.
Gli attivisti di Boston hanno trascorso i mesi successivi a consigliare i loro omologhi di Amburgo, un’altra città candidata alle Olimpiadi del 2024. Lo scorso novembre, gli abitanti della città hanno votato per ritirare la candidatura. Negli ultimi anni Cracovia, in Polonia, e St. Moritz, in Svizzera, hanno tutte seguito percorsi simili. Sempre più esperti sostengono che l’unico modo per rendere redditizie le Olimpiadi è costruire delle strutture permanenti dove far ritornare i giochi ogni quattro anni. La storia di Boston, conclude Carioli, sembra essere un’ulteriore dimostrazione di questa teoria: «Il sogno di fare delle Olimpiadi che siano allo stesso tempo più accessibili e più egualitarie sembra essere destinato a rimanere irraggiungibile»