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sabato 24 dicembre 2011

Meritocrazia o valorizzazione del merito ?

di  A. Lalomia

Ha ragione Giorgio Israel, quando, riflettendo sulla differenza che esiste tra due formule apparentemente equivalenti, quali  "meritocrazia"  e  "valorizzazione del merito", opta  per la seconda.
Per quanto mi riguarda, accolgo senz'altro il suo invito a non usare più la prima locuzione, per gli stessi motivi che egli ha chiarito in modo come sempre lucido e convincente nel suo articolo e che sono sintetizzati nel finale  (1).
L’articolo di Israel, comunque, è importante anche perché solleva una questione poco dibattuta   (almeno in Italia): e cioè quanto possano essere affidabili i ‘tecnici’  (o esperti,  o saggi,  o dotti, o come altro li si voglia chiamare)  nella conduzione della cosa pubblica.
Nella Storia, non sono rari i casi di personaggi di indubbio prestigio intellettuale che, una volta passati dalla cattedra universitaria o dall’ufficio di dirigente d’azienda o di ente pubblico alla poltrona di ministro si sono dimostrati poco brillanti  (a voler essere generosi), sia sul piano della comunicazione che su quello delle iniziative portate a termine.
Da un economista di fama internazionale, per dire, ci si aspetta che adotti provvedimenti di ben altro spessore rispetto a quelli che potrebbe suggerire un qualunque ragioniere o fiscalista di provincia.
Ma qui forse sta uno dei punti centrali della gestione della cosa pubblica: e cioè, quanto potere reale hanno i ministri rispetto alle oligarchie burocratiche che di fatto controllano l’intero apparato pubblico, anche attraverso reti parentali che si configurano come dei veri e propri clan ? 
Non è un mistero per nessuno, credo, che in alcune strutture pubbliche certe assunzioni avvengono senza concorso, in genere sulla base di contratti a termine   -senz’altro regolari, per carità-  che però vengono prorogati all’infinito, fino a quando il precario viene assunto in pianta stabile  (al massimo dopo un esamino interno).  
Ed è altrettanto noto che i suddetti contratti a tempo determinato sono spesso il frutto di un’azione di pressing da parte di dipendenti di ruolo per aiutare un parente o un amico.  Non è una procedura virtuosa, siamo d'accordo, ma non credo che si possa parlare di un fenomeno paragonabile ad un illecito compiuto nella piena consapevolezza di infrangere la legge.  È un comportamento che rientra in un certo tipo di mentalità comune, in pratiche condannate da tutti a parole ma tranquillamente seguite nei fatti, perché in realtà vengono considerate normali e quindi non provocano alcun senso di colpa.
È un meccanismo con cui nel nostro Paese  -notoriamente arretrato sul piano delle iniziative  a favore dei senza reddito, per cui la famiglia spesso rappresenta l’unico ammortizzatore sociale, il solo ufficio di collocamento affidabile-   si risolvono problemi che altrove vengono delegati invece ad agenzie che si occupano veramente di favorire l’inserimento dei giovani, o di chi comunque è privo di un lavoro, nel ciclo produttivo.
È  il modo in cui un genitore riesce ad assicurare al figlio disoccupato un incarico, magari proprio nello stesso ministero od ente in cui egli lavora e comunque sfrutta le sue conoscenze per dare un futuro al figlio.  Al genitore qualcuno potrebbe anche rivolgere un elogio per il senso di amore paterno che dimostra  (2).  Resta da vedere se il figlio possiede davvero le competenze per poter rimanere nell’ufficio in cui l’hanno fatto entrare, attraverso un canale interdetto ai suoi coetanei  (con gli stessi problemi che ha lui).
Fino a quando non scioglierà il nodo delle dinastie burocratiche, le iniziative messe in cantiere dai vari governi difficilmente potranno consentire all’Italia di porsi sullo stesso piano di altri paesi più evoluti. 
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Note
(1)  "[...] Un conto è valorizzare il merito, cioè stimolare tutti a migliorare, a primeggiare, premiare chi fa meglio, anziché frustrarlo e umiliarlo appiattendolo sui nullafacenti. Altro conto è parlare di "meritocrazia", ovvero di governo di coloro che primeggiano. Le parole sono pietre e "meritocrazia" è una parola profondamente ambigua che, non a caso, piace ai tecnocrati. "Valorizzazione del merito" è una bella espressione, tanto lontana dall'egualitarismo di marca totalitaria, quanto aperta e inclusiva.”.

      (2) Anzi, in alcuni casi il genitore che non supporta il figlio nella ricerca del lavoro o che non lo raccomanda viene considerato un cattivo genitore.  E questo non da oggi e non soltanto dai mediocri. Al riguardo, vorrei ricordare almeno Giacomo Leopardi, che nella famosa  “Lettera al padre”  del 1819 rimprovera al genitore il suo mancato impegno per garantirgli un impiego degno della sua condizione sociale e del suo talento.  È appena il caso di precisare che per Leopardi la questione delle competenze non si poneva, vista la levatura intellettuale del personaggio.
     Di seguito, il passo della lettera in cui Giacomo esprime le sue amare riflessioni sul mancato aiuto da parte del padre.
     "[...] Certamente non l'è ignoto che non solo in qualunque città alquanto viva, ma in questa medesima, non è quasi giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia preso di mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene: e taccio poi della libertà ch'essi tutti hanno in quell'età nella mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella che mi s'accordava ai 21 anno. Ma lasciando questo, benché io avessi dato saggi di me, s'io non m'inganno, abbastanza rari e precoci, nondimeno solamente molto dopo l'età consueta, cominciai a manifestare il mio desiderio ch'Ella provvedesse al mio destino, e al bene della mia vita futura nel modo che le indicava la voce di tutti. Io vedeva parecchie famiglie di questa medesima città, molto, anzi senza paragone meno agiate della nostra, e sapeva poi d'infinite altre straniere, che per qualche leggero barlume d'ingegno veduto in qualche giovane loro individuo, non esitavano a far gravissimi sacrifici affine di collocarlo in maniera atta a farlo profittare de' suoi talenti. Contuttoché si credesse da molti che il mio intelletto spargesse alquanto più che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, nè le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia. Io vedeva i miei parenti scherzare cogl'impieghi che ottenevano dal sovrano, e sperando che avrebbero potuto impegnarsi con effetto anche per me, domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo di vivere in maniera adattata alle mie circostanze, senza che perciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle risa, ed Ella non credè che le sue relazioni, in somma le sue cure si dovessero neppur esse impiegare per uno stabilimento competente di questo suo figlio.[...]".